Giorno della Memoria – Il soccorso agli ebrei nella Bassa Modenese
Mentre le autorità fasciste collaboravano attivamente per la loro deportazione verso i campi di sterminio, la popolazione non accettò e tanto meno condivise questa spregevole politica persecutoria che colpiva persone innocenti e stimate. Fino a quel momento gli ebrei avevano subito soltanto pesanti conseguenze sul piano dei diritti civili e non si era posto il problema della loro eliminazione fisica.
La politica di espulsione degli ebrei dalla vita civile, incominciata con la pubblicazione del “Manifesto in difesa della razza”, era continuata negli anni 1939 e 1940 con altri provvedimenti riguardanti i loro beni e con altre disposizioni ancora più odiose per la loro assurdità: agli ebrei furono vietati gli annunci mortuari, non potevano possedere radio e i loro nomi vennero tolti dagli elenchi telefonici. La situazione peggiorò dopo l’8 settembre 1943, per la presenza da padroni dei tedeschi in Italia, che imposero le proprie leggi, scatenando la feroce caccia all’ebreo.
Il 10 dicembre 1943, il governo di Mussolini, pur consapevole che sarebbero finiti nelle camere a gas, ordinò l’arresto e la consegna ai tedeschi di tutti gli ebrei. Se la maggior parte degli ebrei non fece una fine atroce, il merito va al coraggio di uomini e di donne che a rischio della vita li difesero. Grazie alla solidarietà, il 90 per cento degli ebrei si salvò. Gli interventi legislativi della Repubblica Sociale Italiana consistettero in un decreto del ministro Buffarmi Guidi del 1° dicembre 1943, con il quale si ordinava il loro internamento nei “campi di concentramento”, sufficiente per metterli in mano ai tedeschi, e, nella legge del 4 gennaio 1944, che li spogliava di ogni bene, proclamando che tali ricchezze sarebbero state usate per indennizzare i sinistrati dalle incursioni alleate.
Quando incominciò la deportazione dall’Italia per un viaggio senza ritorno, in Germania erano già stati smantellati i campi di sterminio delle ‘razze inferiori”. Nell’ottobre del 1943 la stragrande maggioranza della popolazione attiva tedesca era sotto le armi ed era indispensabile mantenere gli adeguati livelli produttivi nel settore bellico e nell’agricoltura. Sulla logica dello sterminio immediato prevalse la necessità dello sfruttamento dei deportati come forza lavoro e la loro eliminazione venne differita nel tempo.
Per gli ebrei la destinazione prevalente fu Auschwitz, un campo che svolgeva la doppia funzione di eliminare immediatamente i più deboli con il gas al loro arrivo e di spremere gli altri sino all’esaurimento fisico totale attraverso il lavoro. Gli ebrei italiani erano già schedati e, benché cittadini italiani, furono internati e deportati.
Nella Bassa le persecuzioni razziali costarono la vita ad Ada Osima che gestiva a Finale la Farmacia Comunale di Piazza Verdi quando le leggi razziali la costrinsero ad abbandonare la professione nel 1938. Nel settembre del 1943 lasciò Finale per unirsi alla sua famiglia ad Asti, dove fu rastrellata e deportata ad Auschwitz. Scomparve nel 1944 e non esistono documenti sulla sua fine. Una testimonianza alla sorella Anita di un’ebrea polacca sopravissuta racconta di averla conosciuta, riferendo che “Ada èstata fortunata perché non ha sofferto a lungo, morendo presto” .
Quando fu decisa la confisca dei beni, come stabiliva il Decreto Legge del 4/1/1944 che vietava agli ebrei di possedere aziende, terreni, fabbricati, titoli e crediti, le loro aziende agricole vennero affidate ad amministratori di fede fascista. Così a Finale il 23 dicembre 1943 vennero confiscate le aziende di Alessandro Osima e di Arturo Levi e date in gestione ad Achille Marazzi; il 13 gennaio 1944 fu sequestrata a Rovereto quella di Carlo Sacerdoti e assegnata a Giuseppe Gandolfi. Il 25 gennaio del 1944, furono infine sequestrate ancora a Finale quelle di Ada Osina e di Amedeo Osima che furono consegnate all’agente sequestrante Archimede Marazzi.
