Dai diari di Fernanda Pivano – “1947, prendo servizio al Liceo Scientifico di Mirandola”

Dai diari di Fernanda Pivano – “1947, prendo servizio al Liceo Scientifico di Mirandola”

23 Luglio 2025 0

Ma quello che restava della mia vita doveva ricominciare Mirandola.

Il 6 gennaio 1947 ero andata a “prendere servizio” al liceo credo scientifico di Mirandola dove ero stata “assegnata”.

Ero arrivata all’alba, dopo una notte in un treno lunghissimo ancora senza finestrini. Il mio vagone si era fermato molto lontano dalla stazione e mi ero trovata lì, con le valige affondate nella neve, senza traccia di facchini  ( non si chiamavano ancora portabagagli o operatori del bagaglio  o non ricordo come si chiamano adesso, che comunque sono in via di scomparsa); e mi ero avviata nella neve con le mie scarpette dal grosso tacco alto, che usava allora, e con le gonne lunghe fino al polpaccio, per raggiungere la stazione.

la stazione era deserta. Ero uscita nella piazza: era deserta. C’era una grande scritta BAR, ma la saracinesca era abbassata. Di taxi non c’era traccia.

Poi si era materializzato un uomo, avvolto in un mantello nero, credo che si chiamassero tabarri, con un gran cappello nero calcato fino agli occhi, e mi aveva chiesto con scarsa curiosità cosa volevo; la curiosità mia era sfi­duciata mentre gli chiedevo come avrei fatto a raggiunge­re il liceo, ma cominciavo a divertirmi e a sospettare la risposta, che infatti era arrivata come un verdetto ance­strale: “A piedi”. Gli avevo detto che avevo due grosse valigie, se c’era qualcuno che poteva portarmele; aveva cominciato a guardarmi con qualche interesse.

“Due valigie?” aveva ripetuto incredulo. Lo avevo assi­curato che le valigie erano proprio due. “Be’, allora” aveva detto “aspetti un momento”.

Avevo aspettato lì in piedi. Non avevo mai avuto tanto freddo, sembrava impossibile. Quando meno me l’aspet­tavo era comparso un carretto, guidato da un uomo avvolto in un tabarro identico a quello dell’altro, che mi aveva intimato di aspettare e ora stava seduto a cassetta. Mentre scendeva aveva detto: “Dove sono queste vali­gie?”.

Era finita che i due uomini erano andati a prendere le valigie, una per uno, e le avevano caricate sul carretto, issando poi me a cassetta, e dopo una mezz’ora mi ero ritrovata davanti alla porta del liceo.

La porta era chiusa, campanelli non ce n’erano. Uno dei due uomini era sceso e aveva bussato a una finestra, finché si era affacciata una donna spettinata e avvolta in uno scialle di guerra, voglio dire di quelli di lana riciclata.

Aveva chiesto sospettosa e di malavoglia: “Chi è? Cosa volete a quest’ora?”.

Le avevo spiegato che ero venuta a prendere servizio e lei aveva risposto: “Ma il liceo è chiuso. Sono saltate tutte le tubature per il gelo. Non lo sa che ci sono 22 gradi sotto zero?”.

Le avevo chiesto dove potevo andare, se c’era un alber­go. No, mi aveva detto, alberghi non ce n’erano. I profes­sori stavano da un’affittacamere, aveva detto, in una pen­sione, ma era completa. E il preside, le avevo chiesto, come facevo a parlargli? La risposta era stata intonata al resto del disastro: “Il preside è fuori città. Arriva nel pomeriggio”.

Aveva interrotto la donna l’uomo del carretto: “Io non possoo più aspettare. Dove le metto queste valigie?”.

Era stato il freddo a suggerire una soluzione.

‘ Venite dentro” aveva detto la donna. “Se resto ancora alla finestra mi prendo un malanno.”

Dopo un gran frastuono di catenacci si era aperta una porticina ritagliata nel grande portone solenne, le due valige erano state gettate nell’androne e l’uomo si era allontanato con il suo carretto.

‘lo sono la custode” aveva detto la donna. “Mi chiamo Emilia e faccio anche da bidella. Venga in casa.”

