L’Emilia rossa – Mirandola dal 1946 al 2001

L’Emilia rossa – Mirandola dal 1946 al 2001

19 Novembre 2024 0

Spiegare l’Emilia “rossa”, ricca e civile è stato uno scoglio ostico per molti studiosi.

L’attribuzione dei meriti dello sviluppo ai soli social-comunisti ovviamente non regge, dal momento che la stessa traiettoria ha interessato tutto il centro-nord del Paese e regioni come il Veneto, a netta prevalenza democristiana.

D’altra parte non regge nemmeno la tesi opposta, secondo la quale la politica non avrebbe influito per nulla, perché l’Emilia-Romagna non si è limitata a crescere come altri, ma dagli ultimi posti è passata in testa alle regioni italiane. “Nella graduatoria del reddito pro-capite delle 95 province italiane” scrive Giuliano Muzzioli nella Storia di Modena”quella modenese, dal 40° posto occupato all’inizio degli anni cinquanta, è passata al 28° posto nel ’55 ed è poi salita al vertice della graduatoria nel 1980 collocandosi fra le aree più ricche d’Europa”.

Il sociologo americano Robert Putnam, saltando a piè pari il problema, ha creduto addirittura di rintracciare caratteri originali dell’esperienza emiliana negli usi civici de medioevo.

Per ragioni di contingente polemica elettorale avversari e opinionisti vari hanno invece ritenuto di rintracciare ­le cause di questi paradossi e del consenso comunista nell’organizzazione capillare del PCI e delle cosiddette cinghie di trasmissione (sindacati, cooperative, associazioni di massa di vario tenore), cioè in abili e dissimulate pratiche di clientelismo e di irreggimentazione di massa dimenticando il “dettaglio” che i principali centri di potere della vita economica locale (banche, imprese e perfino settori decisivi della pubblica amministrazione, dalle Poste, al Collocamento, all’INPS, all’Ufficio del Registro delle Imposte Dirette, alla Pretura e così via) non erano controllati dal PCI.

Certo, l’intuizione togliattiana del partito di massa e non di quadri, e cioè di un partito che pur disponendo di una dottrina e di una guida salda, al tempo stesso sollecitava la partecipazione, l’educazione e il protagonismo di tutti alla vita politica, innanzitutto locale, un partito che puntava ad avere una sezione in ogni angolo del territorio e in ogni luogo di lavoro, ebbe i suoi effetti sul piano della presa ideologica e del radicamento territoriale.

Nel 1958 il PCI aveva 2.569 iscritti, su una popolazione di 23.630 abitanti. Le tessere scesero a meno di 1.600 all’inizio degli anni settanta, risalirono a 1.777 nel 1976, per poi iprendere una lenta inesorabile discesa, che ha portato i suoi eredi a contare alcune centinaia di iscritti.

Ma quanto a mezzi e collateralismo, la DC e i suoi alleati al Governo nazionale erano altrettanto attrezzati, dalle parrocchie, alle centrali sindacali di riferimento (si pensi ad esempio al peso esercitato nelle campagne dalla Coldiretti e dalla Federconsorzi), dall’appoggio dei principali mezzi d’informazione, fino alla TV di Stato, all’impiego degli apparati dello Stato, senza trascurare, negli anni della costruzione, gli aiuti del Piano Marshall.

Pertanto, un’acritica insistenza su questo tipo di spiegazioni conduce a fuorvianti, per non dire offensive considerazioni sulla intelligenza politica degli emiliani in genere e dei mirandolesi nel nostro caso particolare, che sarebbero stati bravi operai, ottimi artigiani, abili imprenditori, vivaci animatori culturali e sociali, ma ingenui, creduloni e superficiali elettori.

Nel 1981, ad esempio, si tenne il referendum sull’abolizione dell’ergastolo. La sinistra, che aveva appena ottenuto alle amministrative un risultato schiacciante, chiese agli elettori di votare a favore. Fu ascoltata da 4.386 elettori, pari al 28,9%. Votarono per mantenere l’ergastolo in 10.804.

Anche se hanno sempre ascoltato i partiti di riferimento, i mirandolesi hanno sempre usato la loro testa.