Al servilismo dei fascisti nei confronti di Hitler la popolazione reagì con la solidarietà che salvò i perseguitati. Il clero e la popolazione, pur consapevoli dei rischi che correvano, li ospitarono. Una solidarietà meritevole di essere ricordata, perché, oltre al rischio di essere scoperti, c’erano da affrontare le difficoltà quotidiane per provvedere all’alimentazione e al reperimento di documenti falsi perché potessero riparare all’estero. La Bassa vantò luminosi episodi relativi al loro soccorso. È impossibile ricordarli tutti, ne riportiamo qualcuno in cui i protagonisti furono uomini della nostra terra.
Don Benedetto Richeldi, riconosciuto dallo Stato d’Israele “Giusto tra le nazioni”, (a quell’epoca vice parroco a Massa Finalese e a San Biagio in Padule), ospitò e nascose parecchi ebrei finalesi, tra cui il rabbino Levi. Con la collaborazione di Berto Ferraresi, del falegname Enrico Vailini, del segretario comunale Venturelli e dell’impiegato Cesare Farina, si procurarono carte d’identità contraffatte con falsi timbri, mettendo in salvo anche ebrei di nazionalità straniera confinati in paese, nascondendoli dapprima in case di Finale, di Massa e di Rivara; in quest ultima località furono ospitati in via Marzanella presso la famiglia di Antonio Mantovani. Poi quando ormai non era più possibile la loro permanenza sul nostro territorio, fu organizzata la loro fuga ed il geometra Fausto Testi fece da guida, accompagnandoli al confine con la Svizzera, a Lanzo d’Intelvi (Como), a 900 metri d’altezza, alla vista del lago di Lugano. Ebbero aiuto e protezione Clemente Salomon Coen, che si rifugiò in un magazzino a Canalazzo, dove gli amici portavano i viveri di nascosto e quindi, provvisto di falsa carta d’identità, partì per l’Italia del nord dove rimase clandestino fino alla liberazione e Prospero Rimini con la sua famiglia che ripararono a Roma sotto falsa identità, sempre grazie all’aiuto di Farina.
Toccante è l’episodio riguardante la salvezza di Roberto Leone Finzi, soprannominato il “medico dei poveri” per la sua generosa dedizione verso di essi, che nel momento di pericolo per sfuggire alla morte cercò scampo nella canonica di Massa da don Benedetto Richeldi. «Era un povero vecchio in uno stato di agitazione tremenda, testimoniò, la voce gli tremava e continuava a ripetere: “Reverendo, cerco aiuto!” E l’aiuto gli fu prontamente dato, poiché don Benedetto attraverso don Carlo Carnevali di Mortizzuolo, lo fece portare a Mirandola, ove fu nascosto presso i frati Francescani i quali, come tanti altri conventi di quel tempo, ospitavano e proteggevano gli ebrei fuggiaschi». Fonte “Gli ebrei finalesi vittime delle leggi razziali e della Shoah” di Maria Pia Balboni.
A Medolla, il parroco don Mario Grappi alloggiava una famiglia di ebrei. Nel marzo del 1944 il podestà Tosatti lo avvertì di farla fuggire perché ci sarebbe stata una perquisizione. In un primo tempo si rivolse ai partigiani che gliel’avevano affidata, ma non poterono aiutarlo. Allora ricorse alle Suore della Carità dell’Ospedale di Modena, che la consegnarono ad una catena di salvataggio di cui faceva parte un sacerdote di Cesena. Fonte: Verri Franco “I Sacerdoti e la Resistenza nella Bassa Modenese” – Tesi di Laurea, Anno 1981-1982.
