Il segreto di Ulisse – 15°e 16° capitolo
L’uomo era alto e dal fisico possente, la pelle bruciata dal sole. I capelli nerissimi fluttuavano nel vento mentre, a prua dell’imbarcazione, i suoi occhi scuri come la notte scrutavano lo sconfinato orizzonte.
«Oramai manca poco, Ulisse. Tra breve sarai in patria.»
Il marinaio che aveva parlato non ricevette risposta, ma gli bastò lo sguardo infinitamente triste dell’eroe greco per comprendere quale prezzo egli aveva pagato per poter rivedere finalmente lo scabro profilo roccioso di Itaca.
Ulisse afferrò con entrambe le mani il medaglione che portava al collo da quel giorno funesto e fu tentato di strapparne la pesante catena d’oro e di fare scomparire per sempre tra i flutti il gioiello.
Ma quel monile gli ricordava una promessa e la parola data sarebbe stata mantenuta, anche se ciò avrebbe significato abbandonare ancora la patria, il figlio e la moglie per un ultimo viaggio…
Capitolo 15
«Lo sapevo, lo sapevo che avremmo trovato qualcosa, una traccia, un segnale! Nonostante ci sia “qualcuno” che intende fermarci, c’è “qualcun altro” che invece si prodiga per aiutarci. Chi siano queste entità ancora non lo so, ma non importa. Questo bassorilievo è finalmente la prova tangibile che non vaneggiavo. Vedete, vedete anche voi o sto sognando?»
Brando si agitava e urlava come un ossesso, saltellando malamente sulle gambe traballanti e gesticolando davanti al tratto di parete illuminata, mentre Marcello e Martina avevano perso la parola, del tutto attoniti e sconvolti.
Sul muro vi era un piccolo bassorilievo, minuziosamente scolpito nel calcare e dipinto di rosso e nero. Il soggetto era lo stesso descritto da Picchio quella sera in ospedale parlando del vaso. Una donna bellissima dai lunghi capelli neri cingeva il collo di un uomo con una catena recante un medaglione, mentre sullo sfondo uno strano essere, per metà uomo e per metà uccello, protendeva le ali in atteggiamento disperato verso l’altra figura maschile.
«Presto, presto, Martina, strega mia adorata, prendi la macchina fotografica dallo zaino, prima che questo portento svanisca nel nulla. Non sono ancora del tutto sicuro che non sia solo un sogno!»
«No, c’è davvero, Picchio sta’ tranquillo, lo vediamo anche noi due» gli rispose la ragazza, preferendo al momento sorvolare su quel “strega mia dorata” che l’aveva lasciata attonita quasi quanto la visione del bassorilievo. Il momento era troppo importante per soffermarsi su un’esclamazione che probabilmente era stata dettata solo dalla felicità e dall’entusiasmo. Obbedendo prontamente, trasse la macchina fotografica e scattò varie inquadrature, per essere sicura che non andasse perso alcun particolare del minuscolo capolavoro.
Fin dalla prima occhiata Brando aveva notato che il bassorilievo era circondato in senso orario da segni ben noti che non tardò a decifrare.
«Picchio, ma mi sembra che ci sia una scritta tutto intorno alla scenetta. Non ti sembra greco? Dai, vedi un po’ di capire cosa dice.»
«Certo che se frequenti il Liceo classico da quattro anni e fatichi a comprendere un’iscrizione semplice come questa, allora vuol proprio dire che hai perso tempo! Ma non vedi com’è chiara? C’è scritto: “Callidoros epòiese”, cioè “mi ha fatto Callìdoros”. Per gli artisti dell’epoca era il modo consueto di firmare le proprie opere, come dovresti ben sapere!»
I ragazzi non riuscivano a smettere di guardare il bassorilievo e si accorsero solo dopo parecchio tempo che il canto straziante era cessato e che li avvolgeva il più profondo silenzio. D’un tratto, fu come se si fossero risvegliati da un sogno.
«Martina, posso stare tranquillo per le foto, vero? Non vorrei che, ritornati alla realtà, dovessimo poi scoprire che su quella pellicola ci sono solo immagini confuse.»
