Quirino Mantovani – Quando eravamo in bolletta, il Natale si festeggiava così.
Quando eravamo in bolletta, il Natale si festeggiava così
Parliamo un po’ delle feste natalizie.
In quel periodo arrivava a Mirandola dal Trentino un camion pieno di alberi di Natale. Ne acquistavamo sempre uno anche se ad addobbarlo ci pensava mia sorella Wally. Appendevamo ai rami palle di tutti i colori, ma anche mandarini, caramelle e cioccolatini.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, erano anni molto difficili e di miseria. Con il passare del tempo, per fortuna, la situazione è migliorata. Per la mia famiglia la svolta è arrivata nel 1952, quando mio padre ha iniziato a lavorare nella fonderia Ghisa di Mirandola e così il Natale è diventato una vera festa anche per noi.
In tavola c’erano sempre i tortellini. Due o tre giorni prima, mia madre preparava la sfoglia e noi ragazzi l’aiutavamo a chiudere i “caplet”. Il cappone da mettere nel brodo lo procurava mio fratello Franco, “acquistandolo” da un suo amico che abitava in campagna. Mia madre gli dava cinquecento lire, non sapendo però che quei soldi venivano divisi tra Franco e l’amico che gli procurava “clandestinamente” il cappone senza dirlo ai suoi familiari.
Qualche volta però la madre dell’amico si era accorta della sparizione di un cappone. Al che il figlio replicava: «A sarà sta i sìgagn (Saranno stati gli zingari)». Noi ragazzi aspettavamo con crescente ansia le feste natalizie anche per i quindici giorni di vacanza dalla scuola. Facevamo i compiti in fretta e poi via… tutto il giorno a giocare a nascondino, lotta del ponte, cavallina, Giro d’Italia, cinque buche, con le figurine, “gnagno vegna e altro ancora. Tutti giochi per noi molto divertenti e che non costavano nulla, al contrario dei giorni nostri, in cui ai bambini viene regalato di tutto, dalle biciclette ai computer.
Dopo il Natale c’era il primo dell’anno con la tradizione di andare casa per casa ad augurare il buon anno, ricevendo in cambio qualche lira o qualche cosa da mangiare. C’era chi ci chiedeva di recitare la tradizionale filastrocca: «A son gnu a dar al bon Cavdan, ca scampadi sent an, sent an e un de, la bona man, la ven a me (Sono venuto a dare il buon Capodanno che viviate cento anni, cento anni e un giorno, la ricompensa viene a me)». Ne esisteva però anche un’altra versione per chi si dimostrava meno disponibile e meno generoso. «A son gnu a dar al bon Cavdan, ca scampadi sent an, sent an l’è un mes, ad matìna long dastes (Sono venuto a dare il buon Capodanno che viviate cento anni, cento anno sono un mese, domattina lungo disteso)». Poi però fuggivamo in fretta, visto che c’era il serio rischio di prendersi due scopate in testa. In genere io andavo a dare il buon anno in coppia con Pericle Ferri. Il primo posto in cui passavamo era il salumificio Montorsi. Suonavamo e ad aprire la porta era sempre una signora alla quale davamo il buon anno. Lei ci ricompensava con due pezzi di mortadella o di ciccioli, invitandoci a portarli a casa, ma noi, con la fame arretrata che avevamo, li divoravamo sul posto. Verso mezzogiorno si smetteva di dare il buon anno e allora, alle 11.45, noi ci scambiavamo i cappotti e tornavamo da Montorsi.
Una volta però la signora ci ha squadrato un po’ perplessa chiedendoci se non ci fossimo già andati.
«Lei è quella dello scorso anno?» le abbiamo chiesto.
«Si» ha risposto.
«Ecco perché ci ha già visti. Siamo passati anche lo scorso anno».
Essendo gli ultimi bambini della mattina ci dava la rimanenza, ovvero tre, quattro pezzi a testa che, quelli sì!, portavamo a casa. Mia madre, vedendo tutto quell’inatteso ben di Dio, mi dava un bacetto, commossa.
Dopo il primo dell’anno, l’altra grande festa delle vacanze natalizie, era l’Epifania. Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, restavamo svegli, facendo finta di dormire. Prima di andare a letto collocavamo le calze in fondo al letto. Poi restavamo in attesa, finché non sentivamo la Befana che si aggirava per la stanza, riempiendo le calze. Al mattino ci trovavamo dentro, più o meno sempre le stesse cose: castagne secche, un mandarino, una carruba, due o tre caramelle, un cioccolatino e nella mia calza e in quella di Franco anche due pezzi di carbone, ma eravamo ugualmente felici. Anch’io una volta mi sono travestito da Befana.
Negli anni 1958-1959 lavoravo dai fratelli Dario e Lino Bergamini. Una volta Lino mi ha chiesto di “fare la Befana” a sua figlia Paola. Arrivato a casa sua, ho bussato alla porta e una volta entrato, Paola, vedendomi così mascherato, si è spaventata. Poi sono riuscito a calmarla, le ho dato i suoi regali e raccontato tante storie. Alla fine non voleva più che me ne andassi. «Paola, devo andare a portare i doni anche agli altri bambini» le ho detto salutandola.
Tratto da: Amarcord Mirandola 2
Autore Quirino Mantovani
Anno 2018