Ma nella Bassa gli eroi della solidarietà verso gli ebrei furono Odoardo Focherini e don Dante Sala. Don Dante Sala era parroco a San Martino Spino ed Odoardo Focherini, che all’epoca abitava a Mirandola in Piazza vicino alla Madonnina, era il direttore amministrativo del giornale “l’Avvenire d’Italia”, presidente degli uomini di Azione Cattolica della Diocesi di Carpi, aveva 37 anni e sette figli. La loro instancabile attività permise di salvare da sicura morte oltre 105 ebrei. Don Dante Sala li accompagnava personalmente al confine con la Svizzera, affidandoli alla famiglia Riva, conosciuta tramite Silvio Borghi o a don Natale Motta che procuravano loro luoghi sicuri di attesa. Alcuni amici accoglievano questi infelici a cui far oltrepassare il confine di notte a Cernobbio. Durante uno di questi viaggi, il 4 dicembre 1943, don Sala fu arrestato con Allegra Antonelli, moglie di Dino Riva e rinchiusi nelle carceri di Como. Processati, fortunatamente furono assolti.
Odoardo Focherini continuò nella sua attività anche se i rischi si facevano maggiori. Uomo d’azione teneva i contatti con i Comitati di Liberazione di Carpi, Modena, Ferrara e Bologna e presiedeva una vasta rete di salvataggio di ebrei perseguitati. Per dare un’idea di quest’uomo, si pensi che in occasione di una fuga da lui organizzata non esitò a dare fondo al suo conto corrente in banca per finanziarla. Non è senza significato, e non a caso, che lo arrestassero al capezzale di un israelita, Enrico Donati, all’Ospedale di Carpi la mattina dell’11 marzo 1944, quando si trovava accanto a questo infelice che egli aveva fatto uscire dal campo di Fossoli, con il pretesto di un intervento chirurgico urgente per una malattia inesistente. Si presentò il reggente del fascio di Carpi, Attilio Ferraris, che lo invitava a seguirlo a Modena, dove avvenne il suo arresto. Tradotto al carcere di San Giovanni in Monte a Bologna, cominciò il suo calvario.
La polizia fascista lo consegna alle SS tedesche e la moglie rimane sola con sette bambini in tenera età nella casa di Mirandola. Il 5 luglio viene trasferito a Fossoli, un mese dopo al campo di concentramento di Bolzano. Il 5 settembre viene deportato definitivamente in Germania, prima nel campo di Flossenborg, poi in quello di eliminazione di Heersbruck. Incontra e conosce tra i compagni di sventura Teresio Olivelli, un cristiano della sua statura, anch’egli grande eroe della carità. Ormai è nel tunnel della morte, lo hanno spogliato di ogni cosa é vestito con la sdrucita casacca a righe dell’internato, viene rasato ed è costretto ad un lavoro durissimo in una miniera. Lavori da forzati tanto disumani, imposti per portare quegli esseri denutriti all’esaurimento e condurli lentamente alla morte. Durissime ore di lavoro, dopo di che un cibo ed un riposo inadeguati. I pochi che tornarono da quel campo testimoniarono: “E stato sempre sereno, anche quando le piaghe gli martirizzavano tutto il corpo, non un lamento, non un’imprecazione”. Aveva capito che si andava verso l’irreparabile e mai si lasciava sfuggire una parola di rammarico per quel che aveva fatto. Alla moglie aveva scritto: “Se tu vedessi come oggi sono trattati gli ebrei, rimpiangeresti soltanto di non averne salvati un numero maggiore”.