Nemmeno la situazione sociale basta da sola a giustificare gli orientamenti politici. La corposa presenza di braccianti e poi di operai favorì certamente la diffusione di un messaggio classista e, almeno nella propaganda, rivoluzionario, ma in altre aree del nord una composizione sociale più o meno simile non si tradusse in voti alle sinistre.

Quali furono allora le ragioni principali della lunga prevalenza social-comunista nella politica mirandolese?

Chiavi di lettura

Esaminata più da vicino e senza pregiudizi, la seconda metà del novecento mirandolese non è affatto paradossale e si spiega agevolmente con concrete e verificabili ragioni storiche e politiche.

Dal punto di vista storico influirono la Resistenza e la Liberazione e, in misura certamente minore, ma non del tutto trascurabile, le reminiscenze degli anni precedenti l’avvento della dittatura fascista e del “socialismo municipale”. Non è privo di significato il fatto che il Sindaco della Liberazione, Nino Lolli, fosse il figlio di Attilio Lolli, il grande Sindaco socialista di Mirandola durante i duri anni della Prima Guerra Mondiale. In effetti, nonostante la dura repressione e il pesante indottrinamento del regime, ricordi, culture e ideali antichi covavano sotto la cenere.

Ma fu soprattutto l’esperienza della Resistenza a incanalare consenso. Benché la cultura politica popolare fosse ovviamente approssimativa e embrionale, la maggioranza dei mirandolesi capì che si doveva rompere con il passato e scelse di affidarsi a chi quel tragico passato lo aveva combattuto in prima fila e anche durante gli ultimi anni bui della guerra aveva cercato di introdurre regole e prassi di partecipazione politica, di protagonismo sociale e di giustizia.

Nelle prime elezioni libere, le amministrative del 17 marzo 1946, si presentarono solo gli esponenti dell’antifascismo, suddivisi in tre liste: una lista della sinistra unita, la lista del Partito d’Azione e la lista della Democrazia Cristiana. Pochi mesi dopo, alle elezioni dell’Assemblea Costituente, comparvero tre formazioni di destra e slegate dalla storia della Liberazione: la Concentrazione di Destra, l’Uomo Qualunque e l’Unione Democratica Nazionale, ma presero, tutte assieme, meno di cinquecento voti (476).

L’apporto comunista alla lotta di Liberazione fu qualitativamente e quantitativamente fondamentale e consentì al PCI di svolgere una vasta opera di proselitismo, di ritagliarsi una sorta di “primato resistenziale” di fronte all’opinione pubblica, di presentarsi come la vera rottura rispetto alla storia del ventennio e della guerra e come la principale speranza di un mondo socialmente e politicamente nuovo.

Dalla Brigata “garibaldina” Remo uscirono direttamente molti protagonisti comunisti della vita pubblica della Mirandola libera, tra i quali Oreste Gelmini e Adolfo Pollastri.

Peraltro nessuno metteva in discussione il ruolo dell’URSS nella sconfitta del nazifascismo e, prima della denuncia dei crimini di Stalin e delle distorsioni del socialismo reale, l’esperienza sovietica potè servire alla propaganda comunista come prova che il “sol dell’avvenire” era a portata di mano.

La stessa rottura dell’unità antifascista del 1947, dopo le esperienze dei Governi emanazione del CLN e poi dei Governi De Gasperi, consentì ai comunisti di denunciare i veri o presunti cedimenti della DC alla destra e di rivendicare per sé la coerenza e la continuità dell’antifascismo, in una terra in cui le sofferenze provocate dalla guerra, dall’occupazione nazista e dai collaborazionisti di Salò erano ancora una fresca memoria.

In realtà il contributo dei cattolici, dei socialisti e degli azionisti alla Resistenza era stato altrettanto fondamentale ed eroico, basti pensare alle straordinarie figure dei cattolici Don Dante Sala, Odoardo Focherini e Don Zeno Saltini, dei socialisti Nino Lolli, Alfo Soncini, Olanzo Neri, Vilmo Cappi, Renzo Pivetti, Nello Bozzini e Mario Merighi, degli azionisti Sergio Telmon, Roberto Serracchioli e Silvio Gandini.

Tutti i partiti antifascisti concorsero alla riorganizzazione della società civile, alla rinascita dei sindacati, delle cooperative, delle libere forme associative, e il fatto che ognuno abbia ceduto al cosiddetto collateralismo, cioè alla formazione di strutture ideologicamente affini, non toglie nulla alla straordinaria importanza civile e democratica di questo lavoro.

