Anno 1464 – Diritti concessi e divieti imposti alle donne secondo gli statuti di San Felice
Le figlie nella successione ai genitori -“Non molestare né inquietare”.
Nel 1464, anno di questa redazione statutaria, l’evoluzione del diritto successorio è già compiuta da tempo. Sebbene nel caso di San Felice non sia possibile ripercorrerne le tappe, gli studi svolti per altre città consentono, infatti, di collocare il periodo delle grandi trasformazioni tra il Duecento e i primi decenni del Quattrocento, durante il quale i diritti delle donne subiscono un’erosione progressiva, ma non per questo priva di importanti conseguenze. Non deve, dunque, stupire che anche a San Felice si stabilisca che la fiola sia contenta de quello che ha dato o promesso dare el padre o lassato in dota. E morto il padre o, precisa lo stesso provvedimento, l“avo o altro ascendente” senza testamento, non le sia consentito di inquietare o molestare fratelli, discendenti o ascendenti, se non per quello ge haverà dato o promesso dare o lassato in la ultima voluntà il de cuius, esaurendo nel diritto a essere dotata ogni pretesa successoria rispetto ai beni paterni. La pratica dell’exclusio propter dotem, ossia l’esclusione delle figlie dal patrimonio di famiglia per il fatto di essere provviste di dote, è un provvedimento che, nella seconda metà del Quattrocento, si potrebbe definire la normalità di tutti gli statuti da circa due secoli. Inevitabile nel caso dei beni paterni, era spesso applicato anche rispetto a quelli materni, per far convergere quanto più possibile delle ricchezze di famiglia verso la discendenza maschile. Gli statuti di San Felice non soltanto in questo senso non rappresentano un’eccezione alla ferrea logica patrilineare, ma ne mettono in campo una versione particolarmente radicale, sebbene con alcune peculiarità che ne attenuano le conseguenze. Vediamo perché. Al fine di non disperdere le ricchezze della famiglia, la legge privilegiava ovunque la discendenza maschile su quella femminile, limitando all’essenziale (cioè alla dote) quanto dovuto alle figlie e riservando la parte del leone ai figli maschi. I nostri statuti, sotto questo punto di vista, vanno ben oltre: dopo aver premesso che i provvedimenti contenuti nella rubrica Dela successione ab intestato sono presi cautelativamente aciò che se conservi la dignità e amplitudine in le fameglie, che non doventino povere per le femene, si fornisce un insolitamente lungo e inequivocabile elenco degli eredi che dovranno avvicendarsi nella successione, qualora mancasse l’avente diritto. A essere presi in considerazione sono, nell’ordine, i figli e i discendenti maschi diretti, gli ascendenti maschi, i fratelli e i figli dei fratelli che, si spiega agnati tamen ala persona del morto succedano et excludano le fiole e tutte le femene de cadauno grado et linea. Ma non basta. Se mancassero tutti i nominati in questa lista, specifica ulteriormente la norma, alora li agnati maschii dela linea masculina più proximi.. .fin al quarto grado siano preferiti alle figlie femmine. Il confronto con altre legislazioni aiuterà a comprendere la radicalità di una simile disposizione: a Venezia le figlie succedono nell’eredità paterna già in assenza di figli maschi, a Bologna vengono subito dopo i figli maschi dei figli maschi e neppure la normativa fiorentina, considerata particolarmente penalizzante per la discendenza femminile, arriva a preferire fino al quarto grado degli agnati maschi. La prospettiva patrimoniale delle figlie è, in questo contesto, aggravata dal fatto che, a prescindere dalla rubrica XXXIV del II libro Dela successione ab intestato, secondo cui tale norma dovrebbe essere applicata in assenza di testamento, il testo recita che quanto stabilito si darà se alcuno maschio morerà senza testamento o cum testamento et etiam se fusse infante o per altra cagione intestabile, salvaguardando così i privilegi della linea maschile da possibili deroghe testamentarie all’imperante criterio patrilineare.
