L’arte della Salumeria

Commenti (0) Racconti

I salumi sono tra i cibi più universalmente diffusi. Ricercati, perché più ghiotti, quelli di carne suina, a cui ogni zona dell’Emilia concorre con una specialità: la salama da sugo di Ferrara, la mortadella di Bologna, il prosciutto di Parma, la coppa di Piacenza. Modena ha lo zampone, figlio tardivo della salsiccia, prodotta in cit­tà fin dal medioevo.

I suini di quel tempo erano di razza ben diversa da quelle che conosciamo: neri di colore, con il corpo rico­perti di setole lunghe e rigide, le gambe sottili, il grifo allungato, le orecchie ben erette, li vediamo rappresen­tati in miniature e dipinti.

Bradi o semibradi, pascolavano nei boschi,specialmente di querce, estesi anche in pianura. Non viveva­no rinchiusi nemmeno nei centri abitati. Nella stessa Modena, dalla bianca cattedrale, vagavano ancora dappertutto, e lasciavano tracce,non solo olfattive, del loro passaggio, quando già i contadini avevano pensa­to ai porcili, per difendere dalla loro voracità raccolti e boschi.

Negli Statuti Comunali del 1347 compare il divieto di lasciarli liberi per la città, ma fu poco rispettato, se fino a tutto il Cinquecento dovette essere periodicamen­te ripetuto.

Nemmeno l’energico governatore Francesco Guic­ciardini, venuto da Firenze nel 1516,al tempo di un transitorio dominio papale sulla città, da lui definita crudamente, «una stalla»,riuscì a risolvere il problema. Ai porci di proprietà privata si mescolavano quelli detti di S. Antonio Abate, perché appartenevano ai frati del­l’oratorio omonimo, all’incrocio di via Emilia con il Ca­nalgrande, allora scoperto, e godevano del privilegio di essere mantenuti dalla comunità.

C’è poi da ricordare che il mercato del sabato richia­mava in città centinaia di animali, con il conseguente ammassarsi di letame sotto i portici. Non occorrono ul­teriori precisazioni.

Negli Statuti citati si stabilisce che «qualunque per­sona che voglia macellare carni suine allo scopo di ven­derle in qualsiasi modo, sia fresche che salate, sia sotto forma di Salsiccia, all’ingrosso o al minuto, debba ma­cellare nella casa dell’Arte dei Beccai». Per un controllo sanitario, certo,ma anche perché l’Arte ne traeva van­taggio, per il versamento di una quota di iscrizione e di quella, poi, annuale.  ,

Ma i salsicciai, o lardaroli, vedendo affermarsi il commercio degli insaccati, in cui erano maestri, aspira­vano all’autonomia, e per questa a lungo lottarono.

La spuntarono nel settembre del 1547, quando il Consiglio Comunale varò un loro Statuto, nel quale si precisa: «Ordiniamo che i salsicciai facciano due generi di salsiccia ovvero Lucanicae, una che viene chiamata la Rossa, e l’altra la Gialla, e che si preparino usando solo buona carne porcina, né malata, né di animale morto per qualche infezione e che quella Gialla si faccia con zafferano, formaggio e uova di buona qualità, ad arbi­trio del proboviro».

Le controversie investirono allora altri fronti: quali ti­pi di merce, oltre la salsiccia, potevano vendere i larda­roli, e i controlli.

Nel 1574 fu fatto obbligo ai salsicciai di giurare, nel­le mani del giudice delle vettovaglie, di confezionare gli insaccati a norma di legge e, contemporaneamente, fu loro vietato di vendere carne fresca.

Infine, nel 1598, lo Statuto fu riformato ed ebbe l’approvazione di Cesare d’Este, neoduca di Modena.

«Poiché la salcizza di Modena porta vanto di esser la meglio e più eccellente che si trova e vadi attorno in altri luoghi (com’è in effetto) perciò per mantenere e piuttosto augumentare questo buon nome, si determina che per l’avvenire non si accetta, o se sarà accettato, non si lascia fare salcizza alcuno che non sia nato o lui, o la moglie da Salcizzaro o almeno sia stato Gargione di ‘Salcizzaro per anni tre continui, ovvero abbia fatto per altri tempi della salcizza o fatto fare; ea accettando al­cuno che non abbia tal qualitadi, si accetti sì; ma con patto espresso di non poter fare, né far fare salcizza a modo alcuno;ed havendo le ditte qualità possa fare e far fare salcizza pubblicamente gialla et rossade quali si dovrà per essi fare con budelle ben purgate che non abbiano fetore alcuno, né di carne fetida o marza et se­condo l’ordine et modo espresso nelle provvigioni delli signori Giudici delle Vettovaglie, et quando essi non vi fossero, secondo le determinazioni delli suoi Massari, i quali habbiano da curare che se li metta sana e buona carne, formazi non guasti, spezierie fine, sale purgato non con terra, né altra materia la quale nocesse o potes­se nocere a persona alcuna, et si vendano per li prezi che stabiliranno gli Illustrissimi Signori Conservatori sotto pena di £ 25».

