Le fiere della Mirandola nella seconda metà del XIV secolo
Tipico istituto di origine medioevale, le fiere raggiunsero il loro massimo sviluppo nei secoli XII-XIV, in un periodo in cui il fiorire dell’agricoltura e dell’artigianato diede impulso ad un vero e proprio commercio «internazionale», ampiamente favorito dall’espansione e dal miglioramento delle strade, sempre più sicure, e dei sistemi di trasporto.
Lo scopo per cui le fiere venivano fatte era perlopiù quello di invogliare, con particolari esenzioni fiscali, i mercanti forestieri a radunarsi periodicamente (di solito a scadenze annuali) in un determinato luogo, favorendo così l’afflusso di merci e derrate e, nel contempo, lo smaltimento di quei prodotti che eccedevano il fabbisogno locale. Su questo istituto, specie per l’area emiliano-romagnola — che qui più ci interessa —, poco finora è stato scritto: ed è possibile, per riprendere in parte parole di Gino Luzzatto, che il silenzio degli studiosi della storia economica italiana sia «una conseguenza del silenzio dei documenti» . Ciò nonostante, risulta indubbio che tali manifestazioni hanno avuto un ruolo fondamentale nell’economia del tempo, in particolare di molti centri minori che si trovavano tagliati fuori, a causa della loro posizione geografica, dalle grandi correnti del commercio interregionale.
Non deve sorprendere, quindi, il trovare negli Statuta mirandolesi del 1386 un intero libro — il V, per la precisione — dedicato alla regolamentazione delle fiere «che se farano in ciascuna festa de santo Georgio et in ciascuna festa de la Penthecoste ogni anno» . E che queste due fiere fossero importanti per l’economia mirandolese del tempo ci viene indirettamente segnalato dalla stessa minuziosità delle norme, che ne stabilivano con estrema precisione perfino il luogo:
«Ancora è statuito et ordinato, accioché non possi nascere errore alcuno del luoco et confine de le dette fiere, ch’el luoco de esse fiere sia et debbi essere sopra el carobio de le Caselle, el quale luoco se extendi andando per la via de ìvidale sino al ponte del dugale dove è el Mazono, andando verso la Columbara che fu de Galeazo, sia et debbi essere sino al dugale del Comune, andando verso Borgo Furo sia et debbi essere sino al pozo quale è da la parte sinixtra a preso la casa in la quale al presente habita Pietro del quondam Modena, et venendo verso el ponte del Bonaga sia et debbi essere sino al cantone de la fossa de la Cercha».
Ma procediamo con ordine, esaminando in queste poche pagine (prelìminari , si spera, ad una ricerca più ampia e completa sull’argomento) gli elementi più caratterizzanti delle fiere della Mirandola nella seconda metà del XIV secolo, sulla scorta delle quattordici rubriche che compongono il suddetto libro degli Statuta. Risulta pertanto ovvio che le conclusioni cui si giungerà in questa sede non consentiranno di tracciare un quadro esaustivo dell’economia mirandolese del tempo: per questo sarebbe almeno necessario analizzare, nella sua globalità, l’intero corpo statutario, studiandone ogni singola norma di interesse economico. Il che, al momento, esula dagli scopi del presente lavoro.
Come si è già notato, due erano i periodi di fiera; entrambi coincidevano con una festa religiosa: S. Giorgio (23 aprile) e il giorno della Pentecoste che, celebrandosi il cinquantesimo giorno della Pasqua, poteva cadere fra il 10 maggio e il 13 giugno di ogni anno. Coincidenze che dovevano sicuramente favorire un notevole afflusso di persone, attirate inoltre da ulteriori elementi di richiamo che difficilmente mancavano — allora come oggi — durante manifestazioni del genere: spettacoli ambulanti, giochi, vendita di dolciumi, ecc. .
D’altro canto, per tutti i giorni in cui si svolgevano le fiere — che erano cinque per quella di S. Giorgio e nove per quella di Pentecoste — potevano venire «tute le persone de ciascuna conditione se siano, cum tute le sue bestie et mercantie siano de quale sorte conditione o maniera se vogliano, et ivi stare et indugiare liberamente a suo piacere tuti li giorni che durarano dette fiere, et de qui partirse liberamente durando perhò el detto tempo de le fiere, cessando ogni impedimento reale et personale» . A siffatta libertà di movimenti, vi era una sola eccezione, se non altro per garantire una certa tranquillità durante il raduno, ed interessava quelle persone che, a causa di qualche crimine commesso, erano state bandite dal territorio della Mirandola.
Inoltre alcune norme contenute in altri libri degli Statuto miravano a ridurre le possibilità di turbamento e a mantenere l’ordine pubblico durante i giorni delle fiere. A questo era deputato un apposito organo di polizia, al quale spettava un singolare tributo: «le teste de tute le bestie — si legge negli Statuto — et ciascuna de quelle, quale per alcuno nelle dette fiere se amazarano o se venderano alla beccaria, siano et debbino essere de quello capitanio che sara deputato alla guardia de le dette fiere, et de li compagni che sarano sieco: et similmente habbi et debbi havere esso capitanio cum li soi compagni da ciascuna persona che venderà nelle dette fiere vino a minuto un boccalo de quarta».
Altro elemento caratterizzante delle fiere era la franchigia. In sostanza, si trattava di una esenzione più o meno estesa — e diversa da fiera a fiera — dei dazi e delle gabelle che normalmente si dovevano pagare per l’importazione o l’esportazione nonché per la compravendita di merci e bestiame . Ora, è risaputo che le tariffe daziarie, pur se non riescono a fornirci il volume complessivo del traffico merceologico, risultano ugualmente illuminanti per cogliere «i criteri di politica economica che regolano un certo stato in un determinato periodo». In particolare, lo studio delle singole merci in entrata e in uscita, conoscendo l’ammontare del loro pedaggio, offre la possibilità di effettuare interessanti considerazioni, specie se tali dati si possono desumere da un documento datato con precisione.
Negli Statuta nundinarum mirandolesi del 1386 è stabilito che sia i mercanti forestieri che quelli locali fossero esenti da qualsiasi dazio per le merci importate, purché quest’ultime risultino «condutte» e vendute durante il periodo delle fiere. Rimangono invece soggette a tassazione «segondo el solito costume» tutte quelle merci, compreso il bestiame, che fossero state acquistate per essere trasportate fuori «de le terre et destretto de la Mirandola».
Ora, dall’esame complessivo delle norme contenute nel suddetto V libro, risulta indubbio che una particolare attenzione è rivolta al bestiame, di cui si cercava di impedire l’esportazione verso i territori confinanti tramite l’applicazione di alcune norme protezionistiche. Infatti, se nulla — come si è visto — si doveva pagare per «tute le bestie grosse et minute» che, condotte e vendute durante la fiera, fossero rimaste «nella terra de la Mirandola o suo destretto et territorio o della Concordia o de San Martino in Spino», le stesse bestie, invece, in caso di esportazione, venivano così tassate :
cavalli e muli ……………………………………………………………………………. soldi 4 a capo
(soldi 2 se non avevano compiuto un anno)
buoi, mucche, manzi, asini e cammelli………………………………………….. soldi 3 a capo
bestie di piccola taglia……………………………………………………………… denari 6 a capo
Tali disposizioni servivano certamente per incrementare l’allevamento locale, che ebbe sempre un ruolo di rilievo nell’economia mirandolese. D’altronde, non si deve dimenticare che bovini ed equini, fin quasi all’inizio di questo secolo, furono animali essenziali per la conduzione del podere contadino, come insostituibili strumenti di lavoro, di fertilizzazione dei terreni e per il trasporto di merci e persone . Un discorso a parte merita il caso del «camello o camelia», che ci attesta l’esistenza sulla piazza di Mirandola di un commercio di animali esotici. Il che, anche se di primo acchito può apparire strano, rispondeva ad una precisa domanda di mercato: infatti, nell’Italia del tempo, l’allevamento di animali rari provenienti dai lontani paesi dell’Oriente non era altro che una mera ostentazione di ricchezza .
Nel V libro «Delle fiere», si specifica ancora che erano esenti da dazio lo spaccio di carne «alla beccaria», pane, vino d’importazione ed aceto venduti «a minuto»: cioè tutti prodotti alimentari di consumo immediato, ulteriore elemento da cui si presume che l’intenzione del legislatore fosse quella di invogliare, anche con tali mezzi, un grande numero di persone a recarsi alle fiere mirandolesi. Diverso il discorso per il vino venduto all’ingrosso che doveva pagare quattro soldi modenesi «per ciascuno carro» (un carro = kg 851,1417) e ben otto soldi per poterlo portare fuori dai confini mirandolesi; inoltre, il vino di produzione locale, anche se veniva venduto al minuto, doveva pagare 2 soldi al quartaro (hl 1,23) . Altresì gravati da tassa, sempre in caso d’esportazione, erano i cereali e le leguminose («frumento et altre biave»), che pagavano un soldo per staro (=litri 63,250: ovvero kg 52 circa). Ora, l’imposizione di tali tasse d’esportazione sui prodotti agricoli di produzione locale, sebbene confermi già per la seconda metà del XIV secolo l’esistenza di una qualche prospettiva di eccedenza di cereali e vino, lascia ben comprendere come un libero commercio di questi prodotti fosse consentito solamente dopo aver pienamente soddisfatto la domanda interna.
Contrariamente poi a quanto stabilito alla quarta rubrica, erano altresì gravate da imposte, che dovevano essere versate sia dal venditore che dal compratore, alcune merci importate:
venditore | compratore tassa espor- | ||
tazione | |||
— peze de panno de lana de lino et bambaso o altre cose de fillato da 20 a 50 braza | 1 soldo | 1 soldo | ‘
1 soldo |
— opere o laborerii fatti de caneva, de ferro o de curame lavorato, fino a 20 pesi | 5 soldi | _ | 3 soldi |
— penne, per ciascuno peso | 1 soldo | — | 1 soldo |
— lino, stopa o canepa, per ciascuno peso | 6 denari | 6 denari | 6 denari |
È indubbio che anche in questo caso (ripeto: si tratta di merci importate) ci troviamo di fronte ad una politica di tipo protezionistico. In altre parole, si ha l’impressione che il legislatore intendesse «punire» tutte quelle merci in entrata sulla piazza mirandolese che in qualche modo fossero in concorrenza con la produzione interna ; la quale, esente da qualsiasi dazio, poteva venire commercializzata a prezzi indubbiamente inferiori. Non solo: nello specifico, la tassa d’esportazione che gravava ulteriormente su alcune merci in transito (panni di lana, lino; manufatti in canapa, ferro, cuoio; penne…) aveva forse anche lo scopo di favorire il loro fermarsi in loco. Ipotesi che sembra avvalorata dal fatto che, in alcuni casi, nulla doveva pagare il compratore locale. Ora, se queste considerazioni sono esatte, le norme sopra riportate ci fornirebbero utili indicazioni sull’esistenza, già nel XIV secolo, di un fiorente artigianato locale. Il che lascia sospettare la presenza nel Mirandolese di «un’attività economica che doveva stare notevolmente a cuore al ceto dirigente dell’epoca». A tale proposito, basterà citare un solo esempio: la produzione della lana, che trova — a mio parere — proprio nelle rubriche statutarie sopra indicate le premesse necessarie alla successiva fortuna della sua commercializzazione. Di recente. Bruno Andreolli ha dimostrato che nel Mirandolese l’arte della lana venne proficuamente praticata per circa due secoli, dal Quattrocento al Seicento, e che essa, nonostante la mediocre qualità del prodotto finito, ebbe una buona diffusione in area ferrarese e veneta. Una fortuna, concludeva lo studioso, che venne certamente alimentata da «un insieme complesso di fattori politici, sociali, culturali e ambientali».