La casa era una stanza divisa da una paratia, con un catino appoggiato su una seggiola che serviva da lavabo e il lavandino; il vero lavandino era inutilizzabile perchè mancava l’acqua, gelata nei tubi.

“Vuole lavarsi le mani?” mi aveva chiesto cercando di abituarsi alla mia presenza. Avevo ringraziato Emilia, che aveva preso una minuscola brocca e aveva versato nel catino due dita d’acqua fredda come il ghiaccio, cominciando a chiacchierare come tutte le bidelle del mondo: le nostre chiacchere consistevano nei lamenti perché faceva freddo, perchè aveva troppo lavoro, perché suo marito era un buono a nulla, perché gli allievi non le portavano abbastanza rispetto.

‘E il preside” avevo chiesto. “Com’è il preside?” Tanto una brava persona” aveva detto. “E vedesse che bell’uomo!.”

Poi dandomi una piccola gomitata e guardandomi con malizia  aveva aggiunto: “Non è mica sposato, sa. E lei, è sposata?”.

“No” , avevo risposto con un brivido di freddo. “Pecca­to aveva detto. “Una così bella ragazza. Ma il caffelatte lo ha già preso?”

Emilia era stata indimenticabilmente ospitale. Mi aveva offerto un caffelatte scaldato su un fornellino, mi aveva data un paio di ciabatte per far asciugare davanti a una stufetta le scarpe fradice, mi aveva fatto togliere il cap­potto gelato e avvolgere in una specie di coperta di lana. Intanto parlava, parlava, parlava, finché era arrivata l’ora della colazione e aveva cominciato a preparare del cibo. Gli odori della cipolla e del grasso avevano invaso la stan­za mentre ogni tanto, con innocenza, diceva: “Sente che buon odorino?”.

Il buon odorino si era concretizzato in una specie di stufato che mi aveva fatto pensare ai film western e ai pio­nieri nelle taverne settecentesche d’America. Ero riuscita a inghiottire qualche boccone, poi Emilia mi aveva costretta a sdraiarmi sul suo letto: “Tanto mio marito non ritorna fino a stasera”. “Si riposi un po’” aveva detto.

Cara Emilia. Si era seduta vicino al letto e non aveva smesso di parlare un minuto. Ogni tanto guardavo l’ora sul mio orologino di un altro mondo, con le lancette che giravano lentamente, sempre più lentamente, o così mi pareva.

Verso le cinque si era sentito bussare.

“Eccolo!” aveva gridato Emilia precipitandosi verso la porta, mentre io scendevo dal letto.

Era comparso il preside, sbalordito di vedermi lì, sopraffatto dalle spiegazioni di Emilia.

Era coperto di neve, con un bel viso slavo, pallido sotto i capelli biondi.

“Ma, signora,” mi aveva detto quando era riuscito a interrompere Emilia “perché non mi ha avvertito che sarebbe arrivata? Come ha fatto a venire dalla stazione? Oh, santo cielo.”

Lo avevo rassicurato, gli avevo detto che tutti erano stati gentilissimi con me, specialmente Emilia. Ma ora che cosa dovevo fare, gli avevo chiesto.

“Per prima cosa dobbiamo trovare una pensione’ aveva risposto con un delizioso accento slavo. “Venga.” Mi aveva fatto salire al primo piano dove aveva l’ufficio o presidenza che fosse. Una stanzetta buia, con un tavolo nudo, due sedie e un armadietto chiuso.

‘Mi chiamo Aldo Vukotich” aveva detto sottovoce. ‘Ma sono italiano.”

Gli avevo detto il mio nome; lui stava già telefonando a Teresa che avrebbe una stanza aveva detto. “E una brava persona. Ora l’accompagno lì.”

Mi aveva portato da Teresa con la macchina, trasportando lui le valigie, si era assicurato che mi desse una camera. “Le sembrerà piccola, ma qui non c’è una scelta” si era scusato. “E poi immagino che si fermerà per poco. Entrerà subito in aspettativa, vero?”

“Teresa le darà qualcosa per cena” aveva detto. “Cerchi di dormire: domattina spero che riparino i tubi dell’acqua. Venga a scuola verso le dieci. Non è lontano da qui.  Si faccia dare un ombrello da Teresa”. Mi aveva guardato con improvvisa melanconia.