«A meno di un intervento soprannaturale, che, viste le circostanze, non posso certo escludere, ti garantisco che ho fatto degli ottimi scatti. Vediamo piuttosto di uscire da questo buco e possibilmente tornare alla normalità.»
Di nuovo Marcello prese il comando della situazione e con piglio deciso aiutò gli amici a risalire lungo la fune.
Quando sbucarono infine nella grotta soprastante scoprirono, non senza sollievo, che la marea si era ritirata e che tutto appariva normale. Il barcaiolo era già in attesa e, brontolando parole incomprensibili, indicava con ostentazione l’orologio da polso e al contempo esprimeva con il gesto del pollice e indice soffregati insieme, riconosciuto in tutto il mondo, il concetto di denaro.
Brando si avvide con stupore che erano passate sei ore da quando erano sbarcati sulla spiaggetta e con un sospiro rassegnato mise mano al portafogli.
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Callìdoros il vasaio stava chino sul tornio nella stanza illuminata dal sole del primo mattino. Le agili mani imbrattate d’argilla accarezzavano la massa ancora informe e dalla vile materia creavano un’opera d’arte.
La sua maestria era ben nota e solitamente ben retribuita, ma non aveva preteso compenso per quel particolare lavoro: glielo aveva commissionato Ulisse, suo amico d’infanzia. Ne ricordava ancora vivamente le parole: «Callìdoros, amico mio, ascolta la preghiera di un uomo stanco ma non vinto: plasma e decora un vaso che raffiguri quanto sto per narrarti. Il ricordo mi perseguita, forse così potrò liberarmene…
« Quel giorno funesto, che gli dei possano cancellarlo dalla mia memoria, la maga Circe mi fece un dono, a spregevole ricompensa di quanto io le avevo concesso e che invece il casto Picus le aveva rifiutato.
«Non voglio giustificare la mia colpa, ma sappi che pensavo ai miei compagni, che, da lei trasformati in porci, grufolavano nell’aia e…che le sue braccia erano morbide e profumate: non mi fu difficile fingere che ella fosse Penelope lontana. Ma Picus, prima di me, aveva rifiutato i suoi baci, tanto grande era l’amore per la moglie Canente. E fu punito per questo.
«Proprio mentre la strega mi cingeva il collo con il medaglione che vedi, egli, con un sortilegio malefico, fu trasformato in uccello e mi implorò, con le ultime parole umane che riuscì a pronunciare, di trovare Canente e suo figlio e di raccontare loro la sua sorte.
«Io promisi solennemente, mentre Circe rideva come impazzita, e giurai a me stesso che niente mi avrebbe impedito di tener fede a quel voto.
«Il poveretto, divenuto picchio, volò via e non seppi mai più nulla di lui.
«Come mi liberai della strega e riuscii a fare ritorno a Itaca è un’altra storia e forse un giorno, al mio ritorno, te la racconterò.
« Ora devo partire per mantenere la promessa: cercherò Carnate per mare e per terra, fosse anche il mio ultimo viaggio e non dovessi mai più rivedere Itaca…».
Callìdoros aveva chiesto all’amico cosa rappresentasse quel medaglione e Ulisse gli aveva risposto: «Non lo so e non so nemmeno cosa contenga lo scrigno racchiuso nel ciondolo: non volli mai aprirlo, nonostante Circe la maga mi avesse giurato che conteneva un altro dono, ancora più prezioso dell’oro con il quale era stato forgiato il gioiello.
«Addio, Callìdoros. Ricorda la mia preghiera: crea un vaso prezioso, fallo per me, in memoria di questo momento e della nostra amicizia».
«Non temere, Ulisse, non mancherò. Ma cosa dovrò farne del vaso una volta ultimato ?»
«Se mai farò ritorno a Itaca, ti cercherò. Se invece gli dei non lo vorranno, fanne l’uso che vuoi.»
