Vilmo Cappi – Il passo del Po

Questo esposizione è tratta da dei suoi racconti di guerra inediti
Vilmo è stato un guerriero, un medico scrittore guerriero. Non un combattente di professione ma forzatamente guerriero, ha fatto prevalere anche in quei tragici momenti le doti di umanità che sono sue proprie e degli “Uomini di buona volontà”.
Per sua ammissione questi racconti sono tutti veri, in parte autobiografici, si riferiscono agli ultimi mesi di guerra e al periodo in cui era medico della la Brigata Giustizia e Libertà. Brigata che era in prevalenza espressione del vecchio e scomparso partito d’Azione, che fu operosa nell’Appennino Tosco Emiliano (a cavallo della Linea Gotica) e che entrò in Bologna tra i primi “liberatori”, così si diceva, insieme ai polacchi di Anders, agli Alleati e con la Divisione italiana Legnano.
Il passo del Po
La strada correva quasi azzurra tra il verde e il giallo dei campi verso il fiume; veniva dai monti e dopo, oltre il fiume, correva verso altre montagne, del Trentino, dell’Alto Adige, del Tiralo. Andava, veloce e serpiginosa, in mezzo e nel cuore della vecchia valle, fatta di argille e di sabbie, tra interminabili filari di olmi e di viti, accompagnata dai pali di legno del telegrafo e della luce. Azzurra di catrame, tra il verde delle erbe e dei coltivati, come una striscia lunga di cielo. Una decina di chilometri in vicinanza del fiume, le campagne diventavano ancora più verdi e più fitte e la strada più svelta. Infine si univa con un guizzo alla strada ferrata ed insieme aggredivano l’argine, correvano un poco insieme sull’argine e balzavano oltre il fiume affiancate e sorelle. Una volta di là, più sicure oramai, andavano, una poco discosta dall’altra, incrociandosi e baciandosi, tra campi e canali fino alla grande e popolosa e bella città di Verona, ai piedi di altri monti e di altre regioni.
In quel tempo, alla fine di Marzo e ai primi di Aprile, il Po si era come svegliato. Come ogni anno, la stagione fredda che finiva e quella dolce che si affacciava avevano dato ai fiumi dei monti vigorie, acque e baldanze e questi le trasferivano al loro Re che mugghiava. Non c’è cosa al mondo che possa paragonarsi al Po quando è pieno e si rotola; il fiume non ha rabbia, ma forza, solo forza, una forza immensa, che non ha un eguale nella dolce pianura; quintali di tonnellate e tonnellate di acqua, più potenti di un enorme mucchio di locomotive.
La strada arrivò stracolma di soldati e di automezzi, puntando come un cavallo, contro l’argine, dove prima erano i ponti; il fiume era massiccio come un muro che andasse, come una fortezza di cemento e di ferro liquefatti. Il suo muro fluido sbarrò la strada ai soldati che cercavano i vecchi ponti di barche ondulanti sui grandi barconi ancorati, i ponti arditi di cemento armato e di ferro, dalle salde arcate, saltati per aria, distrutti, sventrati, mutilati dalle bombe; là, dove finiva la strada, il fiume era più stretto e guadabile, le sponde più vicine, ma con gorghi e correnti di acque.
Con occhi inquieti i soldati dalla sponda studiavano il fiume, per combatterlo e vincerlo, e salvarsi. Da conbattenti quali erano, quei veterani cercavano di vincere il fiume. Era come una nuova e diversa battaglia, ora, da combattere, da calcolare, da studiare, ora, dopo così lunghi anni di pericoli affrontati e superati. Ma i loro pensieri non erano vili o miserabili. Di là, se non la fine della guerra, ma forse c’era anche quella, c’era la possibilità di raggiungere le loro mogli bionde e spaurite, i loro bambini innocenti dagli occhi di cielo, da abbracciare e da consolare, da difendere, le loro case bruciate da ricostruire; poco di là dal fiume, nulla per chi aveva marciato tanto e così a lungo, a lungo, sulle interminabili strade delle loro invasioni, si cominciava a parlare la loro lingua. Poco di là, si affacciavano le colline, i monti degli abeti, dei laghi e dei rododendri e le larghe distese delle terre che avevano coltivato, dove avevano sofferto ed amato, le case dove erano nati, le città dalle quali erano partiti tra applausi e fanfare, mazzi di fiori e di rose, sorrisi, ora sembrava un racconto, cantando, le bandiere spiegate, lucide trombe squillanti e tamburi secchi e battenti in testa a formidabili Reggimenti.
