Gian Paolo Borghi – La tessitura tradizionale nel Modenese

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Il telaio tradizionale (questa fotografia e le deguenti sono state realizzate da A.Cocchi nel 1987

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LA TESSITURA TRADIZIONALE NEL MODENESE

Il saper filare e tessere, insieme al fare la sfoglia con il mattarello, erano tra le abilità ritenute indispensabili per una ragazza da marito; per questa ragione le bambine venivano ben presto abituate a questi lavori: la reggitrice (l’arzdóra) controllava ogni giorno la produzione delle giovani nuore e delle figlie. Il telaio per tessere compare sempre nella dotazione dei pur pochi beni materiali di una famiglia contadina; veniva montato vicino ad una finestra per avere più luce, di solito in cucina (se era ampia), ma non di rado anche nellìingresso o nel magaz­zino della casa colonica. Per scaldarsi durante il lavoro le donne collo­cavano vicino ai piedi un recipiente con alcune braci (la sòra). Le fa­miglie bracciantili che non possedevano i telai (anche per motivi di spazio) solitamente andavano presso i contadini i quali, in cambio, chiedevano giornate di lavoro. Febbraio e marzo erano i mesi in cui abitualmente si tesseva; generalmente non si proseguiva oltre, perché incalzavano i lavori nei campi.

Per iniziare a tessere si doveva preparare il filato per realizzare la trama e l’ordito. La prima operazione era la cosiddetta “incannatura” del filo; la matassa di filato veniva disposta nell’arcolaio (mulinéla, dvanadór) e, tramite l’incannatoio (canaról) si realizzavano le spole cariche di filo. L’incannatoio era un attrezzo semplice, formato da una ruota in legno, montata su un telaio verticale ed azionata da una mano­vella che fungeva da volano (tramite una cordicella) per un’asticella di ferro conica di una lunghezza oscillante dai 50 ai 60 centimetri circa.

La preparazione dell’ordito (urdì), operazione assai delicata, era solitamente affidata alla donna che, nella casa, aveva esperienza ed abili­tà di lavoro consolidate. Gli orditoi consistevano in due pali squadrati di legno, alti circa due metri, provvisti ciascuno di una decina di pioli lunghi una trentina di centimetri e distanti circa venti centimetri uno dall’altro. Questi pali andavano fissati contro una parete esterna della casa colonica, alla distanza di poco più di otto metri tra di loro. Tale misura era importante perché da una pezza di tela di questa lunghezza, detta collo (còl) o bracciale (brazòl), suddivisibile poi in tredici brac­cia, si poteva ricavare, tanto per fare un esempio, un lenzuolo matrimo­niale od un vestito da uomo.

Fino agli anni trenta il filo per ordire era solitamente di canapa, poi fu sostituito con quello di cotone, che risultava più sottile e resistente. Le spole di filo (canon), in numero di venti, venivano infilate in un portaspole (scalétta), di solito appoggiato su due sedie. I venti fili di qui passavano attraverso le due serie di fori dell’apposita paletta (palétta o spadlétta) in legno tenuta dalla donna nella mano destra, mentre con la sinistra procedeva ad avvolgere l’insieme dei fili intorno ai pioli degli orditoi. L’ordito iniziava e finiva generalmente nel piolo più alto a destra (dalla parte opposta veniva creato il cosiddetto “piede”, altri­menti definito “coda”) ed ogni giro di andata e ritorno corrispondeva ad un “mazzetto”. I fili andavano progressivamente distesi in senso orizzontale tra i pioli dei due pali e, ad una cinquantina di centimetri dall’inizio (primo piolo), si aveva quell’importante operazione, detta lézar o cuntàr, consistente nell’incrociare con le dita della mano i fili dell’ordito, facendovi poi passare un nastro per mantenerli separati. La lunghezza dell’ordito era determinata in base ai colli di tela che si volevano tessere (al massimo cinque o sei), mentre il numero dei giri (che per la tela andava di solito da 24 a 36) era in funzione della larghezza del tessuto da realizzare e del diametro del filo a disposizio­ne, tenendo conto che la larghezza dei pettini nei telai raramente supe­rava gli ottanta centimetri utili.

Una volta realizzata l’orditura, il filato veniva tolto dai pioli mediante la predisposizione di una sorta di “catena” pronta da “caricare” nel te­laio.