“Di primavera qui è un po’ meglio” aveva detto. “Ma lei non ci sarà a vedere. Buonanotte.”

L’avevo guardato uscire un po’ curvo nel cappotto bagnato e avrei voluto dirgli qualcosa, non sapevo bene cosa, ma Teresa me lo aveva impedito.

Teresa si era rivelata anche più loquace di Emilia. Non aveva smesso di parlare mentre curiosava nella mie valige che aveva voluto subito aprire per aiutarmi, come ripetuto una decina di volte. C’era un altro pcnsionante mi aveva detto, un giovane intelligentissimo che avrebbe fatto una straordinaria carriera, e così via. Non l’ascoltavo, naturalmente. Avevo rimesso nelle valigie quello che Teresa aveva tirato fuori; ero decisa a dormire  vestita nella stanza gelata dove comunque non c’era acqua per lavarsi; era come tornare ai tempi della guerra che dopo tutto erano lontani solo di due anni.

Il giovane intelligentissimo si era rivelato un povero diavolo insabbiato lì dopo aver preso un diploma da geometra e aver commesso la debolezza di scopare con Teresa. Era così emozionato dalla presenza di un’estranea a tavola che non era riuscito a mangiare la minestra giallognola che ci aveva offerto Teresa insieme a un po’ di formaggio dello stesso colore. Ero fuggita in camera appena ero riuscita a farlo e avevo spento subito la luce per non vedere dove mi trovavo.

L’indomani avevo sul tavolo qualche garofano.

“Che belli ” avevo detto entrando. “Non abbiamo granché come fiorai’’ aveva risposto lui, con un suo modo di sorridere senza allegria. “Vuol vede­re le classi?” aveva chiesto.

Le classi erano come tutte le classi d’Italia, ma queste, cosa molto insolita, non erano cosparse di ragnatele.

“Domani ricominceremo le lezioni” aveva detto. “Non c’era stato da anni un freddo simile” aveva aggiunto, dan­domi un foglietto: “Questo sarebbe il suo orario. Se vuole qualche modifica cerco di fargliela”.

Gli avevo risposto di no, di non fare modifiche, andava tutto bene. “Grazie” aveva detto sorridendo. “Ce la farà a restare almeno una settimana? Poi la faccio entrare subito in aspettativa, va bene?”

Ero seduta su una delle due seggiole della sua stanza  ed ero rimasta lì a chiacchierare con lui, sempre più dolce via via che parlava: un uomo sconfitto. Mi aveva raccontato la sua storia, come mai era lì, la sua Spalato, suo padre, sua madre. Di mogli non si era parlato, né di mariti. Poi erano venuti gli idraulici e io me ne ero andata.

Avevo camminato per le strade deserte finché ero arrivata a una piazza con un grande stanzone che faceva da bar, pieno di uomini avvolti nei mantelli neri e coi cap­pellacci neri calcati fino agli occhi. Quando ero entrata mi ero sentita fissata da qualche dozzina di occhi brucianti e dopo un lieve imbarazzo non ci avevo più badato: cercavo un telefono per avvertire la mamma.

“Ma dove sei?” aveva gridato. Quando glielo avevo detto non mi aveva creduto.“Ma come, sei andata lì da sola?” gridava nel telefono.

Era la prima volta che andavo da sola da qualche parte “Ma perché, perché? Cosa è successo?” Continuava a gridare nel telefono.

Erano incominciate le lacrime. Le avevo detto che non potevo  parlare davanti a tanta gente, che tra una settima sarei tornata a casa.

Avevo fatto fatica a tagliare la conversazione. Come sempre ero angosciata per l’angoscia di mia madre, ma questa volta non potevo fare niente per alleviarla. Mentre mi avviavo al bancone del bar per chiedere una Coca Cola, era arrivato il preside trafelato.

‘Ma per l’amor di Dio, cosa le è venuto in mente?’’ Mi aveva spiegato che era impensabile per una donna entrare in un bar, e figurarsi poi una donna sola, per favore,andassi via subito e che non lo facessi più, e ora, per favore, andas­si con lui.