L’avvento della “guerra fredda” cambiò però i termini dello scontro politico: all’antifascismo si affiancò l’anticomunismo. Il pericolo di ritorni indietro, a regimi autoritari o semi­autoritari, non era del tutto scongiurato, e su ciò insistevano innanzitutto i comunisti e i socialisti, ma l’attualità era una scelta di campo tra il modello di sviluppo occidentale e quello del socialismo reale sovietico, e su questo insistevano la DC, il Partito Repubblicano, il Partito Liberale e il Partito Socialdemocratico di Giuseppe Saragat, nato da una scissione del PSIUP.

Lo scontro ideologico cementò per almeno due o tre decenni i blocchi di consenso elettorale, da una parte e dall’altra, ma se pur continuò a far sentire i suoi effetti, perse gradualmente e inesorabilmente peso di fronte agli impetuosi cambiamenti sociali e culturali della società italiana e dunque, per giustificare cinquant’anni di successi elettorali delle sinistre mirandolesi, accanto alle vicende epocali della Resistenza e poi della guerra fredda, bisogna collocare e saper leggere la politica.

In altri termini, le vittorie del PCI e del PSI devono trovare adeguata spiegazione non solo nei grandi eventi storici del tempo e nelle scelte di campo ideali, ma molto anche nella concreta attività di governo svolta a livello locale, nei programmi, nei risultati raggiunti, nel personale politico proposto agli elettori.

Anzi, dagli anni sessanta in poi, furono proprio le esperienze di governo locale emiliane ad offrire al PCI argomenti forti per proporsi come partito di governo nazionale, oltre le posizioni ideologiche tradizionali, che intanto venivano anch’esse modificandosi (nel 1968 il PCI, che nel ’56 aveva approvato l’invasione sovietica dell”Ungheria, condannò l’invasione della Cecoslovacchia).

Rivoluzione? No, democrazia

Vediamo allora quali furono le reali condizioni della lotta politica e quali le posizioni effettive che hanno consentito alla sinistra mirandolese una così lunga egemonia.

Innanzitutto il PCI maturò abbastanza presto la consapevolezza che la collocazione internazionale dell’Italia, all’interno dell’economia di mercato, della democrazia occidentale e dell’Alleanza Atlantica avrebbe precluso ogni tradizionale prospettiva rivoluzionaria. Sia pure con qualche tormento, i comunisti scelsero di muoversi sul terreno della democrazia e della Costituzione, prima con qualche doppiezza e poi con crescente coerenza, e di progettare un’originale via italiana al socialismo. Che poi questo disegno fosse veramente chiaro e originale è un altro discorso.

In questo contesto, le amministrazioni locali di Comuni e Province e poi delle Regioni (dal 1970), offrivano l’opportunità di dimostrare che era possibile una democrazia progressiva, che erano possibili un’interpretazione e una applicazione della Costituzione improntate a una crescente giustizia sociale e all’aumento dei diritti e dei poteri dei lavoratori nelle aziende e nelle istituzioni.

Pur mantenendo viva la speranza di una più generale rivoluzione economica e sociale, i comunisti raccolsero e rilanciarono la sfida a chi meglio fosse attrezzato per favorire la crescita economica, l’occupazione e il benessere. L’idea di fondo era che la borghesia e i partiti che la rappresentavano, condizionati dagli interessi della rendita e del grande capitale finanziario, non fossero in grado di sviluppare le forze produttive e di ammodernare l’economia italiana.

In secondo luogo, i comunisti si resero conto che a loro si chiedeva di più: dovevano dimostrare a ogni piè sospinto di essere democratici, di essere diversi dai comunisti al potere nei Paesi dell’Est, di rispettare e favorire una società aperta e plurale.

Il loro stesso programma, con l’invito pressante alla partecipazione popolare, il richiamo all’antifascismo, la bandiera della democrazia, impugnata contro veri e presunti tentativi di arretramento, li impegnava, mentre cercavano di dirigere e organizzare la società civile, a rispettarne anche l’autonomia, la vivacità e il pluralismo.

