Anno 1464 – Diritti concessi e divieti imposti alle donne secondo gli statuti di San Felice

Anno 1464 – Diritti concessi e divieti imposti alle donne secondo gli statuti di San Felice

5 Marzo 2025 0

Le figlie nella successione ai genitori -“Non molestare né inquietare”. 

Nel 1464, anno di questa redazio­ne statutaria, l’evoluzione del diritto successorio è già compiuta da tempo. Sebbene nel caso di San Felice non sia possibile ripercorrerne le tappe, gli studi svolti per altre città consentono, infatti, di collocare il periodo delle grandi tra­sformazioni tra il Duecento e i primi de­cenni del Quattrocento, durante il quale i diritti delle donne subiscono un’erosio­ne progressiva, ma non per questo priva di importanti conseguenze. Non deve, dunque, stupire che anche a San Felice si stabilisca che la fiola sia contenta de quello che ha dato o promesso dare el pa­dre o lassato in dota. E morto il padre o, precisa lo stesso provvedimento, l“avo o altro ascendente” senza testamento, non le sia consentito di inquietare o molestare fratelli, discendenti o ascendenti, se non per quello ge haverà dato o promesso dare o lassato in la ultima voluntà il de cuius, esaurendo nel diritto a essere dotata ogni pretesa successoria rispetto ai beni pater­ni. La pratica dell’exclusio propter dotem, ossia l’esclusione delle figlie dal patrimo­nio di famiglia per il fatto di essere prov­viste di dote, è un provvedimento che, nella seconda metà del Quattrocento, si potrebbe definire la normalità di tutti gli statuti da circa due secoli. Inevitabile nel caso dei beni paterni, era spesso ap­plicato anche rispetto a quelli materni, per far convergere quanto più possibile delle ricchezze di famiglia verso la di­scendenza maschile. Gli statuti di San Felice non soltanto in questo senso non rappresentano un’eccezione alla ferrea logica patrilineare, ma ne mettono in campo una versione particolarmente radicale, sebbene con alcune peculia­rità che ne attenuano le conseguenze. Vediamo perché. Al fine di non disper­dere le ricchezze della famiglia, la leg­ge privilegiava ovunque la discendenza maschile su quella femminile, limitando all’essenziale (cioè alla dote) quanto do­vuto alle figlie e riservando la parte del leone ai figli maschi. I nostri statuti, sotto questo punto di vista, vanno ben oltre: dopo aver premesso che i provvedimenti contenuti nella rubrica Dela successione ab intestato sono presi cautelativamente aciò che se conservi la dignità e amplitudi­ne in le fameglie, che non doventino povere per le femene, si fornisce un insolitamente lungo e inequivocabile elenco degli eredi che dovranno avvicendarsi nella succes­sione, qualora mancasse l’avente diritto. A essere presi in considerazione sono, nell’ordine, i figli e i discendenti maschi diretti, gli ascendenti maschi, i fratelli e i figli dei fratelli che, si spiega agnati tamen ala persona del morto succedano et excludano le fiole e tutte le femene de ca­dauno grado et linea. Ma non basta. Se mancassero tutti i nominati in questa lista, specifica ulteriormente la norma, alora li agnati maschii dela linea masculina più proximi.. .fin al quarto grado siano preferiti alle figlie femmine. Il confron­to con altre legislazioni aiuterà a com­prendere la radicalità di una simile di­sposizione: a Venezia le figlie succedono nell’eredità paterna già in assenza di figli maschi, a Bologna vengono subito dopo i figli maschi dei figli maschi e neppu­re la normativa fiorentina, considerata particolarmente penalizzante per la di­scendenza femminile, arriva a preferire fino al quarto grado degli agnati maschi. La prospettiva patrimoniale delle figlie è, in questo contesto, aggravata dal fatto che, a prescindere dalla rubrica XXXIV del II libro Dela successione ab intestato, secondo cui tale norma dovrebbe essere applicata in assenza di testamento, il te­sto recita che quanto stabilito si darà se alcuno maschio morerà senza testamento o cum testamento et etiam se fusse infante o per altra cagione intestabile, salvaguardan­do così i privilegi della linea maschile da possibili deroghe testamentarie all’impe­rante criterio patrilineare.

