Via Milazzo – Da Zaccheri
L’osteria “da Zaccheri” era posta alla fine di via Milazzo, all’angolo coi viali, proprio là dove ora mi pare ci sia una pizzeria.
Cominciamo subito col dire che non ritengo di dare eccessiva importanza all’ortografia del nome, per me era ed è “da Zaccheri”, con quella “Z” mista a “S”, perché così la chiamava mio nonno.
Di quell’osteria i miei ricordi risalgono a quando, ancora troppo piccolo per andare alle elementari, mio nonno veniva costretto a portarmi fuori a passeggiare liberando così mia madre e mia zia dalla mia ingombrante presenza.
Le passeggiate con mio nonno si riducevano però quasi sempre, a poche decine di metri, con una puntata alla stazione della SEFTA. -Andem a veddar al treno!- Io però, già fin da allora, sapevo che la sua vera meta era un barettino, una piccola costruzione in legno a fianco della stazione, da tutti chiamata “baracchina”.
Sulla via del ritorno, era d’obbligo una fermata più consistente da Zaccheri: -Sol un salut!-
Qui qualche bicchiere di vino si aggiungeva a quelli già bevuti alla baracchina.
Ricordo molto bene queste soste perché il più delle volte, per farmi star zitto e calmo, mi copriva di caramelle e aranciate. Spesso, stanco di aspettare, mi perdevo a disegnare col dito, intingendolo nel vino sversato dai bicchieri, spandendolo sul marmo dei tavoli. -Nono, a son stuff, andemia a ca’?-
La sua risposta, immancabile, era sempre quella: -A finis ad cuntar sta partida, po’ andem!-
Ho un bel ricordo di mio nonno, dolce e burbero insieme. Lo ricordo con tenerezza quando, dopo aver bevuto un po’ più del solito, alzava le mani al cielo, muovendole come se dovesse svitare due lampadine, esclamando: -Ah, mondo mondo!-.
Due baffi importanti che risaltavano in modo deciso, incastonati tra tabarro e cappello, che davano un ché di autorevolezza al suo bel viso aperto e sincero.
Ma il ricordo di Zaccheri non si esaurisce con mio nonno.
Con l’avvento della televisione, la sua saletta sul retro cambiò aspetto, da deposito di bottiglie e di casse diventò, per tutto il quartiere, una finestra da cui gettare un’occhiata sul mondo.
Non c’era giovedì o sabato sera che quella sala non si riempisse all’inverosimile con una moltitudine di persone affamate di novità.
Quella sala era diventata il luogo di un nuovo modo di stare insieme.
Un filò di tipo diverso, più passivo sicuramente, ma quanto istruttivo!
Zaccheri e la moglie correvano raggianti nel loro frullare, tra una sedia e uno spintone, con cabaret stracarichi di bibite e gelati da distribuire alla nuova e insperata clientela: donne, ragazzi e bambini.
Dire giovedì significava Mike Bongiorno, dire sabato era sinonimo di Musichiere.
A proposito di “Lascia o Raddoppia” ricordo di quella volta che anticipando una risposta guadagnai il rispetto ammirato di tutta la sala: -Diobon, acsè zsovan, sl’è brav!- Rispetto ovviamente usurpato, mi guardai bene dal confessare che qualche giorno prima avevo visto sull’Atlante una foto del monastero di Santa Caterina sul Sinai. Non faticai molto a riconoscerlo non appena lo mostrarono ad un concorrente. Mi gonfiai come un ranocchio ai complimenti dell’Anna, la figlia dell’Ermellina diventata maestra, mi sentii salire di una spanna.
Il sabato voleva anche dire sceneggiato e non potete immaginare con quale spasmodica attesa si aspettasse il sabato successivo per vedere come sarebbe andata a finire.
Di quell’epoca ho vivi ricordi di Jane Eyre, di Nicola Nickelby, di Long John Silver e dell’Isola del Tesoro. Gloriosa quella RAI che permise a me, e a molti altri, di avvicinarsi ad opere sconosciute ai più. Che dire di Canne al vento, Capitan Fracassa o Piccolo mondo Antico, per dirne solo alcuni.
Il periodo felice per Zaccheri, e per i tanti bar e caffè che su questo avevano in gran parte basato le loro fortune, cominciò a cambiare per poi finire, con la massiccia diffusione dei televisori in un sempre maggior numero di case.
Si può dire che il mio rapporto con Zaccheri e con la sua sala finì quando installammo in casa un Emerson
Franco Gambuzzi