Francesco Montanari da Mirandola – “L’Indicatore Mirandolese anno 1907”
Parliamone a fronte china o a fronte eretta, l’atto non monta, purché esprima o reverenza o compiacimento d’aver avuto da questa gente nostra un uomo come Francesco Montanari.
Egli nacque nel 1822, l’indomani, per dir così delle due rivoluzioni di Napoli o di Piemonte, finite male. Verso quel tempo, o poco appresso, Ugo Foscolo, esule in Londra, profetizzava che la nuova letteratura, sorta in Italia contro il classicismo puro, avrebbe dato da piangere alle madri italiane ed emolumenti alle spie. Indovinò. Quella letteratura, quali che siano stati i suoi difetti fin dal suo nascere e poi, creò un « ambiente » in cui l’anima italiana senti più immediato il contatto con la patria, e cominciò subito a dare i suoi apostoli, i suoi confessori e i suoi martiri. Lo Spielberg per i lombardi-veneti, i patiboli per quelli delle Due Sicilie, gli esilii per i piemontesi, fecero piangere veramente le madri italiane. In quell’ ambiente venne su il Montanari nella sua Mirandola, associando in se i dolori della patria con quelli della famiglia, dove la madre rimasta vedova con parecchi figli, quando egli aveva appena due anni, di sulle ceneri del focolare tirava su con fatica gli orfani poverelli alla vita.
Appena adolescente, egli udì il tradimento del Duca a Ciro Menotti; capì lo strazio di questo forte trascinato a Mantova dal principe fuggiasco e ricondotto a Modena per esservi messo al patibolo, e chi sa con qual cuore sette anni di poi entrò nella scuola ducale dei cadetti pionieri militari! Vero è che da quella uscirono tanti giovani, che onorarono le armi italiane al servizio della libertà in Ispagna, in Portogallo, un po’ dappertutto, e poi nella patria, quando questa si destò. Da quella scuola usci anch’egli ingegnere, ma renitente a ogni soggezione; portato per natura ad essere principe e sacerdote di sè stesso, lavorò come potè per vivere libero, e libero era quando sopravvenne il gran Quarantotto a infiammare l’Italia e l’Europa. Allora il Montanari partì, e da soldato vide e combattè nei fatti d’ armi più belli, da quel di Governolo all’infausto, ma come combattimento bello aneli’ esso, di Custoza. I suoi studi militari lo elevarono presto al grado di capitano; ma volta a male la guerra nella Lombardia, egli corse in Sicilia dove la rivoluzione era alle prese col Borbone.
Caduta la Sicilia, volò egli a Roma, dove subì per la prima volta la superiorità d’un uomo non formalmente soltanto ma nell’intimo del cuore; e quello fu Garibaldi. Anima d’anarchico, ma nel senso più alto e più puro che si possa dare a questa parola, oggidì così indegnamente sciupata, dinanzi a Garibaldi, il Montanari senti d’ essere secondo a qualcuno, e che nel mondo uno almeno viveva cui egli doveva sottomettersi per obbedirgli e seguirlo. Non era superbia la sua, era coscienza d’egualitario, protestante contro tutte le disuguaglianze sociali ; filosofia istintiva che gli faceva parere ideale di vita vera il non aver nessuno cui servire e nessuno cui comandare. A Roma, se Garibaldi piacque a lui, egli piacque a Garibaldi, non per prodezza; questa, si sa, non doveva mancare. Gli piacque appunto per quella natura di libero che il generale aveva in sé, e che fece di lui l’uomo più inconciliabile con la Società qual’ è, sebbene quando vi si trovava in mezzo sapesse starvi signorilmente, purché fosse per poco tempo. Con Montanari, Garibaldi armonizzò, forse come già con l’Anzani.
Caduta la repubblica romana, il Montanari seguì il generale nella sua ritirata fino a San Marino, a Cesenatico, alla Mandriola, dove gli ultimi fedeli furono dispersi dalla parola del Duce, come le foglie vocali della Sibilla per tornare a ricomporsi quando che fosse, conservati all’Italia. E da allora cospirò.