A onor del vero va precisato che gli sta­tuti di San Felice dispongono anche che il patrimonio dotale (a causa del quale le figlie sono poi escluse dalla successione) non possa essere inferiore alla legittima e che se lo fosse le figlie potrebbero riven­dicare a buon diritto quanto spetta loro per legge. Soltanto allora, le predicte femene cussi excluse non possano per cagione de alcuna legitima molestare né inquietare li maschi chiamati ala successione per el presente statuto. La puntualizzazione che fissa il diritto delle figlie a chiedere l’equiparazione dell’entità della dote a quella della legittima rappresenta molto più di un piccolo compenso a saldo della perdita di altri privilegi successori, che pure resta un fatto indiscutibile. Significa ripristinare in termini di diritti teorici almeno una parvenza di quell’eguali­tarismo successorio fra discendenti di stampo giustinianeo che l’imporsi del principio patrilineare aveva, quasi ovun­que, confinato alle speculazioni ispirate dalla dottrina di stampo romanistico. Neppure a Bologna, considerata a giusto titolo patria della rinascita del diritto ro­mano, la dottrina sviluppata dai maestri aveva potuto far valere la propria auto­revolezza sull’autorità dei giurisperiti che stilavano le norme statutarie in base alle esigenze economiche di una società che già dal 1288 giudicava inopportune, e dunque proibiva, le rivendicazioni del­le figlie adversus fratres masculos quanto all’assegnazione di una dote – che anche in questo caso le escludeva da ogni al­tro diritto successorio – rispetto al valore della legittima.

Sotto questo profilo, si potrebbe obiet­tare che quella contemplata dagli statu­ti di San Felice non può essere definita una vera e propria esclusione per causa di dote, dal momento che, con la clau­sola sopra citata, la dote stessa potreb­be essere considerata una vera e propria forma di eredità lasciata dal padre alle figlie. Tanto più che, in assenza del padre, avrebbe dovuto essere il fratello o un al­tro discendente a provvedere a eventuali sorelle in modo equo, come approfon­diremo tra poco. Nonostante ciò, a mio avviso, neppure alle condizioni previste da questa norma le figlie possono esse­re considerate eredi a tutti gli effetti vi­sta l’impossibilità a essere coinvolte nel meccanismo successorio, anche in assen­za di eredi maschi diretti. Come dice­vamo, morto il padre era il figlio maschio a dover provvedere condecentemente agli alimenti prima e alla dote poi delle eventuali sorelle, e sebbene entrambe le prerogative rappresentassero un dirit­to indiscusso delle figlie, non derivava loro direttamente dal padre defunto, ma doveva passare attraverso la rappresen­tanza maschile di turno. È questo trami­te, ancor più del divieto di inquietare li fratelli o ascendenti maschii dela heredità patena oltre quanto chiarito prima, a impedire di definirle eredi o a renderle quantomeno delle eredi anomale.

