Livio Bonfatti – 1980 Vacanze in campeggio

Livio Bonfatti – 1980 Vacanze in campeggio

27 Marzo 2025 0
Livio Bonfatti

Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana  che si distende dalla via Emilia sino al Po.

1980 Isola Capo Rizzuto – Livio Bonfatti

Vacanze in campeggio

Le nostre ferie dell’anno 1980 iniziarono il primo agosto, ma quel giorno non fu impiegato per raggiungere il luogo delle vacanze. Era necessario, prima, caricare l’auto di tutto l’occorrente, necessario alla vita di campeggio. Infatti era divenuto di moda utilizzare i camping per trascorrere le vacanze, in luoghi, magari nel meridione d’Italia, lontano dalle città o dai centri abitati affollati. Avendo, poi, bimbi piccoli, risultava certamente comodo non dover sottostare alle esigenze di vita in albergo, in quanto noi genitori avremmo dovuto rispettare rigidi orari per i pasti e un abbigliamento più consono per accedere al ristorante. Il campeggio voleva dire sentirsi maggiormente liberi, in un ambiente all’aperto, per scorrazzare in un’ ampia area, sorvegliata e recintata.

Cosa si intendeva dire, “che avremmo caricato sull’auto tutto il materiale per il campeggio”? In primis un robusto portapacchi sul quale collocare: un telo plasticato che costituiva il piano d’appoggio della tenda, un tavolino pieghevole, un sacco contenente la paleria e i picchetti, un sacco per il telo tenda, quattro seggiole pieghevoli, una piccola bombola di gas ad uso cucina, quattro sacchetti con le brandine, il tutto avvolto nel telo plasticato, per ottenere un parallelepipedo alto 45 cm circa.  Il resto doveva essere ospitato nel baule dell’auto: quattro sacchi a pelo leggeri, fornello di cucina con relativo tavolino, qualche tegame, quattro vassoi tipo self-service, bidone in plastica pieghevole, sacco con un piccolo canotto, a remi, gonfiabile, frigo portatile. I pochi indumenti (Donata diceva che al mare non c’era bisogno di cambiarsi spesso!) erano contenuti in due capienti sacche da porre sotto a piedi dei bimbi, davanti alle sedute posteriori.

Ed ecco che nella serata del primo agosto eravamo pronti per partire. Infatti alle ore quattro del giorno successivo partimmo, con meta Isola di Capo Rizzuto, in Calabria. Ci aspettava quindi un lungo viaggio, sull’autostrada “del sole”, vero e proprio “cordone ombelicale” fra l’Italia del nord, industriale e il sud povero e contadino, ma ricco di incantevoli luoghi marinari. La mattinata venne impiegata per superare l’Appennino, Firenze e Roma sino ad arrivare a ridosso della zona industriale di Napoli. Qui trovammo i primi inghippi in quanto terminava il tratto autostradale e ci si immetteva su strade ordinarie, aventi la caratteristica che ad ogni incrocio venivamo assaliti da frotte di vocianti venditori, ambulanti, che aprivano gli sportelli della nostra auto o si infilavano dentro dai finestrini, per venderci ogni tipo di merce. Questi insolenti spaventarono i bimbi piangenti, agitarono mia moglie e mi crearono grosse difficoltà nella guida.

 Superato questo tratto di strada ci immettemmo in un nuovo “troncone” autostradale, di recentissimo inizio, ovvero la Salerno – Reggio Calabria. Già famosa, allora, perché gli interminabili lavori stradali costringevano gli automobilisti ad alternare i tratti veloci con lunghissime file, in corrispondenza dei cantieri in corso di esecuzione. E proprio in uno di quest’ultimi che cominciai ad udire, dalle radio accese nelle auto affiancate alla mia, che invece ne era priva, la notizia di “una forte esplosione che aveva provocato molti morti”. Poiché si viaggiava a “passo di lumaca” chiesi all’autista, dell’auto accanto alla nostra, dove si fosse verificata l’esplosione. La risposta fu:«Bologna! alla stazione di Bologna!». A quel punto io e mia moglie ci allarmammo, temendo che lo scoppio potesse aver coinvolto parenti o conoscenti. Però non era possibile contattare nessuno in quanto, allora non esistevano i “telefonini”, ma neanche telefonare, poiché non c’erano motel o svincoli funzionanti vicini. Bisogna sottolineare che la Salerno – Reggio Calabria è tuttora, dopo quarantacinque anni, ancora “in corso di ammodernamento”! Trovammo sollievo al nostro ultimo assillo nella superstrada “dei due mari”, ovvero l’arteria di collegamento  Lamezia Terme – Catanzaro, quando riuscimmo a telefonare a Mirandola per avere notizie sullo” scoppio alla stazione di Bologna”. Verso sera giungemmo infine nella località ove era collocato il nostro camping. Per la verità quello che vedemmo fu un podere agricolo, sommariamente attrezzato, con un market, molto più simile a un bazar arabo che a un negozio di generi alimentari, un blocco servizi funzionale in quanto l’acqua potabile era trasportata da autobotti e per ultimo, dalle piazzole non si vedeva assolutamente il mare! A fronte di tutto ciò mi venne spontaneo commentare:«Am par d’èssar rivà al mar…a la Lùia!!»(1). Il giorno dopo, riposati e rifocillati, andammo a vedere il mar Ionio, dalla “balconata” naturale prospiciente la spiaggia del campeggio.

[1] Mi corre l’obbligo, per i non mirandolesi, dire che la località Lùia, posta poco dopo San Martino Spino, rappresentava la metafora di un luogo, sperduto nella Valle, lontano da ogni cosa o presenza umana. Costituiva perciò una minaccia, per le marachelle compiute dai bimbi, assieme all’altro luogo “mitico” della Galvagnina, nucleo abitato in comune di Pegognaga, che mio padre nominava con la frase:«San t’ fà minga a mód, at  port a la Galvagnina a badar  i ǒch!.[Se non fai a modo ti porto alla Galvagnina a badare le oche!».

Lascia un commento

Your email address will not be published.