Nel 1851, egli, come se avesse a’ suoi ordini uno Stato e un esercito, con l’ingegnere Borchetta e con l’Acerbi di Mantova studia le fortificazioni di questa città e quelle di Verona, illudendosi di poterle pigliare con un colpo di mano. Scoperto, arrestato, viene cacciato lassù in una delle celle del Castello Gonzagiaco, divenuto prigione. Egli dice spontaneamente ciò che gli viene imputato a delitto di Stato; non cerca di coprirsi; anche per salvarsi gli pare cosa indegna mentire. Era l’iperbole dell’ onore.
E sta nelle carceri dove dopo aver fatto meravigliare i suoi inquisitori, si fa ammirare dai compagni di sventura. E ve ne sono molti là dentro: tutti grandi d’animo: vi è Tazoli, vi è Speri, vi è l’altro Montanari, il patrizio veronese, con cui il nostro non ha parentela se non per la parentela se non per la somiglianza della grandezza morale.
Come lui e come gli altri sarebbe andato anch’egli nobilissimamente al patibolo, se l’imperatore d’Austria, oppresso forse dall’aver troppo fatto impiccare in Ungheria e troppo in Italia, non avesse detto che bastava, o non avesse dato l’ordine di chiudere i processi e di mandare amnistiati i detenuti. Montanari uscì libero, ma dalle mani austriache soltanto, perchè il duca di Modena lo volle, come suddito suo, in quello della propria sbirraglia. Ed ecco il momento in cui quel tirannello avrebbe volontieri fatto piantar le forche pel Montanari nella piazza dove in quest’ anno, la domenica 30 settembre, Mirandola gli eresse un monumento.
Non la forca adunque, ma rifattogli il processo, fu dato a Montanari il carcere di Rubiera. Crudeltà raffinata, la madre di lui, povera, doveva per sentenza fare le spese al detenuto ! Ma gli anni del tirannello modenese erano già sin d’allora contati; la sua sbirraglia stessa non reggeva già più a tormentare le sue vittime a modo suo. Anche quella si scuoteva, cominciava a capire. A non lungo andare, il Duca s’ accorse che il prigioniero gli avrebbe sovvertito fin le pietre della fortezza. Allora deliberò di levarselo dai piedi, mandandolo bandito dal ducato. Cosi si dava anche l’aria di aver esaudite le preghiere della madre di lui.
Montanari non potè rifiutare quella specie di grazia, perchè sapeva quale disagio era per la povera vecchia dover mantenere il pane a lui carcerato; accettò la libertà, e parti pel Piemonte.
Terra di liberi era già il Piemonte in quei giorni, ma anche terra di Governo che doveva star bene in guardia contro ogni cosa che gli potesse tirar addosso una guerra dall’ Austria. Onde talvolta i rifugiati d’ altre terre italiane vi patirono persecuzione per le loro impazienze, e parecchi furono sfrattati. A Montanari toccò lo sfratto. Gli anni di poi, dal 1855 al 1859 li passò nella Svizzera, tutto di Mazzini. Ma venuta l’ora della ripresa d’armi ricomparve in Piemonte, a Savigliano coi suoi compagni di Roma e di San Marino, ad aspettare Garibaldi. E Garibaldi se lo prese poi subito per aiutante di campo, in quella guerra di Lombardia, che pur finita con una pace imprecata come fu quella di Villafranca, pose l’Austria nella condizione di doversene stare con l’armi al piede a guardare ciò che sarebbe avvenuto, e avvenne infatti, nell’ Italia centrale e nella meridionale, senza poter movere, nè invocare i trattati del 1815, nè farsene esecutrice come aveva fatto per lo innanzi, a ogni movimento insurrezionale italiano.
Formatosi l’esercito dell’Emilia, Montanari vi corse. Quell’ esercito comandato da Garibaldi e poi da Fanti, fu il nodo che legò il 1859 al 1890. Fu il presidio del Governo dell’ Italia centrale che impedì al Granduca di Toscana e ai duchi di Parma e di Modena e ai legati pontifici di Romagna ogni tentativo di restaurazione; onde fu poi subito ineluttabile l’impresa delle Due Sicilie.
Venuta la primavera del 1800, il Montanari fu con Garibaldi alla partenza da Quarto, sempre suo fido, terzo suo aiutante.