Con queste parole i due si congedarono. Già stava scritto che non si sarebbero mai più rivisti…
Capitolo 16
Era da poco passato il mezzogiorno e un sole abbagliante inondava le bianche casette di Ithàki, con le porte e le finestre dipinte di azzurro sprangate per difendere gli abitanti dalla calura. Il paesaggio era stranamente immoto e silenzioso.
Ancora scossi dalla sorprendente avventura, i tre amici, giunti in porto, decisero di rifocillarsi con un pasto abbondante e di recarsi poi al museo, per analizzare il famoso vaso visto da Brando l’anno precedente.
Ma qui giunti li attendeva un’amara sorpresa: dopo aver percorso in pochi minuti le salette del museo, scoprirono che la nicchia che aveva ospitato il reperto ora esponeva una bellissima ma del tutto inutile statuetta di bronzo raffigurante Atena,(1) con l’elmo, la lancia e lo scudo.
A nulla valsero le ulteriori ricerche compiute dai ragazzi in tutte le teche e i piedistalli disseminati qua e là in ordine sparso: il vaso non c’era proprio.
In preda allo sconforto Brando decise allora, seppur riluttante, di rivolgersi al custode, che, come l’anno precedente, se ne stava semisdraiato dietro la stessa scrivania ingombra di cartellini esplicativi scritti a metà e di bottigliette vuote di ouzo.
Non senza fatica e con la solita elargizione benefica di denaro, egli seppe dunque che il vaso era sparito, probabilmente rubato, una notte di pochi mesi prima, senza che dal museo sparisse nient’altro e senza che le serrature avessero riportato segni di effrazione.
Il custode scosse la testa e volse al cielo le mani, come a dire che non sapeva altro.
«L’ennesimo mistero» bofonchiò Brando accigliato. «Cominciano davvero a essere troppi per poterli definire solo coincidenze. Quindi la pista deve essere buona, anche se non capisco ancora chi non vuole che troviamo il bandolo della matassa. Ma io non mi fermo di sicuro!»
«Con chi parli, Picchio, da solo come i matti? E cosa facciamo adesso?» lo apostrofò Marcello, anch’egli alquanto avvilito dalla sparizione del vaso.
«Andiamo difilato alla biblioteca: chissà che non riusciamo a trovare qualche traccia da seguire, perché, devo dire la verità, mi sembra di essere a un punto morto.»
«Ma no che non siamo a un punto morto!» si accalorò Martina che fino a quel momento non aveva detto un parola. «Hai avuto ragione a voler esplorare la grotta, abbiamo trovato quel bassorilievo che riproduce esattamente quello che era raffigurato sul vaso scomparso. E poi succedono cose strane, inspiegabili, e questo vorrà dire qualcosa, no? Dài, Picchio, non ti scoraggiare! Cosa può voler dire tutto questo? Pensa, ragiona con quella tua testa geniale!»
«Geniale un corno! In questo momento mi sento solo un idiota! Mi sembra che mi sfugga qualcosa ma non riesco a capire cosa, un legame, un anello della catena, un riferimento. Ma non dobbiamo assolutamente abbatterci. Se Ulisse e Pico della Mirandola sono collegati in qualche modo state sicuri che io lo scoprirò, o non mi chiamo Ildebrando Piccinini!»
«Oh, così mi piaci, Picchio! Andiamo alla biblioteca, se è aperta» rispose Martina.
Uscirono in fretta e furia dal museo e si incamminarono per una buia stradina in salita, irta di infiniti strettissimi gradini. Un gatto tigrato di proporzioni inusuali dormiva beatamente sulla soglia di una abitazione e al loro passaggio si limitò ad aprire un occhio e a sbadigliare con gusto.
Per il resto il vicolo era assolutamente deserto e silenzioso, tuttavia Marcello, uomo d’azione, si sentiva osservato. Ultimo della fila indiana capeggiata da Brando, si girò più volte indietro, convinto di sorprendere qualcuno sulle loro tracce, ma ogni volta vide solo le ombre danzanti proiettate sui muri dai panni stesi alle finestre.