Nei registri della Corporazione di quell’anno compa­re il cognome Giusti. La famiglia, di generazione in ge­nerazione, ha gestito la sua attività fino ad oggi e, caso unico, dal 1605 sempre nello stesso negozio, sotto il portico di via Farini, modificato solo nell’arredo. La «salumeria Giusti», la più antica d’Italia, e forse d’Eu­ropa, ancora sostiene le tradizioni gastronomiche locali, aceto balsamico incluso.

Ritorniamo indietro nel tempo.

La salsiccia rossa era di uso comune, quella gialla, invece, la «salsiccia fina» per definizione, aromatica, piccante, costosa, che diede fama alla città, era destinata a clienti benestanti.

Ne esistono diverse ricette. Eccone una di Cristoforo di Messisbugo, gastronomo della corte estense, autore di un trattato, stampato a Ferrara nel 1549:

«Piglia libre 25 di carne di porco grasso e è meglio nel cossetto, e pestala molto bene con la pestarola, poi piglia libre due di formaggio Piacentino grattato, e di pevere pesto oncia una e mezza, di cannella pesta oncia una, di garofani pesti oncia mezza, di Zafferano pesto un ottavo [di oncia] e incorpora bene ogni cosa insieme con oncie quindici di sale e spugnegiala [togli la schiu­ma] molto bene. Poi acconcia le budelle, e poi impasta la tua salcizzia e sarà perfettissima».

Nel primo Seicento all’impasto si aggiungeva talvolta anche lo zenzero. L’esportazione era prevalentemente diretta a Bologna, ‘Ferrara, Venezia.

Per salvaguardare il buon nome, e l’interesse, dei sal­sicciai, i controlli non erano solo igienico-sanitari, ma riguardavano anche gli strumenti di peso e i prezzi.

Ogni anno,prima del 29 settembre, giorno di S. Mi­chele, dal quale, per cinque mesi si potevano macellare i maiali, poiché la stagione fredda fungeva da frigorifero naturale, si riuniva una commissione, formata da quattro giudici delle Vettovaglie e da quattro rappresentanti dell’ Arte, per eseguire il «campione». Si prendevano in esame tutti i dati possibili il costo del maiale, delle spezie, del sale, di ogni operazione da compiere ( dalla «pellatura», all’ «espurgo»delle budella, alla lavorazione delle varie parti di grasso e di carne) e infine si fissavano i prezzi per vendita al minimo, calcolando su di essi un profitto del 12%. Tale calmiere era tassativo fino alla quaresima. Per noi è curioso vedere che il prosciutto (che di solito non superava i due chili) costava poco più del lardo, perché non lo si sapeva stagionare adeguatamente.

I guadagni dovevano essere allettanti se, all’inizio del Seicento, in una città che non arrivava ai 20. 000 abi­tanti, circondata da un contado autosufficiente dal pun­to di vista alimentare, e con una consuetudine che aveva consacrato circa cento giorni all’anno al «mangiare di magro», i salsicciai erano circa 200, e le richieste di affi­liazione all’ Arte in continua crescita.

Nel 1763, anno dell’ultima revisione degli Statuti, il duca Francesco III impose un numero chiuso per le ammissioni: «venti persone in tutto, di buona famiglia, maggiori di 25anni di età, da almeno cinque salumieri».

Nel calmiere del 1745 fa la sua prima comparsa uffi­ciale il cotechino, fino ad allora considerato prodotto inferiore, e quindi di libera vendita, perché il suo impa­sto, sia pure debitamente aromatizzato, era in gran par­te costituito dalla plebea e disprezzata cotica. Ma aveva avuto un successo enorme.

Ultimo degli insaccati è da considerare lo zampone anche se, per tradizione, se ne fa risalire l’idea ad un cuoco della famiglia Pico, al tempo dell’assedio posto dal papa Giulio II alla Mirandola, nel 1511.

Certo è che spodestò la salsiccia gialla, di cui nel pri­mo Ottocento si perdono le tracce.

Ebbe subito estimatori illustri: il duca Francesco III, ad esempio, lo richiedeva da Milano, dove risiedeva in qualità di governatore, per i suoi ospiti.