Gli sguardi che mi avevano seguito mentre uscivo con lui erano meno brucianti: gli uomini erano tornati ai loro bicchieri di lambrusco. Avevo cercato di protestare. Ma via, non siamo mica nella giungla. E l’Ottocento è finito da un pezzo. Non le pare di esagerare?”

‘No. non esagero. La prego, non mi metta in diffì­coltà!”

L’aveva detto con tanta grazia che gli avevo promesso di obbedire e non ero più tornata nel bar per tutta la settimana che avevo passato in quello strano posto. Andavo dalla pensione alla scuola e dalla scuola alla pensione; la sera il preside veniva a trovarmi nel cosiddetto salotto della pensione. Si faceva raccontare del mio lavoro, gli editori, i giornali; poi cominciava a innamorarsi di me: credo di essere andata via giusto in tempo per evitarlo.

Il treno che doveva risolvere la situazione partiva alle cinque del mattino da Modena e la sera mi aveva portato  lui in città. Lungo la strada aveva fermato la macchina. “Non posso credere che non la vedrò più” aveva detto piegandosi verso di me.

“Via, magari mi vedrà ancora” avevo detto. “E poi, se non mi vedesse più, pazienza. Chissà quante altre ragazze vedrà! La vera cosa importante da fare è chiedere un trasferimento. Mi promette che farà domanda?”

“Li farò se mi promette che mi scriverà e potrò telefonarle.”

“Ahi’’ avevo pensato. Avevo detto: “Ma lei può telefo­narmi quando vuole: mi farà piacere. Davvero”.

Aveva rimesso in moto la macchina e arrivati vicino alla stazione e a un albergo che aveva tutta l’aria di un bor­dello mi aveva accompagnato in camera e mi aveva scon­giurato di non uscire più fino al momento della partenza. Erano le undici di sera. Mi aveva salutato stringendomi pateticamente tutte e due le mani e fissandomi con quel­la malinconia.

“Allora arrivederci” aveva detto, trangugiando qualco­sa. “Arrivederci, Aldo” avevo risposto con tenerezza. “Non si dimentichi di me” ed era uscito.

Io subito avevo cercato di chiudere la porta a chiave ma la chiave non c’era. Avevo spostato un tavolino contro la porta come avevo fatto a Casale con la mamma durante la guerra per difendermi dai soldati nazisti che occupavano l’albergo ed ero rimasta seduta su una seggiola fissando il tavolino. Quando avevo sentito dei passi guardinghi avvi­cinarsi alla porta e poi lo scricchiolio del tavolo sospinto adagio mi ero messa a gridare.

“Chi è? Cosa volete?” gridavo a perdifiato. Erano giun­ti altri passi, non più guardinghi “Cosa succede?” aveva gridato una voce: “Cosa c’è da urlare?”.

Avevo spostato il tavolino, aprendo in fretta la porta. “Niente” avevo detto riconoscendo l’albergatore. “Mi ero spaventata. Senta, preferirei andare ad aspettare il treno in stazione. Mi accompagna per favore?”

“Sì, forse è meglio” mi aveva detto senza protestare. Mi aveva portato le valigie alla stazione, lì davanti, di là della piazza ed ero rimasta nella sala d’aspetto con due donne vestite da contadine che non mi avevano fatto domande.

Le mie avventure di Mirandola stavano finendo. Si erano concluse sul treno, quando avevo rigettato per mezz’ora senza riuscire a frenare i conati di vomito.

Era l’11 gennaio 1947: ero rimasta a Mirandola sole cinque giorni ma pare che ne fosse derivato un grande sconquasso, perché Teresa si era ingelosita di me, la fore­stiera, preoccupata com’era che potessi attirare l’attenzione del suo inquilino, e aveva scritto al preside una let­tera accorata, mettendolo in guardia contro di me e invi­andolo a mandar via la “straniera” prima che facesse cose “irreparabili”.

Il povero Aldo mi aveva mandato la lettera a Torino, e lì mi aveva raggiunta mentre ero in clinica a farmi operare di non ricordo cosa da Doglienti, il fascinoso, generoso chirurgo che mi era rimasto amico. Non ricordo se a quella lettera avevo risposto; mi pare di sì, mi pare di aver cercato di rassicurare lui e Teresa.

Chi era:

Fernanda Pivano

Segnalato dall’amico Maurizio Goldoni che ringrazio.

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