I Saplass
“Al sta in di Saplass…”
Così si diceva di un contadino che vendeva damigiane di un vino fatto da lui. Ci aveva portato come campione qualche bottiglia, che aveva deposto a terra con le sue mani enormi e rugose. Un vino bianco, torbido e aspro. A volte, parlando di altri che abitavano là, si accompagnava la frase con un sorriso un po’ canzonatorio. Io ero un bimbetto, e di quella parola, “saplass”, pronunciata oltretutto con straboccanti s mirandolesi, comprendevo solo vagamente il senso. A volte la frase veniva accompagnata da un gesto indefinito che pareva indicasse un luogo non lontano, ma come remoto, fuori dalla civiltà. I Saplass mi facevano pensare a una palude, forse per assonanza coi Sargassi, forse per il suono, che mi suggeriva l’immagine di individui che camminavano nell’acqua bassa e fangosa: saplass, saplass… E silenzio, e nugoli di zanzare, e ogni tanto un guizzo di rane.
Sul fondo di una di quelle bottiglie trovammo un lombrico, lungo e pallido, diafano di alcol. Scuotendo un po’ la bottiglia ondeggiava, come su un fondale marino. Da quel momento il contadino non fu più visto a casa nostra.
Venni poi a sapere che i Saplass altro non erano che Via Zappellazzi. La denominazione topografica precisa, con la sua schiera di z taglienti, metteva in riga le sinuose s, e trasformava un mondo misterioso ed esotico in un banale crocevia di campagna. Dove però, chissà… un tempo magari c’erano acquitrini e paludi, e individui oscuri che vi si aggiravano con un rumore di saplass.
Maurizio Goldoni