Allo scontro ideologico si accompagnò la sfida del “buon governo”, sia sul piano dei contenuti che dei metodi, laddove il PCI cercò di dimostrare che le amministrazioni di sinistra praticavano metodi di governo distanti e alternativi a quelli che, a torto o a ragione, venivano imputati ai Governi nazionali e alle amministrazioni dirette dalla DC in altre parti del Paese (clientelismo, abusi e spartizione del potere, collusioni mafiose). Non fu solo propaganda, tant’è che uno storico inglese, Donald Sassoon, nel ripercorrere l’immagine delle regioni d’Italia nel mondo anglosassone, ha potuto scrivere che all’estero uno dei tratti distintivi di riconoscimento dell’Emilia-Romagna era proprio il “buon governo”.

In terzo luogo è doveroso sottolineare il ruolo decisivo del PSI. L’apporto dei socialisti non fu meramente numerico (gli eletti socialisti erano indispensabili per formare le maggioranze, almeno fino al 1970) o programmatico (il PSI mise sempre una propria impronta sui programmi delle Giunte). Se da un lato l’alleanza coi socialisti faceva parte della strategia comunista per spostare gli equilibri politici e battere la Democrazia Cristiana, dall’altro lato la presenza socialista e la necessità dell’alleanza coi socialisti furono un antidoto alle chiusure settarie, imposero al PCI di tenere aperte porte e finestre e di non adagiarsi sugli allori o sulla forza dell’organizzazione. Le posizioni riformatrici e riformiste del PSI fecero regolarmente da contraltare ai proclami rivoluzionari del PCI.

E in realtà i programmi della sinistra al governo della città non furono mai rivoluzionari. Furono piuttosto riformisti e, meglio ancora, socialdemocratici, nel senso che si mossero, più o meno consapevolmente, nel solco delle politiche economiche occidentali di stampo keynesiano e di costruzione del welfare.

Lungi dal penalizzare le imprese, le amministrazioni locali fecero quanto era nelle loro possibilità (e anche in competizione con gli altri Comuni) per favorire nuovi insediamenti produttivi. Fedeli alla parola d’ordine delle alleanze della classe operaia con i ceti medi, i comunisti si preoccuparono dello sviluppo e del consenso di artigiani, commercianti e contadini. Ancor più di loro furono capaci i socialisti, nel cogliere le trasformazioni sociali e l’emersione di nuovi ceti professionali, nonché nel dare voce a istanze innovative che non appartenevano alle tradizioni classiche della sinistra.

Ciò che si può sottolineare retrospettivamente è che comunisti e socialisti seppero sempre stare al passo, se non all’avanguardia, dello sviluppo, inquadrando le conquiste di benessere e giustizia sociale in un percorso di affermazione di un più vasto disegno ideale di cambiamento; seppero legare le lotte sociali alla lotta politica locale e nazionale, evitando che gli scontri, anche i più duri, uscissero dal quadro democratico e si frantumassero in un ribellismo perdente o peggio violento; seppero praticare politiche laiche, anche radicali, senza cadere nell’anticlericalismo.

PCI e PSI sono riusciti a selezionare dirigenti politici unanimemente riconosciuti per la loro onestà e capacità. Molti amministratori di sinistra hanno goduto di rispetto, prestigio e consenso, ben oltre i confini dei partiti di appartenenza e presso gli stessi avversari politici. Non a caso, con il passaggio all’elezione diretta dei sindaci, i candidati della sinistra hanno sempre ottenuto un numero di voti personali superiore al voto delle liste di partito: 434 voti Alberto Morselli nel 1995, 430 voti il suo successore nel 1999.

La DC e le altre minoranze non furono da meno e seppero a loro volta esprimere personalità non solo di parte, ma capaci e rappresentative delle comunità locali.

Cosicché si può affermare che, nonostante durissimi scontri ideologici e politici, senza risparmio di colpi, o forse anche grazie a loro, perché le divisioni nella società sono state incanalate nelle istituzioni e nell’alveo del confronto democratico, la democrazia locale ha dato alte prove di sé e la maggioranza dei mirandolesi si è sempre riconosciuta nel Comune e nei suoi rappresentanti.