Invece la Morte, piena di invenzioni, li vinse; li raggiunse, non in battaglia, come era nel loro diritto e come ne erano degni, ma a tradimento. Li colse con crudeltà e senza gloria, negli ultimi giorni di guerra; coloro che aveva risparmiato per anni in luoghi diversi e lontani, tra il fragore delle bombe e l’urlo dei combattenti, li colse quasi in silenzio, quasi davanti alle loro case, nell’atto e nel tentativo di attraversare poco più di un chilometro d’acqua; tutti o quasi tutti li colse per loro sola scelta e per loro sola volontà, apparenti.
Erano i soldati più giovani a non rassegnarsi, i più giovani, che non temevano la forza e l’insidia del fiume. Ma senza esserne consapevoli erano come impazziti e neanche la vicinanza della Morte, che per esperienza conoscevano insidiosa ed astuta, che ora sentivano volare nell’aria sopra di loro o camminare tra loro per sceglierli e toccarli, li rinsaviva. La sentivano parlare. Erano ciechi, e furenti quei guerrieri, come giovani tori dentro uno steccato; sembravano proprio bestie alle quali si desse la caccia dentro un breve recinto; dei tonni in una tonnara prima della mattanza. Come un branco di bufali costretti dai butteri si gettarono nel fiume che aspettava. Entrarono forti e decisi dentro il fiume. Il fiume cominciò ad ucciderli.Li prese con mani invisibili e infinite. Dal fondo, afferrava i corpi degli uomini, le gole degli uomini, le loro gambe e li sommergeva; li soffocava di acqua. Afferrava gli uomini come le dita di un mungitore afferrano i capezzoli da mungere, come le ventose di una macchina la parte da trattenere. Prima capovolse le barche e i gommoni; nel mezzo del fiume le barche stracolme si ribaltarono come tronchi di alberi, mal cariche, con un guizzo, come corpi neri di squali.
. Gli uomini erano affardellati con zaini e fucili e morirono tutti.
Dopo, affondarono le zattere; erano fatte con fascine, usci, imposte, botti, navazze da vino; i soldati avevano saccheggiato le stalle per trovare qualunque cosa che potesse galleggiare o rimanere per qualche tempo a pelo dell’acqua. Anche le zattere affondarono nel mezzo del fiume, imbevute di acqua, appesantite dall’acqua, che le attirò sotto e dentro di sé, lentamente, mentre gli uomini sdraiati remavano con le braccia, ansimando. Andarono a fondo, per la semplice gravità del loro peso e con loro gli uomini che vi erano sopra. Morirono tutti.
Poi gli uomini cominciarono a scendere, ad uno ad uno, o a piccoli gruppi di tre o quattro, legati insieme, nel fiume che li aspettava. Alcuni con i vestiti e parte dell’equipaggiamento. Affondavano i piedi, gli arti inferiori, il tronco con cautela, poi sparivano di colpo o un poco si portavano al largo nuotando. Affondarono nel mezzo del fiume. Il Po li coprì con tonnellate di acqua; ruotando e schiumando; poi li portò verso il mare o li incagliò nei piloni spezzati dei ponti o tra i rami sporgenti dalle sponde. Era una cosa silenziosa e terribile, inspiegabile; e tutti la vedevano svolgersi, dall’argine.
Ad un certo punto uno qualsiasi, uno che non era più nulla, d i cui nessuno sapeva nome o piastrino, tra la folla brulicante dell’argine, cominciò a cantare. In un brusio quasi impercettibile la sua voce si alzava come il volo di un’allodola nella valle, un punto nel cielo. Prendeva tutto l’orizzonte, ma sembrava che nessuno di quegli uomini che si affannavano od erano sdraiati ad aspettare la sentisse; almeno nessuno sembrava ascoltarla.
