Graziano Scotto di Clemente – Mirandola
L'immagine è stata gentilmemte concessa da Marco Mascherini
Mirandola
“La bassa”, quella parte delle province emiliane che si trova sotto il livello del Po, terra conquistata dal lento accumularsi di sedimenti portati dal grande fiume e dai suoi affluenti, terra di argilla e sabbia, di pantani autunnali e crepe estive, di contadini spesso in rivolta e di piccole signorie rinascimentali che da quelle argille hanno ottenuto grano e oro per i loro castelli di mattoni rossi, è ormai ben lontana dalla battigia dell’Adriatico.
Molti anni fa “la bassa” mi si presentava quando il treno proveniente dal Veneto si fermava alla stazione di Revere, alta sopra l’argine del fiume Po, appena oltre il ponte di ferro che la univa alla stazione di Ostiglia. Affacciato al finestrino, non sempre riuscivo a scorgere l’altra riva, le nebbie si espandevano sopra la pianura estesa sotto l’argine, avvolgevano alberi e orizzonti. Poco più avanti, scesi dal treno alla stazione di Cividale, con una piccola corriera blu si percorreva la galleria nebbiosa costituita dalle fronde dei tigli e si arrivava alla piazza di Mirandola. Qui, tra il castello dei Pico e il palazzo rinascimentale del Comune, si muovevano rapidamente uomini in tabarro e donne con i capelli velati da foulard neri, sopra biciclette anch’esse nere: le vedo ancora con la flebile e traballante luce che usciva dalle loro lampadine e tagliava, diffondendosi caoticamente, il muro della condensa nebbiosa che penetrava perfino attraverso i muri di mattoni nelle cucine della mia infanzia.
Altri tempi, quando i contadini che arrivavano in piazza, per il mercato del sabato, si fermavano a leggere le pagine dell’Unità o dell’Avanti appese nelle bacheche sotto il portico del palazzo comunale e nel loro dialetto dalle vocali aperte le commentavano ad alta voce.
Le donne anziane con i capelli bianchi che sporgevano dai foulard scuri passavano di fianco senza badarci troppo, con le sporte di vimini piene della spesa fatta al mercato.
Noi bambini correvamo tra queste figure rincorrendoci per cercare di pizzicare le gambe nude dell’amico con un elastico rimediato da qualche parte. Il bello, visto con gli occhi di oggi, era soprattutto il fatto che nessuno s’interessava di noi, né ci angustiava con il “dove vai” o il “cosa fai”. I piani terra di molte case e palazzi lungo i vicoli e le strade de La Mirandola erano occupati da artigiani di tutti i tipi: calzolai, falegnami, fabbri, elettricisti come il padre di Adelchi presso il quale si potevano vedere i rocchetti di filo di rame srotolarsi per riavvolgersi intorno ai rotori di ferro che poi sarebbero diventati gli elettromagneti di motori elettrici. Sul banco di fianco erano invece gli statori a raccogliere il lungo e flessibile filo ramato. Rotori e statori sono termini che imparerò a conoscere molti anni dopo, qui il fascino stava nell’osservare il movimento e l’eleganza con cui mani femminili riuscivano a guidare lo sfilarsi e l’arrotolarsi ordinato, un divenire in cui la matassa del filo si annullava in una pluralità di spire secondo una geometria poligonale a sei, o otto, o dieci lati a seconda della grandezza del motore in cui sarebbe finito il pezzo in costruzione. Ogni tanto avanzava una calamita per me, da portare a casa, ad Adelchi non mancavano. E con la calamita in tasca si passava nel negozio di fronte a prendersi un cartoccio di gnocco fritto, con qualche moneta recuperata andando a comprare il pane per la nonna o la zia.
