Livio Bonfatti – Due detti mirandolesi dove ” l’oca c’entra poco”

Livio Bonfatti – Due detti mirandolesi dove ” l’oca c’entra poco”

15 Ottobre 2025 0
Livio Bonfatti

Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana  che si distende dalla via Emilia sino al Po.

Principali pubblicazioni.

  1. Bonfatti, Mirandola sulla Secchia, in La Sgambada , 5ª edizione, Mirandola 1985.
  2. Calzolari- L. Bonfatti, Il Castello di Mirandola dagli inizi del Settecento alla fine dell’Ottocento: “descrizioni”, documentazione cartografica e trasformazioni planimetriche, in Il Castello dei Pico. Contributi allo studio delle trasformazioni del Castello di Mirandola dal XIV al XIX secolo, Mirandola 2005.
  3. Bonfatti, Manfredo del Fante. La Bassa Modenese sul finire del XII secolo, vista attraverso le vicende di un cavaliere medievale, «QBMo», 70 (2017).

Due detti mirandolesi, dove “l’oca c’entra poco”.

Vorrei parlarvi di due “detti” mirandolesi, molto comuni anni fa, ma che ora sono assolutamente scomparsi nel lessico dialettale. In entrambi vi è un riferimento all’oca, senza che si riesca a capire il nesso tra l’animale da cortile e la circostanza in cui viene pronunciato il “detto”.

Ve li elenco entrambi assieme proprio per cogliere questa contraddizione:

A vàg a far al bècch al’òca oppure Ho fatt al bècch al’òca

Ciappàr n’òca oppure A t’ho mandà in òca.

Comincio con il primo dicendo che l’ho udito da mio nonno Piren, quando ancora tratti della mietitura erano eseguiti con l’msóra e dove non era possibile utilizzare la mietiliga [per i non esperti, trattasi di una macchina agricola che provvedeva a mietere il grano e a legare i covoni]. Mio nonno si recava nei campi ad eseguire la mietitura nella mattinata e nel pomeriggio vi ritornava per concludere il lavoro, legando i covoni con una stroppa di salice o di pioppo, ripiegata su sé stessa in modo che il legaccio si chiudesse con un nodo. Piren prima di partire pronunciava appunto il “motto” – “A vàg a far al bècch al’òca” – per cui io ho sempre ritenuto che indicasse il modo di legatura del covone. Poiché dopo molto tempo ho udito altre persone profferire il “motto”, relativamente ad altri tipi di lavorazione, mi sono reso conto che sostanzialmente volesse dire che la persona che lo pronunciava, in realtà intendesse informare che andava a concludere un lavoro eseguito a metà. Con ciò non ho mai capito cosa c’entrasse il becco dell’oca con il “motto”.

 Ricordo di avere pronunciato il secondo “motto”, infinite volte, nella mia infanzia, quando il dialetto rappresentava la mia “lingua madre”.

Ciappàr n’òca oppure A t’ho mandà in òca

Questo modo di dire era utilizzato, fra noi ragazzi, per canzonarci, per rinfacciarci di aver preso un abbaglio, un inganno e ridere quindi della burla provocata ad arte.

Anche in questo caso non vi so dire cosa c’entri l’oca. Lascio ad altri risolvere il busillis.

 

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