Livio Bonfatti – Curiosità – Cosa si deve intendere quando leggiamo in uno scritto “paleoalveo”?

Livio Bonfatti – Curiosità – Cosa si deve intendere quando leggiamo in uno scritto “paleoalveo”?

26 Agosto 2025 0
Livio Bonfatti

Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana  che si distende dalla via Emilia sino al Po.

Principali pubblicazioni.

  1. Bonfatti, Mirandola sulla Secchia, in La Sgambada , 5ª edizione, Mirandola 1985.
  2. Calzolari- L. Bonfatti, Il Castello di Mirandola dagli inizi del Settecento alla fine dell’Ottocento: “descrizioni”, documentazione cartografica e trasformazioni planimetriche, in Il Castello dei Pico. Contributi allo studio delle trasformazioni del Castello di Mirandola dal XIV al XIX secolo, Mirandola 2005.
  3. Bonfatti, Manfredo del Fante. La Bassa Modenese sul finire del XII secolo, vista attraverso le vicende di un cavaliere medievale, «QBMo», 70 (2017).
  • Curiosità- Cosa si deve intendere quando leggiamo, in uno scritto, “paleoalveo”?

Capisco che, a qualche lettore, il solo parlare di “paleoalveo”, un termine difficile, non  consueto, possa anche far cadere…le braccia! Però, rivolgendomi a quel diffidente lettore, se avrà la compiacenza di leggere questo mio scritto, è possibile con pochi, semplici ed esaurienti esempi rendere comprensibile quel termine “astruso”,

La prendo un po’ alla lontana! L’idea che noi oggi ci facciamo di un corso d’acqua, che attraversa la nostra pianura padana, è di argini, alti rispetto il circostante terreno coltivato, eretti per contenere le frequenti “piene”. Questi cordoni arginali rappresentano ormai i soli rilievi, come “colline di pianura”, emergenti sulle aree agricole. Ma non è sempre stato così! Per la maggior parte del Medioevo, i fiumi hanno vagato nella “piana”, senza che gli abitanti fossero in grado di regimarli o di “gestirli”. Bastava perciò poco, un tronco caduto nell’alveo, una frana, uno sbarramento sabbioso, per rompere quelle fragili sponde naturali. In questi casi la maggior parte del flusso idrico continuava a seguire il corso principale del fiume, ma nel contempo si generava una diversione dell’acqua, che dalla “falla” si dirigeva sui terreni viciniori, creando così un ramo secondario. Questa ultima realtà è rimasta tale sino alla fine del XII secolo, quando il consistente aumento della popolazione e il fabbisogno di terreno da destinare all’agricoltura, ha reso indispensabile provvedere alla erezione di argini per contenere le ricorrenti alluvioni.

Quindi non avendo argini, i fiumi erano contenuti da sponde naturali che si elevavano per 1-2 metri rispetto al piano di campagna laterale. Maggiore elevazione avrebbe indebolito le rive facilitando l’esondazione od anche la “rotta”. Tutto ciò per dire che, scomparso nel tempo il fiume, dell’alveo fluviale rimaneva un dosso, leggermente elevato, di 1-2 metri. Perciò se noi ora vogliamo individuare tracce di questi fiumi scomparsi, “paleoalvei” [antico alveo di un corso d’acqua estinto], dobbiamo cercare sulle tavole altimetriche e sul terreno dossi, che conservino le elevazioni anzi descritte.

Premesso quanto sopra vorrei portarvi due esempi di “paleoalvei”, molto vicini a noi mirandolesi, tanto che ci capita saltuariamente, o spesso, di incontrare, senza renderci conto cosa essi siano, presi dall’attenzione alla guida della nostra auto o dall’osservare gli edifici che costeggiano la sede stradale. Mi riferisco al tratto di Statale Sud, dalla rotonda che interseca la via Nazioni Unite sino al semaforo, all’incrocio della stessa Statale Sud con la via Di Mezzo ad ovest e la via Camurana ad est, ovvero il luogo che gli abitanti di San Giacomo Roncole chiamano “al Maróň salvàdagh”.

Procedendo dalla prima rotonda verso San Giacomo ci si rende conto di affrontare una lievissima salita (non più di 1 metro di dislivello), che iniziando all’ incirca davanti al Tigotà raggiunge il punto più alto all’altezza dell’Oratorio di San Pietro (sec. XVII, edificio in abbandono).

A questo punto, proprio innanzi all’edificio religioso, noi stiamo attraversando, un “paleoalveo” di un corso d’acqua attivo, presumibilmente, attorno al XI secolo d. C. Si tratta di un canale di rotta, che si è distaccato da un ramo del Secchia (il medievale Muclena), in prossimità della attuale sanfeliciana via Granarolo. Il dosso fluviale è tuttora riconoscibile nell’andamento del primo tratto della via Imperiale, per poi proseguire lungo la via Sabbioni, sino a San Martino Carano.

Giungendo poi al successivo impianto semaforico, al Maróň salvàdagh, in attesa che arrivi il verde “buttate l’occhio” di fronte a voi e vedrete che la strada ha una repentina svolta a destra, superando una inspiegabile “salitella”. Come mai si rende necessario affrontare questo dislivello? La ragione è da ricercare nell’origine di questo territorio. Infatti in quel punto la Statale sud è stata costruita sul dosso, ben evidente, su cui sorge tutto l’abitato di San Giacomo Roncole. Il dosso in questione è da attribuire sempre a quel ramo di Secchia (il medievale Muclena). Ricordo che il Muclena aveva tratto origine da una “rotta” del fiume, all’altezza dell’attuale Sorbara, presumibilmente, nel periodo della “piccola era glaciale tardoantica”, ovvero fra il 536 e il 660 d.C. Rimasto in attività per molti secoli, impoverendosi, via via, di acqua, per effetto delle numerose “rotte”, tanto che nel 1222, assumerà l’idronimo di Flumesellus [ovvero Fiumicello], per poi scomparire definitivamente alla fine del XIII secolo. Infatti dalla località Motta, il fiume Secchia volgerà verso Rovereto, San Possidonio, diventando così l’attuale alveo.

 

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