A onor del vero va precisato che gli statuti di San Felice dispongono anche che il patrimonio dotale (a causa del quale le figlie sono poi escluse dalla successione) non possa essere inferiore alla legittima e che se lo fosse le figlie potrebbero rivendicare a buon diritto quanto spetta loro per legge. Soltanto allora, le predicte femene cussi excluse non possano per cagione de alcuna legitima molestare né inquietare li maschi chiamati ala successione per el presente statuto. La puntualizzazione che fissa il diritto delle figlie a chiedere l’equiparazione dell’entità della dote a quella della legittima rappresenta molto più di un piccolo compenso a saldo della perdita di altri privilegi successori, che pure resta un fatto indiscutibile. Significa ripristinare in termini di diritti teorici almeno una parvenza di quell’egualitarismo successorio fra discendenti di stampo giustinianeo che l’imporsi del principio patrilineare aveva, quasi ovunque, confinato alle speculazioni ispirate dalla dottrina di stampo romanistico. Neppure a Bologna, considerata a giusto titolo patria della rinascita del diritto romano, la dottrina sviluppata dai maestri aveva potuto far valere la propria autorevolezza sull’autorità dei giurisperiti che stilavano le norme statutarie in base alle esigenze economiche di una società che già dal 1288 giudicava inopportune, e dunque proibiva, le rivendicazioni delle figlie adversus fratres masculos quanto all’assegnazione di una dote – che anche in questo caso le escludeva da ogni altro diritto successorio – rispetto al valore della legittima.
Sotto questo profilo, si potrebbe obiettare che quella contemplata dagli statuti di San Felice non può essere definita una vera e propria esclusione per causa di dote, dal momento che, con la clausola sopra citata, la dote stessa potrebbe essere considerata una vera e propria forma di eredità lasciata dal padre alle figlie. Tanto più che, in assenza del padre, avrebbe dovuto essere il fratello o un altro discendente a provvedere a eventuali sorelle in modo equo, come approfondiremo tra poco. Nonostante ciò, a mio avviso, neppure alle condizioni previste da questa norma le figlie possono essere considerate eredi a tutti gli effetti vista l’impossibilità a essere coinvolte nel meccanismo successorio, anche in assenza di eredi maschi diretti. Come dicevamo, morto il padre era il figlio maschio a dover provvedere condecentemente agli alimenti prima e alla dote poi delle eventuali sorelle, e sebbene entrambe le prerogative rappresentassero un diritto indiscusso delle figlie, non derivava loro direttamente dal padre defunto, ma doveva passare attraverso la rappresentanza maschile di turno. È questo tramite, ancor più del divieto di inquietare li fratelli o ascendenti maschii dela heredità patena oltre quanto chiarito prima, a impedire di definirle eredi o a renderle quantomeno delle eredi anomale.
Se la legislazione in esame riserva ampio spazio alla successione delle figlie al padre, decisamente meno chiara è quella che riguarda la trasmissione tra madre e figlia. Che il rilievo della trasmissione femminile dei beni apparisse limitato rispetto a quello della trasmissione maschile si evinceva già da quanto stabilito nella rubrica sulla successione ab intestato che, come rilevato precedentemente, coinvolge soltanto alcuno maschio… etiam se fusse infante o per altra cagione intestabile, forse per la banale ragione che il patrimonio femminile coincideva con la dote, e per quanto consistente essa potesse essere, era l’unica questione da dirimere. Non sarà, allora, un caso se la normativa affronta il problema della successione femminile soltanto per la moiere morta in matrimonio cognita, situazione nella quale allo statuto spettava il compito di stabilire a quale delle due famiglie coinvolte apparteneva il patrimonio della defunta, a chi, insomma, dovesse essere trasferita la dote con importanti ricadute a livello di successione patrimoniale. Per tale motivo non soltanto non ci porta fuori strada, ma risulta anzi indispensabile accennare al tema dell’eredità della vedova che, qualche secolo prima, era stato motivo di importanti discussioni dottrinali all’interno della scuola di Bologna, dove i giuristi erano stati divisi fra l’istanza del Corpus iuris civilis che prevedeva di rendere le ricchezze dotali a chi vi aveva provveduto e l’esigenza di conservarle all’interno del legame matrimoniale in funzione del quale erano state costituite in patrimonio. Nel Quattrocento tanto a Bologna come altrove, il grande discrimine è ormai rappresentato, soltanto, dalla presenza o meno di figli: che il marito potesse vantare pretese ereditarie almeno su una