Onzar al Sprocch.
Almeno nella Bassa, i due giorni più importanti del Carnevale erano l’ultimo giorno del Carnevale stesso (cioè il martedì che precede il giorno delle Ceneri) e il giovedì grasso, vale a dire l’ultimo giovedì che precede la Quaresima.
L’ultimo di Carnevale era patrimonio degli adulti, poiché la serata comprendeva il tradizionale veglione più o meno mascherato. Ma attenzione: per non cadere nel peccato mortale, si poteva ballare e divertirsi fino alla mezzanotte, perché quando a mezzanotte in punto i campanili delle chiese facevano risuonare i rintocchi delle campane a morto che annunciavano le Sacre Ceneri, bisognava smettere di ballare e di suonare e ognuno tornava a casa propria.
Tuttavia, qualche giorno prima, in tutta la Bassa si festeggiava (e si festeggia ancora) il simpatico giovedì grasso, certamente la festa carnevalesca più sentita. Era dedicata soprattutto ai bambini, ma anche gli adulti non si potevano lamentare perché il menù tipico di questa giornata prevedeva sempre qualcosa di buono in cucina, soprattutto sul versante dei dolci. Con grande entusiasmo era quasi obbligatorio, sia per i ricchi che per i poveri, procedere alla preparazione delle chiacchiere (in italiano si chiamano frappe) che sono nastrini di pasta dolce fritti nello strutto (adesso si usa l’olio), vale a dire pezzetti di pasta abilmente intrecciata su cui, dopo la frittura, si metteva qualche goccia di grappa e un lieve strato di zucchero a velo, per renderle più croccanti e dolci.
Ma forse la leccornia più tipica del mirandolese e dintorni, in occasione del giovedì grasso, erano le frittelle, tanto che in questa zona il giovedì grasso era chiamato anche, in dialetto, al giuvidì frittlar, il giovedì frittellaio. Le frittelle potevano essere quelle dolci, quelle di riso e quelle di baccalà, quelle con l’anima oppure senza anima. Le frittelle con l’anima erano normali frittelle contenenti all’interno una fetta di salame, di prosciutto, di coppa o, più spesso, di mortadella. Ma andava molto bene anche una fetta di coppa di testa e non veniva certamente snobbata una bella fetta di coppa imbastita. Analoga considerazione veniva portata anche verso i gnocchi fritti, che a loro volta potevano essere con o senza anima.
Possiamo aggiungere, a malavoglia, che l’abitudine alle pizzette e alle tigelle non è nostrana e queste due varietà di cibo sono arrivate nella nostra Bassa soltanto dopo l’ultima guerra, assieme al chewingum e alla Coca Cola.
Ma, sempre in tema di giovedì grasso e a proposito di frittelle, è opportuno ricordare che queste non erano razionate in modo rigido, ma esisteva l’abitudine di darne a ciascun commensale due per ogni orecchio che si contava in casa, in modo che ogni persona, adulta o bambino, poteva assicurarsi un massimo di quattro frittelle; tuttavia, in modo scherzoso ma non troppo, qualcuno esigeva l’attribuzione di altre due frittelle per ogni orecchio del cane o del gatto; addirittura si arrivavano a contare anche i maiali e le mucche nella stalla.
Sta di fatto che di frittelle e di chiacchiere non ce n’erano mai abbastanza, nonostante il prolungato impegno delle razdóre. D’altra parte il Carnevale bisognava pur festeggiarlo, anche nelle case più povere dove, si diceva, era sempre Quaresima.
Ma la tradizione più classica e più singolare della nostra terra, in occasione del giovedì grasso carnevalesco era quella dell’ungere lo sprocco. Per meglio capire il senso di questa tradizione, praticamente scomparsa soltanto dopo l’ultimo dopoguerra, è necessario fare un bel passo indietro e ricordare che la carne di maiale, e in particolare il lardo biancastro del suino, era uno degli elementi base dell’alimentazione della povera gente. Una bella fettina di grasso suino era un fattore indispensabile per sbarcare il lunario alimentare. Il grasso, infatti, serviva a preparare il soffritto (che era un po’ il surrogato del ragù) ed era assai frequente, nei minuti che precedevano il mezzogiorno, sentire dalle finestre il caratteristico rumore prodotto dalle razdóre che pestavano il grasso per preparare il soffritto, al quale aggiungevano verdure e odori, quali prezzemolo, sedano,carote, aglio e cipolle.
Con un modesto soffritto si poteva fare un’eccellente minestra, ricca di quelle calorie che non sempre erano presenti nella dieta della povera gente. Va detto che nella nostra Bassa c’era la rituale abitudine di andare ad ónzar al spròcch: infatti nel fatidico giorno del giovedì grasso i soliti gruppetti di ragazzi (ma in questa circostanza erano ammesse anche le bambine), generalmente composti da tre o quattro elementi, preferibilmente dello stesso nucleo familiare, andavano in giro per le case di campagna recitando una filastrocca e tenendo in mano un piccolo ma robusto bastoncino appuntito, detto appunto al spròcch. I ragazzini recitavano una breve filastrocca e poi porgevano lo sprocco, dove le razdóre di buon cuore infilavano un bel pezzetto di lardo suino.
La filastrocca era come al solito un po’ accattivante, tuttavia un po’ meno beneaugurante rispetto a quella del Capodanno. Nel mirandolese recitava così: A son gnu a ónzar al spròcch/ ch’a min dadi un bel balòcch Ch’a min dadi un baluchen/ par ónzar al me sprucchen; l’ultimo verso poteva anche essere Ch’al mett dentar al me spurten.
La traduzione in italiano è molto semplice: Son venuto ad ungere lo sprocco/ che me ne diate un bel balocco oppure un balocchino/ per ungere il mio sprocchino, oppure che lo metto nel mio sportino. Il bastoncino, ovviamente, era ben levigato, opportunamente privato della scorza e, come si è detto, ben appuntito, mentre le case preferite dai ragazzi erano quelle in cui si era celebrato il rito della pcarìa. Alla fine della giornata, i ragazzi più fortunati riuscivano a raccogliere un piccolo capitale di lardo suino, che poi veniva avvolto in un panno secco e pulito e messo in frigorifero sul davanzale della finestra di cucina, a disposizione della massaia. Per parecchi giorni si poteva fare un buon soffritto.
Tratto da “La cucina mirandolese” scritto da Giuseppe Morselli – Edizioni CDL.