I telai usati nelle nostre campagne erano tutti costruiti nella medesi­ma maniera: di buon legno pesante (olmo o rovere), perché con la battuta sulla trama non si spostassero; più lunghi o più corti in funzio­ne dello spazio disponibile, di solito erano opera di falegnami del paese. La struttura del telaio era molto semplice: largo 160-180 centimetri e lungo 220-280 centimetri, era costituito da due grosse travi orizzontali (cuóss), poggianti su quattro larghi piedi, collegate trasversalmente da due o tre stanghe, fissate con cunei di legno per irrigidire il tutto. Dalle travi orizzontali partivano posteriormente due colonne (“basse”) per sorreggere il subbio dell’ordito e due anteriormente, per portare la tra­versa di licci, il battente (cassa) ed il subbio della tela. I licci, che ser­vivano per alzare ed abbassare (incrociandoli) i fili dell’ordito, erano costituiti da due asticelle di legno (lizzarò) tra loro collegate da una sorta di fitta rete di maglie (“larghe”) di robusto filo di cotone, formanti al centro un occhiello che serviva per guidare il filo dell’ordito. I licci erano collegati con una corda (tacamènt) sia a due carrucole appese ad una traversa nella parte superiore del telaio, sia a due pedali (quérquel) atti a far sì che quando la tessitrice ne spingeva uno, abbassandone il relativo liccio, l’altro pedale si sollevava insieme all’altro liccio. Il battente era incernierato nella colonna anteriore, in alto, e portava inse­rito il pettine (quest’ultimo, alto circa dodici centimetri e lungo un’ot­tantina, era una struttura in legno che portava, opportunamente legata a pari distanza fra di loro, una ordinata serie di sottili ed uguali stecche di canna non più larghe di un centimetro, definite “denti” (dént), attra­verso i quali si facevano passare i fili dell’ordito, che servivano poi a pressare in modo uniforme la trama. I pettini erano solitamente fabbri­cati da montanari ambulanti (noti erano quelli di Badi, nel bolognese), che s’incaricavano pure di ripararli quando si spezzavano o quando “saltava” qualche dente. Il numero dei denti del pettine e la distanza fra ogni dente variava in base al tessuto che si intendeva realizzare ed al diametro del filo utilizzato: ogni pettine recava segnato un numero (nella nostra zona andava da 24 a 36), stante ad indicare i mazzetti di ordito che poteva “portare” (il numero 24 portava al massimo 960 fili, mentre il 36 poteva arrivare fino a 1440). I subbi erano due cilindri in legno larghi quanto il telaio ed aventi una scanalatura longitudinale, che veniva utilizzata sia per livellare con un po’ d’acqua il telaio sia per fissarvi con una stecca il filato; servivano per disporvi nel primo l’ordito e nell’altro la tela realizzata; erano tenuti in tensione tramite dei tenditori (régistér) ancorati a dei fori incrociati posti alle estremità dei subbi stessi. Il caricamento dell’ordito nel telaio doveva essere ef­fettuato da una mano esperta: si infilava il piede dell’ordito nel subbio posteriore, lo si disponeva ordinatamente con una specie di rastrello (al rastèl) per ordinare e dividere i mazzetti di filo e lo si avvolgeva ben bene nel subbio medesimo, badando attentamente che non scivolasse ai lati. Il capo dell’ordito veniva poi man mano tagliato ed i fili inseriti (cercando di mantenere l’intreccio) prima in ogni occhiello delle maglie dei licci, quindi attraverso i denti del pettine e, infine, collegati al subbio anteriore, Questa operazione era definita “incorsatura” (incursadura).

A questo punto poteva iniziare la tessitura vera e propria. La tessi­trice si sedeva davanti al telaio, su di un asse di legno (banchétto) po­sto dietro il subbio che portava la tela. Alzando ed abbassando alterna­tivamente i licci con i pedali, creava un corridoio tra i fili dell’ordito, attraverso il quale lanciava la “navetta” (spulétta), caricata precedente­mente con la spola (canéla), il cui filo costruiva la trama man mano che si svolgeva: due colpi ben dosati con il battente pressavano i fili della trama uno contro l’altro. Se l’ordito era in fili di canapa, per evitare che i fili si sfilacciassero o si rompessero occorreva impregnarli continuamente con la cosiddetta bòsma (una specie di colla ottenuta bollendo insieme crusca, farina gialla e cotiche grasse), che veniva applicata sui fili stessi mediante due spazzole. Iniziando di primo mat­tino, una brava tessitrice era in grado di tessere fino ad un collo di tela al giorno, ma doveva prestare attenzione a costruire una regolare cimosa (vivagno) e ad evitare falli nel tessuto.

