Mirandola – Monastero e Chiesa di S.Lodovico o delle Clarisse
Con uno scritto firmato «Julia de la Mirandula, Comitissa Concordiae» e conservato nell’archivio Gonzaga, Giulia Boyardo, moglie di Gianfrancesco 1° Pico, chiedeva al Marchese Lodovico, signore di Mantova, il permesso di lasciare transitare per il suo territorio, senza pagamento di alcuna imposta, diversi carri di legname provenienti dal nord.
Il materiale era necessario per il monastero di S. Lodovico e relativa chiesa, edifici la cui costruzione, nel cuore del Borgo Novo, a due passi dal Duomo, era iniziata nel 1460. Si realizzava così un sogno a lungo accarezzato dal Conte Gianfrancesco 1° che, da tempo, desiderava donare alla sua città, un monastero.
Senza scomodare paragoni manzoniani, è noto che oltre a coloro che prendevano il velo per vocazione, entravano in convento anche parecchie fanciulle di nobili natali, le cui famiglie preferivano conservare integro il patrimonio, anziché intaccarlo con la dote che la giovane avrebbe dovuto portare all’eventuale consorte.
Consapevole ed asservito all’usanza che i cadetti di un casato patrizio dovessero il più delle volte prendere la via del chiostro (consuetudine assai poco morale ma inveterata e protrattasi per secoli) Gianfrancesco 1° Pico stabilì che dopotutto avere un monastero in città sarebbe tornato utile a tutti, essendo le novizie, convinte e non, costrette a ritirarsi, fino a quel momento, nei conventi delle città vicine.
Profittando della ristrutturazione del Borgo Novo, il Conte fece dare il via ai lavori che si conclusero dodici anni dopo la sua morte, nel 1479.
Gli edifici del monastero occupavano gran parte del lato occidentale di via Grande estendendosi, sempre verso ovest, fino alle mura.
V’erano poi le pertinenze del convento, ovvero i locali di servizio e di lavoro delle monache, che coprivano una vasta superficie della fascia occidentale dell’attuale via Fanti.
La chiesa con la facciata rivolta a sud si inseriva nel corpo centrale del convento, dividendolo in due parti, rivolte una ad occidente e l’altra a levante, dotate entrambe di chiostro. In quello di levante, rettangolare e molto allungato, adorno di eleganti logge e porticati con colonne in cotto, si trovavano le celle delle monache.
Il lato del monastero, che dava su via Grande, rappresentava la facciata principale dell’edificio, semplice ed elegante con le regolari finestre ornate di fregi in cotto, il caldo paramento a vista e i sapienti richiami allo stile rinascimentale, ordine cui si ispirava l’intero insieme dei fabbricati. Al di là della chiesa, verso ovest, si apriva l’altro chiostro di forma tendente al quadrato e dal quale si accedeva al refettorio.
La chiesa venne dedicata a S. Lodovico e con l’attributo di questo Santo, o più semplicemente «le velate» venivano chiamate a Mirandola le monache che, appartenendo all’Ordine di S. Chiara, erano obbligate alla più severa clausura.
Nei trecento anni della sua fortunata esistenza, il monastero ospitò intere schiere di monache tra le quali oltre ad un considerevole numero di patrizie mirandolesi, si velarono anche numerose principesse di casa Pico.
Per alcune di loro anzi, il Duca Alessandro II° fece acquisto di certi locali adiacenti al convento ristrutturati che, una volta donò alle figlie e sorelle monache.
Le principesse Pico ebbero dunque oltre quello di essere a turno elette Badesse del Monastero, il privilegio di abitare, nel convento stesso, in appartamenti privati.
La chiesa, come si è visto, era il cuore del monastero, trovandosi al centro degli edifici.
Sulla facciata, entro due nicchie, erano state collocate le statue di S. Lodovico e S. Chiara.
L’interno, di forma quasi quadrata, era diviso in due da una cancellata in ferro battuto, dietro la quale si estendeva la zona riservata alle monache.
Nella chiesa, per così dire, esterna, cioè in quella parte del tempio cui potevano avere accesso anche i fedeli, si trovano due altari laterali.
A destra, in origine di proprietà della casa Signoretti, sorgeva l’altare di S. Antonio con una bella ancona barocca in legno intagliato, opera di Jacopo Gibertoni. Contrapposto, si trovava l’altare di S. Diego, con una tela raffigurante il Santo, dipinta a Bologna, ove era stata lavorata anche l’ancona, per commissione di Suor Maria Alessandra Pico, nel 1652.
L’altare maggiore era inserito nella cancellata.
L’ancona, in legno intagliato e dorato, era ornata da quattro colonne ritorte decorate a fogliami.