Dalla liberazione all’inizio degli anni novanta, quando scoppiò lo scandalo di “tangentopoli”, che scoperchiò i fenomeni di corruzione e di finanziamento illecito dei partiti, la partecipazione al voto oscillò fra il 94% e quasi il 99% degli aventi diritto per tutti i tipi di tornate elettorali. Cadde all’ 89% nelle comunali del 1995 e all’81% in quelle del 1999. Risalì alle politiche del ’96 e del 2001, rispettivamente al 94% e all’89%.

Fortune e sfortune elettorali

Le differenze fra voto politico e amministrativo non sono mai state clamorose e politicamente significative.

Il voto politico locale ha sempre subito l’influenza determinante della situazione politica italiana e, d’altra parte, il buon governo locale e la partecipazione diretta e di massa alla vita politica delle sezioni dei partiti ha confermato e giustificato negli anni l’adesione ideale alle politiche nazionali, nella convinzione che quegli ideali si stessero traducendo effettivamente nella vita di ogni giorno e che avrebbero potuto tradursi allo stesso modo sulla scena nazionale.

Le differenze che si possono osservare fra i voti per la Camera e per il Comune sono prevalentemente dovute allo scarto considerevole del numero di liste in competizione, che per le elezioni locali sono sempre state meno numerose. Per fare un esempio, alle politiche del 79 parteciparono undici liste, alle comunali dell’anno dopo quattro.

Nel voto comunale, l’assenza o la partecipazione di liste di centro-destra ha generalmente favorito o penalizzato la DC; per contro, l’assenza o la partecipazione di altre liste di sinistra o genericamente progressiste ha favorito o penalizzato PCI e PSI. Dopo tangentopoli il sistema dei partiti è stato completamente cambiato e i confronti si fanno molto più complicati.

Da notare però, a conferma del legame fra i cittadini e il Comune, che anche in assenza delle liste di riferimento, gli elettori si sono recati alle urne in proporzioni simili alle politiche, rimarcando così il valore della democrazia cittadina.

L’andamento elettorale dei tre principali partiti fa registrare analogie e differenze.

Il PCI, che nelle comunali del 1951 ottenne il 45,90% dei voti, scese al 41,98% nel 56, e poi iniziò una robusta ripresa, che culminò col 51,73% del 1975, quando si fecero sentire gli effetti della politica del “compromesso storico” e, ancor di più, della vittoria nel referendum del 1974 in difesa della legge sul divorzio. Anche il voto in cifra assoluta (8.259) compì un balzo di oltre mille voti, dovuto al fatto che l’età per votare era stata abbassata dai ventuno ai diciotto anni.

La cifra elettorale più alta il PCI la raggiunse alle europee del 1984, con 8.492 voti (52,41%), sull’onda dell’emozione popolare per la morte del suo segretario nazionale Enrico Berlinguer.

Citare i protagonisti dei successi elettorali comunisti è un rischio, perché ci fu un impegno collettivo di centinaia di militanti e si corre il rischio di dimenticare e fare torto a persone di grande merito e valore. Basti notare che in ogni realtà c’erano veri leader, come Tonino Turchetti e Renzo Malaguti a Gavello, Fernando Grana e Giovanni Morselli a Quarantoli, Nerio Mantovani e Laimo Bonini a San Martino Spino, Renato Bassoli a Cividale, Ansaloni Sergio e Quinto Cremaschi nel mondo sportivo, Renata Bergonzoni, Lucia Antonioli, Cosetta Mattioli e Marisa Baraldi fra le donne, Nando Gavioli, Nevio Amadei e Alvaro Pedrazzi nel mondo sindacale del lavoro dipendente, Nunzio Cavicchioli e Giorgio Butturi nel mondo del lavoro autonomo, Mario Girotti e Martina Azzolini nell’area dei coltivatori diretti, ognuno dei quali meriterebbe uno scritto, e in epoca più recente Ilmo Pedrazzi e Giancarlo Barbieri, ma in una panoramica storica come quella che si tenta qui, qualche eccezione è necessaria.

Celso Gherardi è stato il Sindaco della trasformazione economica e sociale della città, che ha guidato per diciannove anni. Dopo l’esperienza di Sindaco ha ricoperto per un mandato la carica di Assessore provinciale ai lavori pubblici. Rientrato a Mirandola ha assunto la presidenza di AIMAG.