Primo era il Tur, secondo il Tukòry, rappresentanti della nobile Ungheria, allora lungi ancora dal riconciliarsi coll’Austria. Il Montanari andava di nuovo a offrir il suo braccio alla nobile isola, di cui aveva sentito il fascino nel 1849, e sebbene repubblicano intransigente nella idea, passava sopra alle necessità del momento, accettando il programma di Garibaldi : « Italia e Vittorio Emanuele ». Purchè si facesse l’unità, egli dimenticava anche la sua avversione alle monarchie e specialmente a quella di Savoia contro la quale covava dei risentimenti quasi direi personali.
Non oso pensare a ciò che il Montanari avrebbe potuto risolvere per sè, a guerra finita, col grado cui certamente sarebbe salito come il Turr, il Bixio, il Medici e tanti altri. Ma egli era dei predestinati al sacrificio. Già gli si leggeva nel viso un dolore di cui nulla lo avrebbe guarito, non gli onori, non il comando cui pareva nato, non la gloria. Doveva morire! E il giorno 15 maggio sul colle di Calatafimi fu dei primi a cadere. Una palla dei cacciatori borbonici, una di quelle palle ogivali-cave che squarciavano orribilmente, gli ruppe il ginocchio destro e su su tutto il femore. Vivono ancora alcuni che lo videro sorretto da due militi e lo udirono gridare agli accorrenti all’assalto di rispettare i nemici caduti o prigionieri, perchè anch’essi erano italiani.
Stette cosi ferito, tutto il resto di quel giorno e la notte appresso in una catapecchia, con altri parecchi raccolti là dagli amici. Il mattino di poi, Augusto Merighi, uno dei due mirandolesi che si erano imbarcati con lui a Genova, lo trovò in quello stato. L’ altro, l’ingegnere Giovanni Tabacchi, non era ad aiutarlo perchè anch’e egli ferito. Il Merighi fece trasportare l’amico nel paesello di Vita, dove fu ricoverato in un tugurio e, curato come si poteva curar uno dove mancava, ogni cosa.
Tutti i medici della spedizione Ripari, Boldrini, Ziliani, prestarono l’opera loro da fratelli, la prestò più che da fratello un dottor Lampiasi di Salemi, che aveva seguito la colonna dei Mille fin sul campo. Nulla valse pel povero Montanari; la ferita incancrenì; gli dovettero dire che bisognava amputarlo. Ed egli che durante tutti i giorni dacché giaceva non aveva dato un lamento, e si era fortificato nella lettura di Dante, memore forse d’aver visto l’anno avanti a San Fermo morir il giovinetto Francesco Battaglia con un Dantino che s’ era messo per guanciale sotto la testa; egli ebbe a quell’ annunzio un fremito di orrore. Ma si rassegnò. Non si era rassegnato, in Roma, nel 1849, Goffredo Mameli ?
L’orrendo taglio fu fatto. Raccontano ancora adesso alcuni superstiti che stavano in Vita a curare le proprie ferite, una scena eroica, pietosa. Quando passavano gli uomin che portavano via la gamba di Montanari, essi si inginocchiarono reverenti, presaghi che tutto lui sarebbe subito andato dietro a quella tormentata sua parte. E infatti egli morì il 6 giugno, giorno di trionfo a Palermo, dove Garibaldi era entrato, aveva combattuto, aveva vinto, dove appunto in quel giorno ventiduemila borbonici capitolati cominciavano a imbarcarsi per andar via. Montanari non ebbe la suprema gioia di saperlo !
Onore a quel dottore Lampiasi di Salemi che mori pochi mesi or sono. Allora egli volle che la salma dell’eroe fosse trasportata da Vita alla cittadetta sua, dove Garibaldi il 13 marzo si era proclamato Dittatore. E nel cimitero di Salemi fu data pace a quelle povere spoglie d’ uomo che da vivo aveva incarnato in sè l’ideale espresso da Shelley in queste parole: « Soffrire dolori che la speranza crede infiniti: dimenticare offese più nere della notte e della morte; sfidare il potere che sembra onnipotente: amare e sopportare; sperare fin che la speranza crei, dalla sua stessa mina, la cosa ch’ella contempla; non mutare, non vacillare, non pentirsi: questo è esser buono, grande e gioioso, bello e libero: questo solo è vita, gioia, impero e vittoria. »
G.C.Abba
Tratto da “L’Indicatore Mirandolese“ Marzo 1907