Eccolo lo «zampetto», come era allora chiamato: nel­la cotenna delle zampe anteriori del maiale, accurata­mente predisposte, viene rinchiuso uno squisito impasto di carne magra e cotenna tenera, profumato di pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, il tutto in proporzione variabile, tenuta segreta dagli operatori.

Ne sono varianti il «cappello da prete» a forma triangolare, e il «sassolese», cilindrico, sempre in involu­cro di cotenna.        ‘

I privati lavoravano in casa la carne dei loro maiali. Occorreva una consumata esperienza, per non vedere poi andare a male quella che era la maggiore ricchezza della dispensa domestica.                

Maestri, in questo, si rivelarono i pastori frignanesi, che portavano le loro greggi a svernare in pianura. I più apprezzati venivano dalla zona di Verica e passavano di famiglia in famiglia.

Con l’invasione napoleonica scompaiono le corpora­zioni d’Arti e mestieri. I salumieri diventano bottegai e artigiani liberi, la cui attività non è più particolarmente documentata.          ‘

Nel restaurato Ducato Estense, dopo il 1821 non si parla più di calmieri.

Proprio in quell’anno Giuseppe Bellentani, un giova­ne di modeste origini, ma con l’istinto dell’imprendito­re, apre, fuori delle mura cittadine, a S. Lazzaro, un sa­lumificio, che avrà grande successo, anche perché vi sa­ranno presto impiegate delle macchine, ideate in Fran­cia, azionate da turbine a vapore.

Straordinarie vetrine pubblicitarie dell’800 furono le grandi esposizioni industriali internazionali, che si pro­ponevano di favorire la conoscenza dei più vari prodot­ti, e quindi il commercio.

La prima, in Italia, si tenne a Firenze nel 1861. La ditta Bellentani fu assai apprezzata, come poi nel 1862 a Londra, nel 1868 a Torino, nel 1876 a Filadelfia nel 1878 a Parigi.

Attrezzata con macchine americane, poco costose e veloci, produceva circa 800 quintali annui di carne lavo­rata. Esportava in Austria, Svizzera, Francia, Inghilterra.

In una città in cui l’industria è agli albori, conquista un piccolo primato: l’elettrificazione autonoma della fabbrica, che affianca due potenti macchine a vapore.

La concorrenza era data da circa una quindicina di laboratori artigianali.

Nel 1880, ad otto chilometri da Modena, un altro pioniere dell’industria alimentare modenese, Giuseppe Frigieri, apre un nuovo stabilimento per la lavorazione delle carni suine.

Da lavoro, nei cinque mesi invernali, a circa quaran­ta operai, che, oltre il salario, ricevono anche vitto e al­loggio, poi rimangono solo i dipendenti addetti allo smercio.

In un opuscolo, pubblicato nel 1884, il Frigieri de­scrive dettagliatamente le varie fasi del lavoro, con con­siderazioni e un tono che danno l’idea del suo appassio­nato impegno.             

«Egli è un fatto che, è doloroso a dirsi, sui primordi all Estero si è guardato con occhio sospettoso e diffi­dente i prodotti di questa industria. L’Italia godeva di tanto poco credito, che la si credeva capace di tutto, fuorché dell’onestà commerciale e industriale. Ed è cu­rioso a dirsi che le maggiori diffidenze ci venivano di là ove alla carne di maiale si mescola clandestinamente carne d’asino, mulo, e di quali’ altra grazia di Dio nes­suno lo sa! Ma adesso i timori e i sospetti ingiustificabili tendono a scomparire, e la nostra salumeria ogni giorno viene sempre più apprezzata per la bontà dei suoi pro­dotti.              ‘

Modena e Bologna sono le due città dell’Emilia che portano il vanto sulle altre in fatto di salumeria, e ormai i loro prodotti godono di celebrità incontrastata.

A Modena sonvi due case che lavorano semplice­mente ed esclusivamente per l’esportazione dei loro prodotti; la prima è la Ditta Giuseppe Bellentani, a cui si deve in massima parte il gagliardo ed efficace impulso dato a quest industria; la seconda è quella dello scriven­te.                                                                                

Io non so precisamente quanti maiali abbia abbattu­to in quest anno la Spettabile Ditta Bellentani, ma egli è certo che tra me e lei non si sono messi in opera meno di 5000 maiali dalla metà d’ottobre al 28 Febbraio.

Come ognun vede per una provincia che non è una delle più grandi ed estese d’Italia, è pur di considerevo­le vantaggio questo commercio, ed è evidente in pari tempo che qualora cessasse, il contraccolpo che ne ri­sentirebbe l’agricoltura locale sarebbe sensibilissimo.