Ridotto ad un esile figura, piagato ed infettato, a soli 37 anni di età, alla vigilia del Natale del 1944 morì nello squallore di un lager tra l’indifferenza dei suoi guardiani e dei suoi aguzzini. Moriva come era vissuto, da cristiano nella piena sottomissione alla volontà di Dio, cui offriva tutto se stesso, i suoi sogni, le sue speranza, i propri affetti, come aveva sempre fatto nel corso troppo breve della sua esistenza: “Dichiaro di morire nella fede cattolica e nella piena sottomissione alla volontà di Dio… offrendo la mia vita in olocausto per la mia diocesi, per l’Azione cattolica e per il ritorno della pace nel mondo”. E ancora un soffio di vita, un ultimo respiro: “Vi prego di riferire a mia moglie che le sono sempre stato fedele, l’ho sempre pensata e sempre intensamente amata!”. Così moriva Odoardo Focherini. Il suo corpo non ha una tomba. Teresio Olivelli, dopo aver raccolto i suoi ultimi respiri e tracciato sul suo petto il cognome e averlo baciato in fronte, deve lasciarlo ai seppellitori che si allontanano con il povero corpo martoriato e nessuno sa per dove. Per Odoardo Focherini, uno degli uomini più grandi della storia della Bassa, un esempio di eroismo, di carità cristiana e di sacrificio disinteressato, è in corso un processo di beatificazione da parte della Chiesa. Fonti: “Oltre l’olocausto” di don Dante Sala; “Il tempo di decidere” di Ilva Vaccari; “Nel segno della libertà” di Gelli Antonio e Ghe- rardi Renzo, “Intervista” a don Sala dell’autore.
Anche Silvio Borghi, che di mestiere faceva il “casaro” al “Palazzetto” di Mortizzuolo, di proprietà della famiglia Benatti (i Camiìl), è meritevole di essere ricordato perché collaborò con don Sala e pose in salvo diversi ebrei accompagnandoli personalmente al confine svizzero.
A Mirandola si trovavano confinate alcune famiglie ebree che riuscirono a sottrarsi da sicura morte con il suo aiuto. Una di queste era la famiglia Talvi, diplomatici iugoslavi di Belgrado, composta dai genitori, dai figli Leone e Raffaele, dalla figlia Alice e dal marito Almoslino. Allo scoppio delle ostilità la famiglia, che faceva parte del corpo diplomatico, venne internata in un campo di concentramento e poi “confinata” a Mirandola. Il regime confiscò i loro beni e impose una serie di obblighi, tra i quali di non allontanarsi oltre i 5 km e ciascun membro doveva presentarsi ogni giorno in Commissariato per apporre la firma su un apposito registro.
Dopo l’8 settembre questa famiglia, temendo di essere deportata in Germania, abbandonò frettolosamente ogni cosa e si nascose dividendosi: i genitori con la figlia Alice incinta e suo marito furono accolti da don Sala a San Martino Spino, mentre i due ragazzi impauriti e disperati,Raffaele e Leone, si presentarono a casa sua. Pur consapevole dei rischi, Silvio non ebbe il coraggio di mandarli via e d’accordo con la moglie Lidia, peraltro incinta, non ci pensò troppo a creare due nuovi posti nella propria vita, nella propria famiglia e nella propria casa: accolse e nascose i ragazzi e li sottrasse alla cattura. Nella sua casa al piano superiore c’erano la camera di Silvio e Lidia, quella di Egidio di 14 anni, dalla quale si entrava in un’altra piccola cameretta, dove dormiva Enzo di 7 anni. Silvio li nascose nella cameretta di Enzo e collocò un armadio davanti alla porta e si preoccupò di non far sapere al figlio piccolo della presenza dei due ragazzi per timore che, data la tenera età, potesse far trapelare qualcosa, gli disse che per un po’ di tempo doveva dormire in camera con i genitori perché in quella cameretta aveva stipato forme di formaggio, nel caso venissero tempi difficili. Per una questione di correttezza informò della cosa il signor Camillo Benatti, con il quale condivideva gli stessi ideali.
Intanto il Commissario di P.S. ricercava i Talvi che da diversi giorni non si presentavano per apporre la firma sul registro. Essi vedevano la salvezza nel poter riuscire a raggiungere la Svizzera, ma non sapevano come fare; Silvio pensò allora di mettersi in contatto con un commilitone del padre, con il quale c’era stata una grande amicizia di famiglia: Dino Riva e la moglie Allegra che abitavano a Cernobbio, sul lago di Como, quindi molto vicino alla Svizzera e, forse con il loro aiuto, si sarebbe potuto fare qualcosa. Non potendolo fare di persona, per l’impossibilità di assentarsi dal lavoro, Silvio mandò don Sala che nella sua veste di sacerdote avrebbe dato meno nell’occhio a verificare la loro disponibilità per organizzare l’espatrio.