Poco lontano una fucina come quella di Vulcano odorava di zolfo e carbone. Era un androne reso scuro da un lungo accumularsi di fuliggine che strabordava dal fornello in cui il fabbro, di cui non ricordo più il nome, ma poteva essere Esarmo, Oder o più semplicemente Ermanno, arroventava qualche asta di ferro per poi batterla fragorosamente sulla gigantesca incudine, diffondendo intorno scintille che avrebbero partecipato alla formazione della corona di briciole nerastre attorno all’incudine. Ben accolti, nel senso che nessuno ci impediva di farlo, attraversavamo l’antro per uscire nel cortile dove le aste erano saldate: bisognava guardare senza fissare a lungo la fiamma dell’acetilene ossigenata e la striscia lavica di ferro fuso che saldava tra di loro le aste della futura cancellata. Affascinante spettacolo dove chimica e fisica si stringevano misteriosamente attorno ad un oggetto che man mano cresceva, materia in trasformazione attraverso l’abilità e l’intelligenza del fabbro. Solo molti anni dopo Mircea Eliade mi spiegherà quanto antico sia il fare metallurgico e quanto mito abbia ospitato e stimolato il rosso incandescente del metallo ferroso. Al momento ci bastava immaginare di essere al cospetto di un Vulcano della “bassa”, immersi in un pulviscolo umido odoroso di ossidi. E ancora altri negozi, punti di riferimento per le nostre scorribande infantili: il panificio delle schiacciatine, il salumaio della mortadella, la rivendita di sementi e mangimi che ci forniva i semi di girasole da sbucciare, sputacchiando ovunque i piccoli tegumenti .
Ma torniamo ai Pico, o meglio al Pico: Giovanni Pico della Mirandola, esempio mirabile, per noi scolari, di memoria e di memorizzazione di poesie da saper ripetere a menadito. “Fu di aspetto insigne e nobile, di statura alta ed eretta, di carnagione delicata, di viso bello sotto ogni aspetto, cosperso di un colorito che tendeva al pallido e di un rosso che bene gli si addiceva, di occhi grigio azzurri e svegli, di capigliatura bionda e di un biondo naturale, di denti bianchi e uguali” , leggo oggi, dopo più di cinquant’anni.
Un bel “puten” avrebbero detto le amiche di mia madre a Mirandola! Così lo descriveva un contemporaneo, così veniva ritratto in un affresco a Firenze, affresco così realista da indurre il Vasari a considerarlo un ritratto “vivo”. Pico era amico di Lorenzo de’ Medici, intimo della sua corte intellettuale, già considerato eccentrico ai suoi tempi, ma ricco ed esibizionista, genio dilettante, difficile da collocare. Neo platonico ai confini dell’eresia, secondo l’Inquisizione romana, per gli interessi e gli approfondimenti sulla qabbalah ebraica e il tentativo di incorporarne gli stimoli filosofici all’interno della dottrina cristiana. Uno spirito errante, in quei decenni di risveglio culturale, che cercava di dare un nuovo senso alla filosofia ereditata dal medioevo, accompagnando i testi latini e greci dei filosofi precristiani con altri riscoperti fuori dalla tradizione ecclesiale: mediorientali, arabi, ebraici. Come quei pittori che cominciavano ad andare oltre le “conversazioni” di santi e madonne per cercare paesaggi in tempesta o figure allegoriche più complesse, che reinterpretavano l’antico della cultura classica attraverso sentimenti e pensieri più moderni. Ecco Giovanni che propone una migrazione di significati: “…Queste forme infatti dei platonici, che imitano sempre la sapienza ebraica, vengono chiamate generazioni meglio che forme…Eraclito chiamò il mare sostanza delle cose sensibili e i poeti (rif. A Omero)…chiamarono signore del mare Nettuno, che i platonici intendono come quella virtù che presiede alla generazioni.” 2 Dice Pico che al tempo di Omero al dio Nettuno fu affidato il regno del mare che si trova come “regione di mezzo” tra il Cielo, regno di Giove, e le tenebre, regno di Plutone. Questa regione di mezzo è quella dell’instabilità, della sostanza che sa cambiare forma, “di ogni generazione e corruzione” 3 . E’ il regno del divenire, dove il flusso e il riflusso delle cose mette in evidenza la loro fragilità in balia delle correnti. Un grande fiume sembra scorrere lento e pacifico se lo osserviamo dall’alto di un argine, ma impressiona quando un ramo o un tronco galleggiante, catturato dalle spirali improvvise di un gorgo o di un mulinello di corrente, scompare e ricompare, diventando massa insignificante rispetto a quella fluida dell’acqua. In questo regno tutto ciò che nasce porta in sé l’ombra del tramonto, “una generazione va e una viene” 4 . Due linee di pensiero portano allo stesso risultato, commenta Giovanni: da una parte Platone e i suoi seguaci, dall’altra Mosè, il vecchio profeta biblico. Da qui in poi l’originalità del Conte di Mirandola si spinge oltre fino a togliere ogni corporeità, ogni matericità alle acque oceaniche del dio Nettuno o quelle bibliche di Mosè e le trasforma in acque divine della conoscenza. Ma questa è una storia che si allontana dai nostri scopi.