Non poco cammino resta da farsi ancora per portare quest’industria al punto di potersi dire perfetta, tanto più che da quest’industria stessa potrebbe trarsi profitto per crearne delle altre che chiamerei sussidiarie, utiliz­zando in diverso modo quei cascami dai quali oggi si ricava poco vantaggio.

Con tutto ciò però da 15 anni a questa parte quanto progresso si è fatto! Al tagliare e pestare la carne a mano, fatica improba e poco umanitaria, si sono sostituite macchine che rappresentano il lavoro di centinaia d’operai senza tener calcolo che l’operajo non potrebbe dar un prodotto uguale ed omogeneo appunto per l’enorme fa­tica a cui dovrebbe sobbarcarsi all’insaccare a mano si sono sostituitie macchine che alla celerità uniscono la precisione; a cantine umide e malsane, si sono sostituiti stabilimenti grandiosi, arieggiati, muniti di tutto quanto può favorire non solo, ma accelerare la produzione; all’antico sistema di uccidere i suini si sono sostituiti degli ammazzatoi vasti, dotati di condotti d’acqua, per la lava­tura e la pulizia dei medesimi, ed organizzati in modo da potersi abbattere, depilare, squartare, e pesare circa 40 maiali all’ora. Tutto questo rappresenta un progresso, senza tener parola del miglioramento dei prodotti e della prontezza con cui sono confezionati.»

Non è a credere, però,che l’allevamento domestico del maiale, onnivoro, pacifico, ricco di grassi, stesse per scomparire. Ancora nel secondo dopoguerra del Nove­cento veniva praticato dalle famiglie contadine, in pia­nura come in montagna.

Se si pensa che nel 1951 gli addetti all’agricoltura erano il 56% della popolazione attiva, risulta chiara l’entità del fenomeno.

L’uccisione del maiale era un momento felice del­l’anno agrario. Tutta la famiglia si mobilitava e si mette­va agli ordini di un esperto di fiducia, non necessaria­mente un professionista, che divideva le carni da consu­mare fresche da quelle da salare, da tritare per gli insac­cati, e poi i lardi, le pancette, e così via. Si preparavano ciccioli e coppe di testa. Ciò che non poteva essere con­servato si mangiava subito, in grande allegria con paren­ti e amici. E allegria veniva anche dai festoni di salsiccia, dai salami, dai cotechini e dagli zamponi pendenti da lunghe pertiche appese al soffitto, davanti ai camini ac­cesi, perché si asciugassero, prima di essere messi al si­curo nel fresco della cantina.

Quel piccolo mondo di care tradizioni fu travolto dal crollo della mezzadria, rapido e sorprendente.

Dal 1951 al 1991 gli addetti all’agricoltura, nella pro­vincia di Modena, scesero da 136000 a 26000, cioè a meno del 10% della popolazione attiva.

Chi lasciava i campi per nuove occupazioni, non cambiava per questo, le abitudini alimentari, anzi, la cu­cina casalinga divenne un segno d’identità, un legame con il passato.

Il diffondersi generale del benessere, dagli anni 70 in poi, ha affinato i gusti e accresciuto le esigenze della clientela. Le aziende sono state quindi costrette a rinno­varsi tecnologicamente e a specializzarsi.

Sono sorrette da una rete di allevamenti di maiali ( 170 nel 2000), con un numero complessivo di circa mezzo milione di capi, di diverse razze, tra cui si privi­legiano quelle da cui si ottiene carne magra. Per inciso si può notare che solo il 10% di questa è messa in ven­dita immediatamente, tutto il resto è lavorato.

Le esportazioni si rivolgono specialmente ai paesi dell’Unione Europea.

Lo zampone continua a essere il simbolo gastrono­mico della città, rallegra la mensa, nei mesi invernali, tra fumanti lenticchie. Come nel passato. Giosuè Car­ducci, fra il 1885 e il 1895, ogni anno, durante le vacan­ze di Natale, si spostava da Bologna a Modena per ve­nirlo a gustare nella trattoria di Fedele Grosoli; in via Canalino, con una comitiva di professori.

E prima ancora, Gioacchino Rossini da Parigi, dove si era stabilito, ricorreva alla fidata amicizia del musici­sta modenese Angelo Catelani, perché commissionasse per lui, al «celebre Bellentani», « 8 cappelli da prete, 6 zamponi, 10 cotechini di diverse dimensioni: totale 24 brillanti maia-leschi» (ottobre 1859).

Tratto da: Enciclopedia Modenese

Autori Giancarlo Silingardi – Alberto Barbieri

Anno 2003

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *