1941 – 42 – Per poter bere un bicchiere di vino
Illustrazione di Francesca Cavani
…1941-42…
PER POTER BERE UN BICCHIERE DI VINO
E’ sabato 15 dicembre 2007, sono le dieci del mattino. Dopo aver fatto ‘i mestieri’ e anche una bella doccia calda, guardo fuori e sento un nevischiare leggero e fine. Mi viene un brivido di freddo.
Sono piena di acciacchi, data l’età, non si può mangiare quello che si vuole e neppure bere un bicchiere di vino che ti riscaldi lo stomaco.
La mia mente ritorna indietro di tanti anni, così prendo questo quaderno e mi metto a scrivere.
C’era la guerra e i nostri uomini erano tutti lontani. A casa c’eravamo solo noi donne, cinque compresa la nipotina che aveva solo cinque anni.
Guglielmo Greco veniva ad aiutarci nei lavori più pesanti. Era lui che preparava la vigna, che veniva legata a pali e agli olmi in modo che al tempo della vendemmia fosse più facile raccogliere l’uva.
Si faceva di marzo, i primi soli tiepidi facevano germogliare le prime foglie. Più passava il tempo e più le foglie si allargavano e i tralci si allungavano.
Era stupendo quel ‘bersò’; e quando faceva caldo là sotto era bello fresco, ma quando spuntavano i primi grappoli bisognava spruzzare il verderame contro i parassiti.
Nostra madre pesava il verderame e lo raccoglieva in un sacchetto, poi lo metteva in un secchio d’acqua per tutta la notte perché si sciogliesse, visto che i pezzi erano abbastanza grossi.
Era azzurro, lucido, era bellissimo.
Il mattino dopo veniva rovesciato in una botte piena d’acqua, e quando era tutto sciolto si travasava in una seconda botte da un quintale, che era sostenuta da quattro spranghe di legno e da due ruote. A differenza dell’altra, questa era orrizzontale, con un foro in alto per poter aggiungere ancora acqua ramata, ed era collegata ad una pompa con un manico a stantuffo, indispensabile per fare uscire l’acqua che correva lungo una canna di gomma.
L’acqua arrivava fino al rubinetto, che una volta aperto faceva uscire il liquido con uno spruzzo, e in questo modo si irrorava tutta la vigna.
Bisognava stare attenti a non darne troppo o troppo poco, così quel lavoro lo faceva mia madre, che era più esperta.
Il carretto era trainato dal somarello sardo, tutto grigio e con una striscia nera che gli disegnava attorno al collo una specie di collana.
Mia madre spruzzava il verderame, mia sorella Irene era addetta alla pompa, Iginia ed io all’acqua da aggiungere alla botte, che non doveva restare mai vuota. Per il rifornimento reggevamo un bastone bello grosso cui erano appesi i due secchi con l’acqua.
Iginia e io eravamo molto diverse in altezza, lei piccolina e io alta, così si brontolava sempre: “Tira su!”, “Tira giù!…” , perché i secchi rischiavano sempre di traboccare. Immaginate che bel divertimento!
Il peggiore tra tutti questi lavori era quello di spruzzare il liquido, perché quando si asciugava anche chi maneggiava la pompa si ritrovava tutto verde, asinelio compreso.
Ci coprivamo la bocca con un fazzoletto e bisognava stare attenti a come girava l’aria, per evitare che il liquido entrasse negli occhi.
Tutta questa lavorazione si faceva tre volte l’anno.
Quando l’uva incominciava a maturare c’era il problema degli uccellini: gli storni ne erano ghiotti, così il mio compito era quello di girare lungo il filare con una latta e un pezzo di legno per fare rumore.
In questo modo gli uccelli sembrava scappassero, ma in realtà si limitavano a passare da un filare all’altro rendendo vano il mio lavoro.
Non vedevo l’ora che arrivasse la vendemmia, che però non arrivava mai!
Quanta fatica per poter bere un bicchiere di vino!
Mi dimenticavo di dire che per togliere il verderame dalla pelle ci voleva acqua e aceto…ma quanto bruciava!
Maria Traldi
Tratto da: Quaderni di San Martino
Anno: 2008