Francesco Neri è stato capogruppo durante la fase cruciale dello sviluppo, segretario del partito e presidente dell’Ospedale. Ha concluso la sua carriera alla guida delle Feste nazionali dell’Unità, dove era già approdato il capogruppo del PCI degli anni ’60 Remo Vellani.

Riccardo Butturi è stato segretario comunale del PCI, Assessore ai lavori pubblici nella Giunta Secchi dal 1975 al 1980 e, a conclusione della sua esperienza pubblica, Commissario Straordinario del Consorzio della Bonifica di Burana.

Valentino Andreotti, segretario comunale e capogruppo del PCI nella metà degli anni settanta, è stato l’uomo dell’apertura e del rinnovamento: uomo di grande sensibilità politica e umana, Andreotti ha saputo innestare nel corpo del PCI energie giovani e intellettuali e ha guidato la transizione dall’era Gherardi alla nuova, che ha visto come principale protagonista il Sindaco Sauro Secchi, cui si deve il rinnovamento delle politiche urbanistiche e culturali della città. Con Andreotti e Secchi merita di essere citato Egidio Luppi: uomo di grande apertura mentale, culturalmente curioso e di acuta intelligenza politica, fu al pari di Andreotti un promotore del rinnovamento culturale del PCI e del ringiovanimento dei suoi quadri.

La DC ha oscillato per tutto il periodo in esame intorno al 25/26% dei consensi, toccando il punto più alto delle elezioni locali alle comunali del 1980 con il 29,20% dei voti (4.648). Ha toccato il suo massimo nelle politiche del 1976, con 4.830 voti, quando si profilava il cosiddetto “sorpasso” del PCI, che non ci fu proprio perché la DC riuscì a fare il pieno del voto di destra e moderato.

Anche per i protagonisti della DC vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per i comunisti, ma crediamo di non fare troppi torti se citiamo il maestro Gino Malavasi, capogruppo negli anni ’50 e ’60, cattolico conciliare, popolare e progressista, che dopo la caduta del muro e nei nuovi scenari del confronto destra-sinistra, parteciperà alla costruzione del nuovo centro-sinistra mirandolese.

Insieme a lui, senza dimenticare alcuni esponenti frazionali come Orunte Baraldi, dobbiamo ricordare i due protagonisti della fase di maggiore espansione elettorale della DC locale, il maestro Pierangelo Clerici e Giorgio Galavotti. Collocati in aree politiche diverse, Clerici contro il compromesso storico, Galavotti aperto all’intesa con il PCI, i due dirigenti democristiani riuscivano però a completarsi a vicenda in un puntuale e stringente lavoro di opposizione e competizione con le Giunte di sinistra. Dopo l’esperienza consiliare, Pierangelo Clerici diventerà vice-presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Mirandola, da dove collaborerà con l’amministrazione comunale per il recupero del Castello dei Pico. Giorgio Galavotti è purtroppo scomparso quando la situazione politica volgeva nella direzione che aveva sempre auspicato.

L’andamento elettorale del PSI si presenta invece come una parabola rovesciata: parte in alto nel dopoguerra, scende vertiginosamente negli anni ’60, per poi risalire nella seconda metà degli anni ’80.

Fin dall’inizio il PSI ha pagato il prezzo delle divisioni dell’area socialista in più partiti. Alla Costituente il PSIUP mirandolese aveva ottenuto il 32,18% dei consensi, presto ridimensionati dalla scissione del PSLI.

Alle comunali del 1956, il PSI registrò ancora un lusinghiero 21,96%, ma arrivò praticamente dimezzato alle comunali del 1970, con un debole 10,35%, pagando questa volta le delusioni del centrosinistra a Roma, l’insuccesso della fusione con il PSDI e la scissione del nuovo PSIUP.

Gli anni seguenti furono anni di lenta ma costante ripresa, fino al 15,01% delle comunali del 1985 e i 2.808 voti e 17,07% delle comunali del 1990.

Se le fortune socialiste del dopoguerra erano certamente legate al prestigio e alle capacità di uomini come Nino Lolli, Alfo Soncini, Mario Merighi, Olanzo Neri, Nello Bozzini o Vilmo Cappi, non v’è dubbio che la risalita va attribuita, oltre che alle modernizzazioni di Bettino Craxi, a un gruppo di giovani e brillanti dirigenti locali, come Claudio Furini, Giorgio Siena, Alberto Bergamini, Eligio Berselli, Sauro Prandi e Giuliano Bocchi.

