17 Gennaio – Sant’Antonio Abate
Il riferimento a Sant’Antonio Abate (da non confondere con l’omonimo Antonio da Padova) offre l’occasione per aprire una pagina interessante con le tradizioni della “Bassa” legate a questo santo sia a livello religioso che sul piano leggendario. Perché al nome di questo santo dalla “barba bianca” sono legate non poche leggende, sia nostrane che a respiro più largo. Intanto va detto che questo Antonio era di origini egiziane e pare che sia nato attorno al 250 dopo Cristo e morto nel 356, una vita durata oltre cento anni.
La storia cristiana racconta che Antonio fu il primo cristiano che si ritirò a vita anacoretica nella Tebaide, antica provincia dell’Alto Egitto che aveva per capitale Tebe, la città della mitica regina. L’esempio di Antonio fu poi seguito da vari discepoli, per cui sorse, nella zona desertica fra il Nilo e il golfo di Suez, il primo cenobio della cristianità, divenuto famoso perché nello stesso tempo e nei medesimi luoghi il fellah copto Paconio aveva dato vita ad un analogo centro di anacoretismo.
Vale la pena, a questo punto, ricordare che gli anacoreti, pur non essendo sacerdoti, erano religiosi che vivevano nel più completo isolamento ascetico a scopo di raccoglimento, di preghiera e di meditazione. L’anacoretismo fu poi sostituito, attorno al VI secolo, dalla vita conventuale.
Da sempre Sant’Antonio Abate si festeggia il 17 di gennaio, giorno che veniva considerato festivo per gli animali. Nella “Bassa”modenese si è sempre creduto che nella notte fra il 16 e il 17 gennaio gli animali parlassero fra di loro nel tepore delle stalle, usando la stessa lingua degli uomini e non trascurando di giudicare i loro padroni, soprattutto quelli addetti alle stalle, che si chiamavano “bovari”.
E in effetti nel mese di gennaio gli animali da lavoro, in particolare i buoi, le vacche, i muli, gli asini e i cavalli da tiro potevano godere di un po’ di meritato riposo e soprattutto nel giorno di Sant’Antonio i contadini trattavano con maggiore riguardo gli animali: niente lavoro e cibo in abbondanza per non correre il rischio di essere criticati e mal apostrofati da buoi, mucche e somari.
Quando ogni azienda agricola, piccola o grande, aveva accanto a casa una stalla o una porcilaia oppure un semplice pollaio, era quasi rituale mettere in questi luoghi un bel santino o addirittura una bella formella di ceramica raffigurante il nostro Sant’Antonio, con la lunga barba bianca, un vestito piuttosto dimesso e il rituale maialino sdraiato ai suoi piedi. L’altro piede del Santo invece schiacciava un serpente, immagine del vizio e del peccato.
Quando accadeva qualcosa di spiacevole nelle stalle (una malattia, un incidente o qualche altro guaio), il vecchio abate dalla barba bianca era sempre il primo ad essere invocato e quasi sempre le cose tornavano ad andare per il verso giusto.
Sant’Antonio Abate è stato certamente il santo più popolare nel Medio Evo, il più raccontato nelle leggende e quello maggiormente ritratto da pittori e scultori. Per fare un piccolo esempio, se a Mirandola entriamo nella bella chiesa di San Francesco, possiamo vedere che sulla tomba pensile di Prendiparte Pico e della moglie Caterina Caimi, capolavoro di Paolo di Jacomello Delle Masegne da Venezia, vi è una stupenda Crocefissione, contornata da due statue di pregio: una raffigura San Cristoforo (e di questa scultura parleremo più avanti) e l’altra Sant’Antonio Abate.
Premesso che la scienza agiografica della Chiesa conta oltre ottanta santi di nome Antonio, la vita del nostro Abate fu molto intensa e lunga: dal tranquillo periodo giovanile trascorso sulle rive del Nilo ai duri anni della vita eremitica e monastica, dalle tentazioni infernali fino ai numerosi eventi che ne aumentarono il culto dopo la morte, tutto suona a gloria di Antonio, ma il motivo che probabilmente portò alla scelta di Antonio quale protettore degli animali domestici è forse legato in qualche modo al cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio” noto anche come “Herpes zoster”, oppure “Herpes zonale” o anche “focus sacer”, una poco simpatica malattia della pelle, una sorta di contagio virale derivato soprattutto da un parassita del frumento che produce forti bruciori dell’epidermide, molto diffusa in passato fra i contadini. Per questa malattia Sant’Antonio fu invocato fin dai tempi più remoti, quando si riteneva che il fuoco facesse parte dei riti di purificazione e di distruzione del male.
