Bruno Andreolli – Le api della Bassa

Bruno Andreolli – Le api della Bassa

11 Ottobre 2022 0

Donna che toglie il miele, in Dioscorides Tractatus Herbis (sec. XV), Modena, Biblioteca Estense

E’ cosa risaputa che in età preindustriale l’apicoltura svolgeva un ruolo senz’altro più importante di quello che ricopre attualmente. Per lungo tempo infatti il miele rimase pressoché l’unico edulcorante a disposi­zione, mentre la cera era largamente utilizzata soprattutto per le esi­genze dell’illuminazione e della liturgia.

Nella bassa pianura la rilevanza di questo settore produttivo già in età antica viene confermato da Plinio il Vecchio, che nella sua Naturalis Historia ricorda come lungo il corso del Po fosse pratica diffusa instal­lare le arnie su zattere natanti che permettevano un facile spostamen­to a valle e a monte del fiume, il che consentiva alle api disponibilità di nutrimento ampie e diversificate. Per la bassa pianura modenese in particolare si hanno notizie circostanziate a partire dall’età medievale, con dati che confermano l’assoluto rilievo che l’apicoltura aveva in queste zone.

Negli statuti mirandolesi del Trecento sono presenti ben 12 norme che riguardano l’apicoltura e da esse si ricava che le arnie in produzione veni­vano vendute, importate ed esportate, trasportate da un luogo all’altro e perfino date in locazione. Negli statuti del dazio e delle gabelle concessi nel 1446 al comune di S. Felice dal marchese Eionello d’Este si prevedeva che “zascheduno el quale porterà, trarà o portare et trare farà, condurà e condure farà fuora del tereno et distrecto de San Felixe alcuna quan­tità di mele sia tenuto de pagare per ogni pexo de mele non lavorado dinari tre. Et per ogni pexo de mele lavorado debia pagare dinari sei”. Non si trattava di norme astratte, perché le corresponsioni di miele e cera figuravano previste da numerosi contratti di affitto del tempo. Va precisato che fino a tardi le tecniche di allevamento rimasero piuttosto arretrate, per cui ancora alla metà dell’Ottocento un illustre agronomo come Filippo Re lamentava la persistenza nelle campagne italiane di pratiche di allevamento basate in larga misura sull’apicidio e quindi non informate a criteri di tutela e di sfruttamento adeguato degli sciami. Anzi si può affermare che, dopo la scoperta dell’America, l’introduzione in Europa di grandi quantità di zucchero e dei sur­rogati della cera, portarono ad un notevole deprezzamento del miele e della cera vergine, per cui l’apicoltura attraversò un periodo di im­mobilismo tecnico, che durò fino all’introduzione, nel corso del Sette- Ottocento del telaino o favo mobile, che però in Italia fece fatica a diffondersi. Ne derivava un prodotto piuttosto grezzo – il cosiddetto pistumo – che abbisognava di vari passaggi per poterne ricavare i singoli derivati da consumare o mettere in commercio.

Né sempre i contadini avevano i mezzi e la preparazione per poter eseguire correttamente le operazioni che permettevano la separazio­ne del miele dalla cera e dalle altre sostanze, per cui nel Seicento il Mirandolese esportava soprattutto grandi quantità di postumo. Comunque il miele della Bassa godette sempre di una notevole no­mea e ancora alla metà dell’Ottocento la statistica di C. Roncaglia registra che i più alti quantitativi di miele venivano forniti da queste zone: 125 quintali a Carpi, 166 a Mirandola, ben 393 a Finale.

Perché una produzione e una produttività così alte? La risposta più plausibile resta a mio parere quella di natura ambientale. Nella bassa pianura del tempo vi erano ancora ampie distese di boschi, prati, pascoli, valli, brughiere: tutte terre adatte allo sviluppo di vaste con­sociazioni di piante, arbusti e fiori, che garantivano un pascolo estre­mamente indicato per l’allevamento delle api.

L’apicoltura rappresenta dunque un’attività che in queste zone ha alle spalle una tradizione antichissima, anche se le differenze con il passato sono notevoli.

Quella che oggi si presenta come una pratica tutto sommato ama­toriale, per molto tempo fu considerata invece un settore essenziale della produzione agricola, al punto che quasi tutti i poderi contadini ne erano dotati.

Anche l’ambiente è nel frattempo radicalmente mutato con la scom­parsa dei boschi e con l’arretramento dei prati e delle terre vallive. L’apicoltura conserva tutta via la sua importanza sia sotto il profilo delle conoscenze tecniche ed etologiche, sia sul piano della tutela di un patrimonio ambientale spesso minacciato dagli aggressivi, talora disinvolti interventi dell’uomo.

Tratto da: Acquerelli Mirandolesi – Tracce di vita quotidiana nelle terre dei Pico.

Autore: Bruno Andreolli

A cura dell’Associazione Mogli Medici Italiani Sezione di Mirandola

Anno: 2012

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