Graziano Scotto di Clemente
2 G. Busi, R. Ebgi, op. cit., pag. 194 3 G. Busi, R. Ebgi, op.cit, pag.193 4 G. Busi, R. Ebgi, op.cit, pag.194
Alcune note dell’autore
La mia storia con Mirandola inizia nel 1948, quando mio padre, neo poliziotto, venne mandato al Commissariato di Mirandola.
Napoletano, ex marinaio, persona socievole e adattabile, non ebbe difficoltà ad inserirsi e a farsi conoscere, d’inverno, tra le fitte nebbie che coprivano le strade di Mirandola e d’estate nelle balere accaldate delle sue frazioni.
Mia madre Angela, invece, più giovane, faceva la sarta, viveva in via Marsala, allora una strada ricca di vita, di botteghe artigiane e di negozietti. Figlia di Giuseppe Camurri, operaio allo Zuccherificio e falegname, e di Anita Artioli, che concluse la sua vita lavorativa a fare la sfoglia nel ristorante Roma della sorella.
Fino a non molti anni fa, però, poliziotti e carabinieri se sposavano una donna nel paese in cui erano in servizio venivano immediatamente trasferiti in un’altra sede. Finirono quindi a Treviso, città il cui sviluppo, allora, era dipendente dalle attività dell’Esercito, così come tutto il Nord Est, la presunta frontiera “calda” della guerra “fredda”, in Italia.
Io nasco nel 1952 e con gli altri fratelli iniziamo i periodici viaggi e le relative permanenze in quel di Mirandola alternate con quelle più distanti tra gli agrumeti e le spiagge dei Campi Flegrei. Amicizie facili da trovare tra quelle strade e piazze affollate, negli anni ’50 e ’60, solo da biciclette e da pastrani neri fermi davanti alle edicole dei giornali dei partiti di sinistra che in Veneto non si vedevano da nessuna parte!
Da segnalare il successo di mio fratello alla Festa dei bimbi, accompagnato da mio zio Carlo Sani, ex allenatore della Mirandolese, poteva essere il 1960… Tra le tante cose nell’estate del 1974, allora studente universitario, passai il mese di agosto nell’assordante salone dello zuccherificio…
I viaggi attraverso l’Italia, prima con treni lenti e affollati, poi lungo le nuove autostrade hanno accompagnato i miei anni dell’infanzia e dell’adolescenza, premesse per quelli più impegnativi degli anni successivi fino alle battigie congelate del mare di Ross in Antartide nel 2007.
Adelchi
Bellissimi ricordi della mia infanzia,dove l’antro dei fabbri ,fratelli Benatti,Silvio e Francesco era luogo di scorrerie per raccattare rottami di ferro con cui costruire spade .Il negozio dove acquistavamo il gnocco e le frittelle era di proprietà della madre di Claudio e Gianni Sgarbi,una vera artista per quelle di baccalà.
31 Gennaio 2023Rileggendo ,il ricordo più bello ,è quello del “nonno Peppo” e della “nonna Nita”(al secolo Giuseppe Camurri e Anita Artioli,che all’alba della mia vita scendevano dal piano di sopra e dopo avermi alzato mi portavano nel loro appartamento (i miei genitori erano in officina al piano terra).Abluizioni,colazione e il rito della barba a rasoio in braccio al “nonno” di fronte al catino e allo specchio .Non li ringrazierò mai abbastanza per questi meravigliosi momenti.Adelchi