parte della dote della moglie defunta non è più messo in discussione. Così nel 1464, il comune di San Felice, sancisce che, in assenza di figli, la metà dei beni dotali torni a chi vi aveva provveduto, mentre el marito guadagni la mitade dela dota. In presenza di figli, invece, la dote non verrà restituita al padre della donna, ma spetterà ai figli, equamente divisa fra i nati dall’ultimo legame matrimoniale e quelli avuti da eventuali matrimoni precedenti a cadauno per la virile parte. Riguardo ai diritti patrimoniali dei figli, la norma non aggiunge altre precisazioni: non è quindi possibile definire la posizione delle figlie rispetto all’eredità materna, al di là di ipotesi che, essendo destinate a rimanere tali senza il confronto con altre tipologie di fonti, non sarebbero altro che un inutile esercizio di prolissità. Quello che possiamo affermare è, invece, che il privilegio concesso al marito di lucrare metà della dote se i figli fossero nati da precedenti legami della donna li privava di una parte di ciò che, in assenza di questa norma e secondo il diritto comune, sarebbe spettato loro in quanto unici eredi del patrimonio. Ma anche questo aspetto rientra nell’evoluzione del diritto successorio, a queste date ormai consolidata. A Bologna nel Duecento il diritto della famiglia d’origine a vedersi restituire la dote della figlia morta cui si era provveduto (concordemente con quanto previsto dal diritto romano) era stato mantenuto fino agli statuti trecenteschi che, come abbiamo visto accadere a San Felice, nell’offrire garanzie al vedovo avevano finito per limitare i diritti dei figli e in particolare delle figlie di primo letto che potevano accedere all’eredità della dote materna unicamente in assenza di fratelli. Lo statuto fiorentino del 1415 era addirittura arrivato all’estremo di riservare tutti i diritti ai figli avuti dall’ultimo matrimonio privando la dote di “memoria successoria”. A questo proposito vale la pena sottolineare un dettaglio peculiare della normativa di San Felice che, utilizzando un linguaggio particolarmente efficace nella sua essenziale schiettezza, smaschera, probabilmente in modo del tutto involontario, il fondamentale vantaggio riservato ai mariti vedovi con la concessione del cosiddetto lucro vedovile. Nell’affermare il principio secondo cui el marito guadagni la mitade dela dota riassume la conclusione di quel processo che, verosimilmente anche qui come altrove, aveva trasformato in proprietà del marito ciò che prima non lo era.
Parlando delle prerogative riservate alle donne in quanto soggetti giuridici, un ultimo aspetto sembra degno di rilievo. Due accenni presenti nelle rubriche sopracitate ci mettono a parte della capacità di testare riconosciuta alle donne: nel primo caso, in modo implicito, limitando a 1/8 la quota di dote che la testatrice avrebbe potuto destinare per l’anima, mentre nell’altro con un esplicito riferimento alla possibilità di trasmettere la dote a cadauno erede per testamento on ab intestato.
Prima di proseguire nell’analisi delle norme che coinvolgono soggetti femminili, è opportuno cercare di fissare gli elementi fin qui acquisiti. Tentando di tracciare i contorni che definiscono il ruolo delle donne all’interno di una società cittadina medievale, si è visto tornare continuamente a galla il tema della dote. Questa rappresenta allo stesso tempo il legame con la famiglia di origine e il mezzo con cui potrà contrarne uno nuovo con la famiglia del marito. Va, però, sottolineata l’ambivalenza del patrimonio dotale, che si esplicita nel doppio binomio dote-successione e dote-matrimonio, costituendo per le titolari di tale diritto le due facce della stessa medaglia che in un certo senso le trasforma in ospiti, in membri a tempo dell’una e dell’altra famiglia: il loro ruolo all’interno di quella di origine si esaurisce infatti quando, dotate, entrano a far parte della nuova sposandosi. A quel punto cessano i legami patrimoniali con la famiglia dalla quale sono uscite, avendo esaurito nella dote i loro diritti successori; né è permesso loro pretendere nulla dalla nuova, visto che sulla dote, solitamente gestita dai mariti che non ne diventano, però, i proprietari reali, quando va bene, conservano il diritto di testare senza troppe limitazioni al riguardo. Ma qui ci dobbiamo fermare, perché soltanto una verifica sulle ultime volontà potrebbe rivelarci come le donne sapessero effettivamente approfittare di questa possibilità.
Serena Giuliadori
Tratto da: Le leggi della Comunità – Il governo e la terra di San Felice sul Panaro attraverso i suoi Statuti (1464)
A cura di Pierpaolo Bonacini e Mauro Calzolari
Gruppo studi Bassa Modenese
Anno 2008