“Forse sto diventando paranoico, Picchio mi ha contagiato! Al diavolo, non c’è proprio nessuno o se c’è qualcuno è davvero molto bravo a nascondersi tra le ombre. E se fosse un fantasma? Il fantasma di Ulisse? Ma dico, devo essere proprio rincretinito per pensare una cosa del genere. Avrò preso un colpo di sole, che è più probabile!”
Così Marcello non prestò più ascolto alla viscida sensazione di avere uno sguardo bruciante puntato alla schiena. Fece spallucce a se stesso e non si voltò più indietro. Ma il suo istinto non aveva sbagliato nel suggerire una presenza oscura…
In cima alla salita la strada ritornò pianeggiante e i tre poterono finalmente riprendere fiato. Svoltarono poi a sinistra e dopo pochi passi Brando individuò l’ingresso della biblioteca.
Contrariamente al museo, qui li attendeva una gradita sorpresa: il locale, che Picchio ricordava angusto, soffocante e senza luce, male attrezzato e disorganizzato, era stato completamente ristrutturato e modernizzato e anche il personale era cambiato.
Al posto della vecchia bibliotecaria arcigna e scontrosa che parlava solo greco ora c’era una ragazza belloccia di circa trent’anni, dall’aria efficiente e disponibile, che li salutò in perfetto inglese e si presentò come un’arche- ologa temporaneamente assegnata a quella sede.
Anche il bancone all’ingresso era stato finalmente attrezzato con alcuni computer, i cataloghi apparivano freschi di stampa, i classificatori di metallo erano in perfetto ordine, e gli scaffali contenenti i libri erano stati disposti in modo decisamente più razionale.
Notando lo sguardo stupito di Brando, la bibliotecaria, che si chiamava Elèni, si mise a loro disposizione per ogni necessità e Brando ne approfittò immediatamente.
Le spiegò quindi, con il suo inglese non meno perfetto, che cercavano notizie di un vaso esposto al museo l’anno passato e sparito di recente e di qualsiasi altra informazione collegata al mito di Ulisse e al suo incontro con Circe.
Elèni, chiaramente entusiasta per il tema di quella che Picchio aveva spacciato per una specie di ricerca scolastica, dimostrò la propria preparazione indirizzandolo verso uno scaffale in particolare e verso un terminale dal quale era possibile effettuare verifiche e cercare riscontri collegandosi in rete con musei e biblioteche di tutto il mondo. La ragazza lo informò anche che nell’ultimo anno la biblioteca si era arricchita di parecchie nuove pubblicazioni e cataloghi di reperti rinvenuti sull’isola.
A Brando non pareva vero di poter avere accesso a un intero database(2) specialistico sul tema di Ulisse e si immerse immediatamente nella ricerca informatica, mentre Marcello e Martina iniziarono ad attaccare con solerzia e concentrazione i libri posti sullo scaffale che Elèni aveva indicato.
«Mi raccomando, voi due, cercate qualsiasi informazione su Ulisse, Picus, Circe, i viaggi di Ulisse, i luoghi dei ritrovamenti che gli vengono riferiti. Insomma, tutto. Tutto quello che vi sembra interessante e pertinente, e anche quello che non lo sembrerebbe a prima vista, perché di certo non brillate come segugi e poi mi toccherà rivedere e analizzare tutto quello che avrete trovato. Forza, sursum corda,(3) al lavoro!»
«Grazie per la considerazione che hai di noi! Meriteresti che ti lasciassimo qui da solo ad ammuffire e ce ne andassimo a mangiare un bel gelato alla faccia tua!» esclamò piccato Marcello, facendo l’atto di dirigersi verso l’uscita.
«Bene, fate come vi pare… ah, a proposito, se volete un gelato cercate l’insegna pagotà» rispose Brando, per niente toccato dalla reazione dell’amico.
Vedendo che Martina non si era mossa e non dimostrava alcuna intenzione di lasciare solo Brando, Marcello pose fine alla scenata e scuotendo il capo si rituffò nei libri.
(1) Atena: figlia di Zeus, dea della saggezza, deU’intelligenza, del valore guerresco e delle arti. Protettrice della città di Atene.
(2) Database: inglese = archivio di dati.
(3) Sursum corda: latino = in alto i cuori.