Si narra infatti che nel lontano 1095, per placare un’epidemia di questa affezione, i seguaci di sant’Antonio decisero di dare accoglienza e cibo (e anche cure) ai tanti fedeli che si recavano a Saint-Antoine de Vienne, la chiesa nella quale erano conservate le spoglie del Santo, costruendo a questo scopo alcuni ospedali. A queste prime strutture di emergenza fecero seguito veri e propri ospizi e alberghi e i religiosi, per meglio adempiere ai numerosi servizi che la difficile situazione richiedeva, si organizzarono in una Confraternita, l’Ordine ospedaliero degli Antoniani.
Nelle nostre terre ospedali di questo ordine religioso sorsero a Sermide, nel Mantovano, a Tramuschio di Mirandola (nei pressi del confine con il Mantovano) e poco fuori Mirandola, al confine con il territorio di Camurana.
Si racconta che per assicurare la sussistenza dei malati e del personale di servizio, i religiosi si arrangiarono ad allevare maiali, che potevano circolare liberamente per le strade e i sentieri di campagna, tanto che si rese necessario porre un freno alla circolazione di questi animali, molto utili per le loro carni ma in grado di produrre odori abbastanza fastidiosi all’interno dei centri abitati. Ma fu fatta un’eccezione per i maiali di proprietà degli ospedali Antoniani che, in segno di riconoscimento, dovevano portare al collo un piccolo campanellino. E la storia è vera, poiché in molti dipinti e in tutte le statue che ritraggono Sant’Antonio il maialino che sta ai piedi del Santo porta un campanello. E fu così che ai maiali e agli altri animali domestici posti sotto la protezione di Antonio e dei suoi discepoli venne dato come patrono proprio Sant’Antonio Abate, che ancora oggi in quasi tutta la pianura padana è conosciuto come “Sant’Antonio del porcello”. Mentre neanche al Santo riesce simpatico quel serpentello che a sua volta sta ai suoi piedi, però viene schiacciato.
Fino a qualche decennio fa, molti contadini portavano qualcuno dei loro animali davanti al sagrato delle chiese per essere benedetti da un sacerdote in nome ovviamente di Sant’Antonio. E non va dimenticato il fatto che il nostro Santo Abate è invocato, o almeno lo era, dai malati di peste bubbonica, dai malati di scorbuto e da coloro che erano afflitti da malattie contagiose in genere.
Ma per correttezza d’informazione va anche aggiunto che Sant’Antonio Abate non è l’unico patrono a vigilare sugli animali domestici: i bovini infatti hanno come patrono San Cornelio (14 settembre), oltre a Santa Brigida (1 febbraio), gli equini (cavalli, asini e muli) hanno San Colmano di Stockerau (13 ottobre), gli animali avicoli (galline, faraone, anatre e oche) hanno ovviamente come loro patrono San Gallo di Bregenz (16 ottobre), le api Sant Ambrogio (7 dicembre) e San Bernardo (20 agosto) e infine i suini, oltre ad Antonio, hanno anche una patrona supplente, Santa Gilda di Rhuys. Ma, dato che ci siamo, altri santi sono invocati dagli allevatori per casi particolari: sono San Bovo (22 maggio) e San Rocco (16 agosto) che proteggono il bestiame dalle epidemie, mentre a San Arnoldo (18 luglio) e a San Firmino (3 novembre) si ricorre con speranza quando la malattia ha già investito la mandria di bestiame. Ma, giustamente, anche gli allevatori hanno i loro bravi santi: oltre al solito Antonio Abate, si ricorre anche a San Marco Evangelista (23 aprile), i pastori si rivolgono a San Pasquale (17 maggio), mentre lo svizzero San Lucio di Coira ha l’incarico di proteggere i vaccari.
Tratto da: Antiche tradizioni mirandolane
Autore: Giuseppe Morselli
Edizioni Bozzoli
Anno 2006