Il tono della voce era disuguale e sembrava che l’uomo improvvisasse; dei versi, delle frasi e forse anche la musica, la melodia, come in un Lied; la voce era sottile e forte insieme, come quella di un ragazzo prossimo alla virilità. Era sola sull’argine. Era dolce e triste. Diceva, nella sua lingua straniera:
Stavo a Gottinga con i miei nel giardino
quando sulle corolle bianche dei fiori
si adagiò una polvere nera.
Era la polvere nera della guerra.
Oh, quanto erano candidi i fiori del mio giardino!
Oh, quando potrò rivederli a Gottinga!
Noi stavamo a Tobruk e io stavo scrivendo
quando si adagiò sul bianco della mia lettera
la polvere nera della guerra.
Coprì i pensieri e le mie frasi d’amore.
Oh, quanto era dolce scriverti versi di amore!
Oh, quando potrò mai rivederti a Gottinga!
Eravamo a Kiev, trincerati nel ghiaccio
quando si adagiò sul bianco della neve
la polvere nera della guerra.
Era una polvere nera e rossa di sangue.
Oh, quanti giacciono ora nel ghiaccio di Kiev!
Oh, quando potrò rivedere il sole di Gottinga!
Ora siamo davanti alla riva del fiume
ed ecco che si adagia sul bianco della mia voce
e sull’acqua che corre una polvere nera.
E’ la polvere nera della guerra.
Ahi!, che non canterò più sul mio fiume,
Ahi!, che non rivedrò più la mia casa a Gottinga!
Quando il cantore finì, altri uomini erano morti ed altri stavano per morire. Il giorno stava per finire e lontano si sentiva il cannone. Sparava sulle città e sugli eserciti. Sembrava, così lontano, il rullare di un grosso tamburo, un tuono d’estate, continuo. Dalla piccola altura dell’argine si vedevano all’orizzonte alzarsi fumi neri d’incendi, sparsi e lontani; si levavano, sparsi nella valle, verso sud e il vento li faceva grigi e poi bianchi e li spingeva con lunghe strisce, come piccole nubi, in alto e sulle campagne.
La sera stava diventando notte e il cielo diventava rosso e viola, segnato in basso da un leggero filo di nebbia; imbruniva ma nella parte alta era più chiaro e quasi azzurro. Prima che si vedessero le prime stelle, arrivò e si fermò contro la costa dell’argine una camionetta, anfibia, variegata come un serpente, con a bordo tre ufficiali e un soldato. Gli uomini erano ricoperti di polvere, con grandi occhiali rotondi, a pressione, da motociclisti sul viso, spettrali, le divise, i peli della barba e delle sopracciglia ricoperti di grigio. Venivano per strade trasverse dalla zona del combattimento, per loro vittorioso, del Dragoncello.
La battaglia era durata 3 giorni. Si era aperta, inaspettata e temuta, all’improvviso, tra il comparire dell’alba e il finire della notte, poco fuori dal gruppo delle case che sono il paese. Cominciò con l’uccisione, di sorpresa, di tre soldati tedeschi, tre veterani, che stavano attorno ad un piccolo fuoco di sterpi e di brace, acceso tra i sassi, a scaldare o a cuocere delle cose. Due erano in piedi; il terzo, seduto sui talloni, stava rivoltando una salsiccia con il coltello del pane. Furono falciati dalle raffiche di un paracadutista che sparò all’improvviso, prima di toccar terra o appena a terra, spaventato di essere stato portato dal vento così vicino e in mezzo ai nemici. I due, che erano in piedi, caddero, piegandosi su loro stessi, come spezzati a metà; il terzo cadde in avanti, prono, con il viso sul fuoco. Così poi disse la gente.
I parà che avevano già toccato terra non si erano ancora appostati, che i Tedeschi, balzati allo sgranarsi della raffica dalle case e dagli automezzi e saltati al riparo degli alberi e dei fossi, avevano già cominciato a sparare, ordinandosi in battaglia; così in fretta che alcuni fecero in tempo, si disse, a mirare nella fioca luce dell’alba incipiente a dei paracadutisti italiani che stavano ancora scendendo lentamente e che avevano cominciato a sparare a loro volta, alla boia e senza speranza. Il combattimento sul campo, compresa una tregua di due ore chiesta da un capitano austriaco per far allontanare gli abitanti, durò altri due giorni e si spense quando la formazione tedesca, rimasta padrona del campo, potè riordinarsi e marciare con i suoi automezzi verso il fiume.