L’opera venne ordinata a Jacopo Gibertoni, allievo del Bonelli, da Suor Beatrice Cantelli, nel 1695. Al centro dell’altare stava il quadro del titolare della chiesa: S. Lodovico in adorazione della Vergine, fra le Sante Chiara e Teresa.
La tela, opera di Ippolito Scaietta, allievo di Guido Reni, era stata dipinta nel 1664.
Fra le gradinate dell’altare e il quadro di S. Lodovico, sfruttando un’apertura che dava nel coro, era stata inserita una tavola, dipinta su entrambi i lati, che grazie ad una macchinoso congegno, poteva alzarsi ed abbassarsi, lasciando il vano aperto o chiuso, a piacimento.
Verso i fedeli la tavola mostrava il Crocefisso, adorato da due angeli. Verso la chiesa interna, dove si riunivano le monache, si ammirava una drammatica ed efficace deposizione con tutti i personaggi propri dell’episodio.
Scrive lo storico Ceretti che il quadro fu venduto nel 1816 ad un certo Albuter indoratore reggiano per cento lire e trasportato a Modena, dove i professori Vincenzi e Minghelli lo giudicarono «originale del Tiziano».
Questo per dire quali tesori possedesse il monastero; tesori che erano rappresentati da arredi d’argento e d’oro, (come ad esempio il magnifico tabernacolo, donato da Suor Maria Beatrice Pico) da tele preziose, ancone ed altre opere d’arte oltre ai già cospicui beni economici e finanziari accumulati in secoli di donazioni, per non dire delle pingui rendite provenienti da vasti possedimenti di terreni in campagna.
Il benessere in cui prosperava il monastero ebbe termine nel 1798.
Il governo della Cisalpina toglieva bruscamente le monache dal loro stato di grazia, chiudeva la chiesa e sopprimeva il convento, cancellando, in un giorno, trecento anni di storia. Se la requisizione e la successiva parziale distruzione dei proventi del monastero mirava ad un bene sociale per la comunità mirandolese, l’esito che raggiunse fu biasimevole poiché sfociò nella spogliazione e nello scempio della chiesa e del convento.
In nome di una presunta giustizia, lo spregio ed il vandalismo fini a se stessi privarono il patrimonio artistico di Mirandola, già ridotto all’osso, di alcune delle opere più insigni.
La chiesa, spogliata di quadri, arredi ed altari, per lo più venduti, trafugati o distrutti, veniva adibita ad usi profani; il campanile, che le sorgeva accanto nell’angolo sud-occidentale, fu atterrato.
Il monastero vide la distruzione del chiostro ad occidente e l’occupazione dell’altro da parte delle soldataglie. In seguito, i locali superstiti furono usati come deposito e fabbrica di sale; infine, violato lo stesso sepolcro delle monache, le ossa profanate furono gettate nelle caldaie per aumentare la produzione di salnitro.
Nel 1836, il Conte Felice Ceccopieri, podestà di Mirandola, uomo di cultura, amante delle arti e desideroso di aprire una scuola cui potessero accedere le giovani della città, stabilì di utilizzare quanto era rimasto dell’antico monastero per realizzare il suo scopo.
Gran parte degli edifici era stata abbattuta; restavano però le fabbriche di levante, col chiostro lungo, la chiesa ed alcune pertinenze.
Inoltrate le opportune pratiche ed ottenuto il parere favorevole, il Conte potè finalmente inaugurare la sua scuola negli antichi fabbricati restaurati, sotto la guida delle suore Domenicane.
La chiesa fu riaperta al culto.
Le antiche nicchie della facciata lasciarono il posto a luminose finestre.
Nuovi altari abbellirono l’interno, mentre il campanile risorgeva nello stesso luogo in cui il precedente era stato abbattuto.
Purtroppo questa pausa, che ridonava, anche se parzialmente a Mirandola il luogo religioso forse più insigne, fu breve. Nel 1860 il Governo Farini destinava il nostro monastero ad alloggio delle guarnigioni «Modena e Reggio».
Nel marzo di quell’anno, le monache abbandonarono il convento che si apprestava a vivere gli ultimi anni della sua storia. Ridotto a caserma, il fabbricato deperì ben presto, fino a non lasciare neppure intravedere la passata dignità architettonica. La chiesa, ridotta a fienile, restò preda di un incendio nel 1882. Nello stesso anno il consiglio comunale ne decretava la distruzione, costando più il restauro preventivato, che non la demolizione.
I resti del monastero, arrivati bene o male fino al nostro secolo,
furono colpiti seriamente negli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale.
Intorno alla fine degli anni cinquanta si iniziò la loro demolizione completa per dar luogo agli edifici dell’attuale Piazza Ceretti.
Tratto da: Chiese della Miraldola
Autore: Giuseppe Grana
A cura della Cassa di Risparmio di Mirandola
Anno 1981