Per arrivare a Cernobbio era necessario procurarsi dei documenti di identità italiani e questo fu possibile con Ariella Benatti Belluzzi, che aveva accesso agli uffici del Comune di Mirandola perché era addetta alla preparazione delle tessere annonarie: fu lì che essa utilizzò di nascosto i timbri necessari per i nuovi documenti di identità con i quali i Talvi poterono circolare e raggiungere dapprima la famiglia Riva a Cernobbio e in seguito la vicina Svizzera. Il 21 ottobre 1943 Silvio Borghi li accompagnò personalmente a Cernobbio. Intraprese di primo mattino il rischioso viaggio da Mortizzuolo su un calesse, non passarono da Mirandola dove potevano essere riconosciuti, si recarono direttamente alla stazione di Medolla e con il trenino della Sefta raggiunsero Modena. Qui cambiarono stazione e per poterlo fare presero il tram.
Durante il percorso da una stazione all’altra, il gruppo s’imbatté nel questore di Mirandola, Commendatore Tedesco, che al di là del cognome che portava si comportò da buon italiano. Questi, vedendo i ricercati in compagnia di Silvio Borghi con le valigie, chiese dove stessero andando.
A quell’incontro Alice, incinta di circa otto mesi, cadde a terra svenuta. Il questore, che fortunatamente era solo, rimase per un attimo pensieroso, poi rivolgendosi a Silvio Borghi in dialetto, mettendogli la mano sulla spalla, disse: “Io non ho visto niente!” In preda alla paura, ripresero il viaggio per Milano e colà arrivati cambiarono treno per Como e da qui in battello raggiunsero Cernobbio e la salvezza. Qui Dino e sua moglie Allegra potevano contare sull’aiuto di amici, che conoscevano bene i boschi e i sentieri con i quali si accordarono per far passare il confine alla famiglia.
Dopo qualche tempo, Silvio Borghi organizzò l’espatrio di Leon Hoffmann, che era di Zagabria, anch’egli ebreo confinato a Mirandola. Anche per lui furono preparati i documenti e Silvio prima di intraprendere il secondo viaggio raccomandò a Camillo Benatti, il suo datore di lavoro, di aver riguardo per la sua famiglia nel caso non improbabile gli fosse successo qualcosa. Quando Silvio ritornò a casa, con lui ritorno anche la felicità: la moglie e Camillo Benatti lo convinsero a non intraprendere altri viaggi così rischiosi. Silvio, in seguito, si trasferì a Rossano Veneto, poi a Milano, infine a Varese e di lui, un uomo generoso che mise a rischio la propria vita per salvarne altre, se ne persero per decenni le tracce. Anche lui avrebbe meritato la messa a dimora in Gerusalemme di un albero che avesse ricordato per sempre la sua generosa opera a favore dei perseguitati. Fonti: Testimonianze di don Dante Sala, di Elsa Borghi e Umberto Broggi.
Nerino Barbieri
Tratto da: Guerra e Dopoguerra nella Bassa Modenese
Autore : Nerino Barbieri
Anno: 2010
Ubaldo Chiarotti
In Germania ci fu qualche caso di aiuto agli ebrei (Schindler list) mentre il resto della popolazione chiuse gli occhi fingendo di non vedere e fingendo di non sapere a cosa era dovuto quell’acre odore di carne bruciata che usciva dai comignoli dei campi di sterminio….
30 Gennaio 2020In Italia la popolazione quasi in massa reagì alle leggi razziali difendendo in tutti i modi possibili gli ebrei e inoltre reagì al nazifascismo con le brigate partigiane coordinate tutte dall’organizzazione clandestina del PCI.
Jole Ribaldi
Quanto odio inutile, quanto dolore, quale strazio è stato provocato in tanti uomini innocenti…
25 Gennaio 2022Non dimentichiamolo mai più.