Claudio Furini, dopo l’esperienza di Vice-Sindaco è diventato direttore provinciale di Confcommercio. Alberto Bergamini ha a sua volta ricoperto la carica di Vice-Sindaco ed ha continuato anche lui la sua carriera professionale nella Confcommercio, continuando però a ricoprire anche funzioni locali, come amministratore della Fondazione Cassa di Risparmio di Mirandola e della Banca Popolare di San Felice. Eligio Berselli aveva un passato nella gioventù comunista, uomo di cultura e di raffinata ironia, insegnante alle scuole superiori cittadine, è stato viceSindaco e capogruppo del PSI. Giorgio Siena è stato assessore, consigliere comunale e consigliere provinciale ed è ora un apprezzato dirigente delle scuole superiori della città. Sauro Prandi è stato dirigente di AIMAG, consigliere comunale e assessore. Giuliano Bocchi è stato assessore, consigliere e dirigente provinciale UISP (unione sportiva).

Per il PLI i personaggi di spicco furono Carlo Rinaldi e Maria Pia Microbi; per il PSDI, dopo Mario Merighi, furono Domenico Lolli e Ivano Giliberti.

Accanto alle donne e agli uomini di partito, alla politica mirandolese concorsero anche personalità indipendenti, benché chiaramente collocate in prevalenza nello schieramento della sinistra. Tra di loro possiamo ricordare Anna Belluzzi, assessora e dirigente dell’UDI (unione donne Italiane), Ester Rossi Valeri, insegnante e responsabile del comitato di gestione della biblioteca, e Pilade Bruni, assessore comunale.

Dal 1990 in poi lo scenario è cambiato radicalmente. Prima è toccato al PCI fare i conti con la caduta del muro di Berlino e il fallimento dell’URSS: nacquero il PDS (Partito Democratico della Sinistra), il ramo più consistente, e Rifondazione Comunista.

Poi fu la volta di DC e PSI, travolti dallo scandalo di tangentopoli e, nel caso della DC, anche dall’esaurimento della funzione storica di baluardo democratico contro i comunisti. Dalla DC nacque il Partito Popolare Italiano. IL PSI non si risollevò più e la grande maggioranza di dirigenti ed elettori è confluita nelle nuove formazioni politiche.

Nel 1993 cambiò anche la legge elettorale e, con il cosiddetto “Mattarellum”, gli italiani furono chiamati a scegliere fra schieramenti alternativi di centrodestra e di centrosinistra con un sistema per il 75% uninominale e maggioritario e per il 25% proporzionale. Fu introdotta anche l’elezione diretta del Sindaco, con premio di maggioranza per le liste del candidato vincente e il doppio turno quando al primo giro nessuno avesse superato il 50% dei suffragi.

Alle elezioni politiche del 1994 il collegio della Camera di Mirandola fu vinto dal candidato del centrosinistra , il professor Luciano Guerzoni, con 7.892 voti, pari al 47,69%. Il PPI con Marco Paolini (uno stimato pediatra mirandolese) ottenne 2.691 voti e il 16,26%. Il centrodestra con Carlo Giovanardi totalizzò 4.854 preferenze, pari al 29,33%. Gli eredi del MSI con Alleanza nazionale registrarono il 6,73% e 1.113 consensi.

Nel 1996 si tornò a votare. L’Ulivo di Prodi, con candidato Roberto Guerzoni, raggiunse 10.257 voti, il 64,73%. Il Popolo delle Libertà, guidato da Silvio Berlusconi e con candidato Francesco Munari, si fermò a 5.589 voti, pari al 35,27%.

Concludiamo con il 2001, quando l’Ulivo cedette qualcosa alla lista “Di Pietro”, mentre la Casa delle Libertà guadagnò qualche punto. I risultati furono i seguenti: Ulivo, 9.064 voti, 57,66%; Casa delle Libertà 5.858 voti, 37,26%; Lista Di Pietro 799 voti, 5,08%.

Tratto da: Storia di Mirandola – Politica e società nel Secondo Dopoguerra – 1946/2001

Autore: Luigi Costi

Edizioni CDL

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