Indubbiamente ciò che favorì siffatta fortuna fu l’abbondanza della materia prima, la lana di produzione locale, dovuta alla massiccia presenza di pecore nel territorio mirandolese. Non si deve infatti dimenticare che l’ambiente delle «valli», da sempre, si presentava decisamente favorevole all’allevamento degli ovini. A questo riguardo si può citare un passo di Leandro Alberti, che nella prima metà del Cinquecento così descriveva il paesaggio rurale della Mirandola:
«È questa pianura molto spatiosa, senz’albere, e producevole della porcellana, qual è un’herba di colore rosso, con le foglie grosse, di sapore salso, molto giovevole alle pecorelle, etiandio se ne trae sale essendo al fuoco cotta, però con grande arteficio. Sono molto dilicati pascoli quivi per le pecorelle, dalle quali se ne cavano fine lane, et in gran copia. Credo siano queste lane quelle delle quali ne fa menzione Strabone quando dice che si cavano lane fine circa Panaro e circa Modena».
Dunque, un territorio, quello mirandolese, ideale per l’allevamento delle pecore: di ciò, già nel Trecento, era ben consapevole il legislatore che, come si è già detto, non solo cercò di favorire in ogni modo il fermarsi di tali animali entro i confini del proprio territorio, ma anche tentò con i mezzi di cui disponeva — leggi e sgravi fiscali — di incrementare l’attività artigianale ad essi legata. D’altra parte, non si può a questo punto non considerare la stessa cronologia della fiera di Pentecoste (sicuramente — considerando la sua durata — la più importante delle due fiere che si tenevano ogni anno a Mirandola) che, cadendo tra maggio e giugno, diventava giocoforza un vero e proprio mercato delle lane mazatiche o maggiatiche, ricavate cioè dalle tosature primaverili degli animali adulti.
A questo punto si arresta l’esame, purtroppo — come si è visto — assai superficiale delle fiere della Mirandola nella seconda metà del XIV secolo. È possibile trarre qualche conclusione? Allo stato attuale delle ricerche, ritengo che sia più opportuno limitarsi a quelle poche considerazioni che, di volta in volta, si è cercato di fare esaminando le quattordici rubriche che compongono il V libro degli Statuta del 1386. D’altronde, come è stato ribadito da diversi studiosi, parlando di fiere «ciò che veramente interessa non è la singola manifestazione presa a sé, ma lo studio della stessa in quanto parte di un insieme, che incise sulla economia del tempo» . Ora, per la bassa pianura lombarda, tra i secoli XIV-XVI è stata individuata “l’esistenza di veri e propri sistemi fieristici che estendevano l’attività e il movimento dei singoli raduni a tutto un territorio, più o meno vasto, favorendo il contatto del mondo rurale con il mercato”.
Purtroppo, lo stato attuale delle mie conoscenze delle fonti basso-medioevali non rende possibile indicare se anche nella bassa pianura emiliana esistesse un tale «sistema fieristico», in cui le due manifestazioni mirandolesi (di S. Giorgio, il 23 aprile, e della Pentecoste, tra maggio e giugno, di ogni anno), avessero potuto trovare una loro esatta collocazione cronica e topica. Tuttavia, in questa sede, mi è sembrato più che giusto segnalare l’esistenza di tali raduni e la loro importanza per l’economia mirandolese del tempo, rinviando per ora a futuri lavori — di altri o mio — ogni ulteriore considerazione sull’argomento.
Carluccio Frison
Tratto da: Quaderni della Bassa Modenese
Anno I – N.1