Per realizzare tessuti con righe o scacchi colorati occorreva precedentemente tingere il filato; il classico colore ruggine era ottenuto con sistemi casalinghi a base di vetriolo, mentre invece per il bleu, il verde od altro colore ci si doveva rivolgere a tintori specializzati. Accanto alla consueta tela per lenzuola (che veniva arrotolata per la conserva­zione) si realizzavano anche altri tessuti, più ordinari o più pregiati. Fra i primi, ricordiamo il sol in dént, con un solo filo di ordito per dente del pettine (invece di due), il tarzanél, con alternati un solo filo e due fili per dente. Di ben altra fattura era invece la cosiddetta “tela in opera , che veniva utilizzata con l’impiego di diversi licci (4, 8 o più) ed altrettanti pedali: si otteneva un intreccio dell’ordito e della trama che portava alla formazione di disegni sul tessuto con realizzazioni di scacchi, righe trasversali e/o longitudinali, rose, torciglioni, e così via. Era, questo, il lavoro delle tessitrici più provette, che spesso otteneva­no ordinazioni anche dalle famiglie abbienti. In “opera” venivano pro­dotte tovaglie, salviette, coperte, federe, tele per vestiti, ecc. Si trattava spesso di vere e proprie opere d’artigianato, che qualificavano la dote di una sposa e che andavano utilizzate soltanto nelle grandi occasioni e quindi riposte gelosamente nella cassapanca.

La tela di canapa, pur avendo già subito una prima sbiancatura, rimaneva un po grigia e pertanto andava ulteriormente sbiancata e sgrezzata. dopo una ripetuta lavatura con liscivia bollente, veniva stesa per diversi giorni al mattino, sulla rugiada dei prati e raccolta ogni sera; sole ed acqua, piano piano, la rendevano veramente candida.

Sino agli anni Venti era usuale che la gente si vestisse con abiti di tela fatta in casa, anche nei giorni di festa, soprattutto nel caso di anziani e bambini. Il sarto ambulante prendeva le misure e, con una pezza di tela, confezionava abiti per tutti: giacche, pantaloni, gonne ecc.; per l’inverno in mezzalana, per l’estate in tela comune. Unica concessione alla “moda” era il cosiddetto rigatino, intessuto con l’ordi­to colorato a formare righe più o meno larghe, in genere di colore bleu o comunque scure, che staccavano sul grigio della canapa e della lana dando un certo tocco d’eleganza.

Negli anni Trenta e Quaranta, se per la festa gli abiti erano solita­mente in tessuto acquistato dai merciai (tranne che per le famiglie più povere), i vestiti per tutti i giorni e per il lavoro si facevano in casa; al sarto si commissionavano giacche, pantaloni e camicie mentre le donne di famiglia si arrangiavano da sole per i tagli più semplici, nonché per rattoppare ciò che si era strappato e sdrucito, perché nulla doveva essere buttato prima di essere completamente sfruttato.

La dignità e l’orgoglio della famiglia contadina si evidenziavano anche in questa quasi ossessiva ricerca di autonomia dai bisogni ester­ni: data la cronica mancanza di denaro e la grande miseria materiale, ogni necessità doveva trovare una risposta all’interno dell’economia familiare attraverso la divisione dei compiti e dei ruoli.

 

L'avanzamento della tela

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APPENDICE

L’ “industria tessile casalinga” nel secolo scorso in Provincia di Modena

«Secondo la statistica del 1876 [Notizie statistiche sopra alcune industrie, Roma, tip. Eredi Botta, 1878] vi erano in questa provincia 1823 telai, dei quali 1215 per la tessitura del lino e della canapa, 546 per quella del cotone, 36 per quella della lana e 26 per la tessitura delle materie miste.

Nella presente statistica ne figurano 3215, dei quali 1194 nel circondario di Mirandola, 1254 in quello di Modena e 767 in quello di Pavullo nel Frignano; e sono così ripartiti a seconda delle materie sottoposte alla lavorazione:

Tessitura della lana…………………………………….Telai   N.    270

  1. del cotone…………………………………………. id. “231
  2. del lino e della canapa………………………….id. “ 682
  3. delle materie miste ed alternative………… id.“2.032

La lana che si impiega tanto per i tessuti semplici, come per i misti, è tutta di produzione locale. Il lino e la canapa sono in parte di produzione locale e in parte si acquistano nel Bolognese e nel Ferrarese. Il cotone si acquista già filato e tinto dai negozianti del luogo.

I prodotti della tessitura, specialmente i più grossolani, servono per conto degli stessi tessitori, i quali raramente lavorano per committenti privati o per commercio. In generale i tessuti si adoperano greggi o semplicemente imbian­cati; nei casi in cui si operi la tintura, specialmente pei tessuti di lana, si ricorre alle tintorie dei paesi circostanti».

(da Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Direzione Genera­le della Statistica, Statistica Industriale. Notizie sulle condizioni industriali della Provincia di Modena, Roma, Tip. Nazionale di G. Bertero, 1895, p. 42)

“Industria tessile casalinga” nel circondario di Mirandola alla fine dell’Ottocento.

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Autore Gian Paolo Borghi

Tratto da: Quaderni della Bassa Modenese n°21

Anno 1992

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