Morirono dei nostri, 31 paracadutisti, di cui due sottotenenti, cinque caporali maggiori, cinque caporali; dei Tedeschi, compresi i primi tre, nove uomini, tra cui si disse un ufficiale superiore, forse un generale. Morì anche un civile, assassinato; era un uomo anziano, leggermente claudicante. I civili erano stati messi in fila e fatti allontanare velocemente. Egli, per quanto sollecitato e spintonato, seguitava a camminare più lento degli altri. Non capiva quello che gli urlavano; era spaventato; restò ancora più indietro. Un soldato credette che facesse apposta, per chissà quale suo disegno, per prolungare il breve tempo della tregua e favorire l’appostamento degli Italiani o perché d’accordo con i partigiani e lo freddò con una scarica. Si accorsero poi che aveva un arto ortopedico.
Dietro la camionetta arrivò subito il resto della formazione tedesca; erano pochi camions, verdastri e polverosi, una breve colonna di automezzi che, nel buio, sembrava una fila di enormi coleotteri semiciechi in cammino, lentamente, uno dietro l’altro su di un nastro scuro che era la strada. I soldati, seduti con la schiena appoggiata alle sponde, le armi pronte tra le gambe, immobili e pensierosi, senza parole tra loro. Seppero, o già sapevano, che il ponte era saltato e si fermarono, in fila e senza rumore, lungo la costa dell’argine. Prima che facesse giorno, partirono, tirandosi dietro gli altri, quelli che erano arrivati prima, meno qualche sbandato che poi si arrese e passarono il Po, non si sa dove né come.
Al primo apparire del giorno, ma Dio sa da quando erano in movimento, comparvero le truppe degli Alleati. Erano Americani. Erano una fila interminabile di Schermami, con la stella bianca sulle corazze, enormi e poderosi, sferraglianti, così vicini tra loro che sembravano quasi attaccati e con loro, tra loro, una fitta fila di cannoni e di artiglierie autotrainate, di automezzi pieni di uomini e di munizioni e gruppi di jeeps, di autoblinde, di autoambulanze, che li sorpassavano e che andavano, veloci ed inarrestabili, agli antichi passi del Po; e sopra di loro, fitti nel cielo, in alto come branchi di storni o bassi e radenti come rondini, a protezione, quasi una nube di aerei. Incrociavano radi camions di prigionieri, presi in sacche e in luoghi raggiunti chissà dove da altre forze alleate, laceri e polverosi, attoniti e stupefatti. Sui cigli della strada o già buttate nei fossi e nei campi dai bulldoozer, sventrate dall’aviazione, le carcasse degli automezzi della Vermacht, ribaltate sui fianchi come corpi di animali preistorici colpiti a morte; con ciò che restava dei loro colori da serpenti sembravano proprio corpi di sauri antidiluviani verdastri, lacerati e bruciati da un cataclisma.
In breve tempo poco dopo il passaggio degli eserciti le morbide rive del fiume e la strada ritornarono come prima. E così il luogo e il campo della battaglia, la campagna piena di cespugli e di alberi in germoglio, i lunghi prati, verdi di erba medica e di corti gambi di frumento, i pioppi e gli olmi, con rade piccole foglie verdi nei rami pelati dalle raffiche, disposti in lunghe file od in piccoli gruppi. Le rive del Po, punteggiate di macchie di verde e di piccoli boschi di pioppi diritti, figli del Dio e delle Ninfe, come ci avevano insegnato nelle Scuole. Il cielo, sereno, come quello dei giorni di Aprile, il cielo trasparente e sereno che si ha nelle prime ore dell’alba o della sera, in quel mese, nella dolce pianura. La vegetazione, così bella e luminosa dove era stata risparmiata, era piena di canti e degli squittii degli uccelli.
Tratto da: Caleidoscopio Letterario – Vilmo Cappi – La morte dei poeti ed altre storie
Autore: Vilmo Cappi
Periodico mensile CALEIDOSCOPIO
Anno 1994