Se la legislazione in esame riserva am­pio spazio alla successione delle figlie al padre, decisamente meno chiara è quel­la che riguarda la trasmissione tra madre e figlia. Che il rilievo della trasmissione femminile dei beni apparisse limitato rispetto a quello della trasmissione ma­schile si evinceva già da quanto stabilito nella rubrica sulla successione ab intesta­to che, come rilevato precedentemente, coinvolge soltanto alcuno maschio… etiam se fusse infante o per altra cagione intestabile, forse per la banale ragione che il patrimonio femminile coincideva con la dote, e per quanto consistente essa potesse essere, era l’unica questione da dirimere. Non sarà, allora, un caso se la normativa affronta il problema della successione femminile soltanto per la moiere morta in matrimonio cognita, si­tuazione nella quale allo statuto spettava il compito di stabilire a quale delle due famiglie coinvolte apparteneva il patri­monio della defunta, a chi, insomma, dovesse essere trasferita la dote con im­portanti ricadute a livello di successione patrimoniale. Per tale motivo non sol­tanto non ci porta fuori strada, ma risul­ta anzi indispensabile accennare al tema dell’eredità della vedova che, qualche secolo prima, era stato motivo di im­portanti discussioni dottrinali all’interno della scuola di Bologna, dove i giuristi erano stati divisi fra l’istanza del Corpus iuris civilis che prevedeva di rendere le ricchezze dotali a chi vi aveva provvedu­to e l’esigenza di conservarle all’interno del legame matrimoniale in funzione del quale erano state costituite in patrimo­nio. Nel Quattrocento tanto a Bologna come altrove, il grande discrimine è or­mai rappresentato, soltanto, dalla presen­za o meno di figli: che il marito potesse vantare pretese ereditarie almeno su una parte della dote della moglie defunta non è più messo in discussione. Così nel 1464, il comune di San Felice, sancisce che, in assenza di figli, la metà dei beni dotali torni a chi vi aveva provveduto, mentre el marito guadagni la mitade dela dota. In presenza di figli, invece, la dote non verrà restituita al padre della donna, ma spetterà ai figli, equamente divisa fra i nati dall’ultimo legame matrimoniale e quelli avuti da eventuali matrimoni precedenti a cadauno per la virile parte. Riguardo ai diritti patrimoniali dei figli, la norma non aggiunge altre precisazioni: non è quindi possibile definire la posi­zione delle figlie rispetto all’eredità ma­terna, al di là di ipotesi che, essendo de­stinate a rimanere tali senza il confronto con altre tipologie di fonti, non sarebbero altro che un inutile esercizio di prolissità. Quello che possiamo affermare è, inve­ce, che il privilegio concesso al marito di lucrare metà della dote se i figli fossero nati da precedenti legami della donna li privava di una parte di ciò che, in assen­za di questa norma e secondo il diritto comune, sarebbe spettato loro in quan­to unici eredi del patrimonio. Ma anche questo aspetto rientra nell’evoluzione del diritto successorio, a queste date ormai consolidata. A Bologna nel Duecento il diritto della famiglia d’origine a veder­si restituire la dote della figlia morta cui si era provveduto (concordemente con quanto previsto dal diritto romano) era stato mantenuto fino agli statuti trecente­schi che, come abbiamo visto accadere a San Felice, nell’offrire garanzie al vedovo avevano finito per limitare i diritti dei figli e in particolare delle figlie di primo letto che potevano accedere all’eredità della dote materna unicamente in assenza di fratelli. Lo statuto fiorentino del 1415 era addirittura arrivato all’estremo di ri­servare tutti i diritti ai figli avuti dall’ulti­mo matrimonio privando la dote di “me­moria successoria”. A questo proposito vale la pena sottolineare un dettaglio pe­culiare della normativa di San Felice che, utilizzando un linguaggio particolarmen­te efficace nella sua essenziale schiettez­za, smaschera, probabilmente in modo del tutto involontario, il fondamentale vantaggio riservato ai mariti vedovi con la concessione del cosiddetto lucro vedovi­le. Nell’affermare il principio secondo cui el marito guadagni la mitade dela dota riassume la conclusione di quel processo che, verosimilmente anche qui come al­trove, aveva trasformato in proprietà del marito ciò che prima non lo era.

Parlando delle prerogative riservate alle donne in quanto soggetti giuridici, un ultimo aspetto sembra degno di rilie­vo. Due accenni presenti nelle rubriche sopracitate ci mettono a parte della capacità di testare riconosciuta alle donne: nel primo caso, in modo implicito, limi­tando a 1/8 la quota di dote che la testatrice avrebbe potuto destinare per l’ani­ma, mentre nell’altro con un esplicito riferimento alla possibilità di trasmettere la dote a cadauno erede per testamento on ab intestato.

Prima di proseguire nell’analisi delle norme che coinvolgono soggetti fem­minili, è opportuno cercare di fissare gli elementi fin qui acquisiti. Tentando di tracciare i contorni che definiscono il ruolo delle donne all’interno di una so­cietà cittadina medievale, si è visto tor­nare continuamente a galla il tema del­la dote. Questa rappresenta allo stesso tempo il legame con la famiglia di ori­gine e il mezzo con cui potrà contrarne uno nuovo con la famiglia del marito. Va, però, sottolineata l’ambivalenza del pa­trimonio dotale, che si esplicita nel dop­pio binomio dote-successione e dote-matrimonio, costituendo per le titolari di tale diritto le due facce della stessa me­daglia che in un certo senso le trasforma in ospiti, in membri a tempo dell’una e dell’altra famiglia: il loro ruolo all’inter­no di quella di origine si esaurisce infatti quando, dotate, entrano a far parte della nuova sposandosi. A quel punto cessano i legami patrimoniali con la famiglia dal­la quale sono uscite, avendo esaurito nel­la dote i loro diritti successori; né è per­messo loro pretendere nulla dalla nuova, visto che sulla dote, solitamente gestita dai mariti che non ne diventano, però, i proprietari reali, quando va bene, con­servano il diritto di testare senza troppe limitazioni al riguardo. Ma qui ci dobbia­mo fermare, perché soltanto una verifica sulle ultime volontà potrebbe rivelarci come le donne sapessero effettivamente approfittare di questa possibilità.

Serena Giuliadori

Tratto da: Le leggi della Comunità – Il governo e la terra di San Felice sul Panaro attraverso i suoi Statuti (1464)

A cura di Pierpaolo Bonacini e Mauro Calzolari

Gruppo studi Bassa Modenese

Anno 2008

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