Streghe dappertutto
Si può dire, esagerando un pò, che il millecinquecento sia stato il secolo delle streghe; in tutta Europa e, in particolare, nella nostra Padania. Non è perciò troppo strano che un principe religioso come Gianfrancesco Pico, per giunta savonaroliano tutto d’un pezzo, profondamente convinto che la fede vada testimoniata nell’azione di ogni ora, e che le insidie del Demonio sono continue, si sia trovato alle prese con le streghe che, vox populi, infestavano numerose le sue terre.
Si raccontavano cose tremende e sconce dei loro festini e di “quel tanto malvagio, scelerato e maledetto gioco detto della Donna”. Si riunivano uomini e donne, specie di notte, e resi invasati dalle streghe, celebravano “messe” diaboliche, esaltando ogni perversione, sbeffeggiando i riti religiosi, “abusando del cibo e del sesso”.
Si diceva perfino che un prete, addirittura un prete, andasse in giro per Mirandola con una diavola di nome Armelina “bella di faccia, colli ladri occhi e con il giocondo volto”. Ma, per magia, nessuno la poteva vedere, lui soltanto: “Sovente l’havea in sua compagnia passeggiando per la piazza, e così andavano insieme ragionando, siccome fanno duoi compagni insieme; benché non fussi veduta d’alcun altro”. Quel prete fu “bruciato secondo la Ordinazione delle leggi”.
Le streghe, donne che dovevano avere un qualche potere paranormale, o che lo simulavano, divennero la proiezione del profondo nero della coscienza di uomini che uscivano da un mondo di certezze soprannaturali e si avviavano verso un mondo ancora enigmatico, portandosi dietro nel trapasso una specie di complesso di colpa irrisolto, vivendo in una “condizione purgatoriale” commista a un bisogno di ribellione, di affermazione della propria terrestrità, di rifiuto di ogni dipendenza trascendente.
Alle streghe credeva Gianfrancesco, ma credevano anche filosofi come Giordano Bruno e Tommaso Campanella, molto più “laici” di lui e già più lontani dalle certezze metafisiche dell’uomo medievale. Una studiosa della cultura di quel periodo e dello “streghismo” di Gianfrancesco – Ida Li Vigni- ha scritto:
“Non si tratta né di pavidità né di inconsapevole contraddizione logica: è piuttosto il riflesso di uno smarrimento intellettuale, comune agli uomini del suo tempo, causato dal graduale ma ormai inarrestabile sgretolarsi delle coordinate storico-culturali che avevano sorretto non solo il grande sapere medievale, ma anche la luminosa e pur fugace stagione degli Umanisti”.
Quei fatti, di cui fu triste protagonista Gianfrancesco, avvennero nel 1522-23. A Mirandola, per reprimere quella che la Chiesa considerava un’eresia (“haeresis strigiatus”), fu inviato come Inquisitore un certo fra Gerolamo Armellini da Faenza, come altri ne furono inviati a Modena, Ferrara, Piacenza, Cremona e in tante altre città. L’Inquisitore aprì subito una serie di processi che suscitarono, però, vivaci proteste. Fu allora che Gianfrancesco, come Signore della Mirandola, o per garantire la popolazione sullo scrupolo di quei processi, o per dare man forte all’Inquisitore, si affiancò a lui interrogando personalmente gli imputati, raccogliendo testimonianze, formulando le sentenze.
I verbali di quei processi non ci sono più, ma nel Fondo Inquisizione dell’Archivio di Stato di Modena c’è un “Catalogo” del Seicento che elenca i condannati che a Mirandola furono costretti a salire “sovra di una grandissima stipa di legna” per essere bruciati “in punizione delle loro sceleraggini et ancho in essempio dell’altri”.
Furono dieci: tre donne, definite “streghe impenitenti” – una di Cividale, una di San Felice e una di Borghetto – e sette uomini, indicati nel “Catalogo” come “stregoni”.
A causa delle streghe nacque perfino una controversia tra Mirandola e Concordia che, come sappiamo, nel 1513 erano state divise fra Gianfrancesco e Francesca Trivulzio, la vedova del fratello Lodovico. Concordia non voleva che l’Inquisitore di Mirandola processasse i propri “sudditi” autonomamente. Voleva anch’essa essere rappresentata nei processi. Ma la risposta fu secca: gli Inquisitori possono liberamente agire nell’ambito del Vescovado di Reggio Emilia da cui dipendono sia Mirandola che Concordia. “Così vole la chiesa e la sanctità del Papa”.
Il caso vuole che la notorietà di Gianfrancesco sia più affidata a un suo libretto sulle streghe di Mirandola, che agli scritti filosofici e teologici che meritano certamente di più. Quel libretto, che Gianfrancesco scrisse in latino nel 1323, è intitolato “Strix” (Strega), “0 delle illusioni del demonio”, nella traduzione che ne fece il domenicano Leandro Alberti, amico di Gianfrancesco, anche lui impegnato nella repressione delle streghe; “overo de gli inganni de Demoni”, nella più tarda traduzione dell’abate Turino Turini. A riprova di ciò che abbiamo detto, queste due traduzioni sono state ripubblicate qualche anno fa. Si tratta dei dialoghi di quattro personaggi, di cui due ben riconoscibili: Fronimo, che vuol dire saggio e sensato, sarebbe Gianfrancesco; Dicasto, che significa giudice, è l’Inquisitore Armellini; Apistio, come dire “l’incredulo”, che, sentiti i due, si persuade che la stregoneria è di natura demoniaca; infine, la Strega che rende la sua testimonianza.
Gianfrancesco scrisse evidentemente questo libretto per giustificarsi e per dimostrare che la tesi della natura demoniaca della stregoneria non era sostenuta soltanto dalla cultura religiosa, ma anche da quella pagana. E qui Gianfrancesco, come faceva lo zio Giovanni, fa sfoggio di tutta la sua erudizione. Ma nonostante questa sua difesa, che voleva essere più culturale che religiosa, riesce difficile immaginare un uomo di fede e di pensiero come lui impegnarsi in prima persona in quella che fu una minicrociata, se non si riporta la vicenda nel quadro delle convinzioni e delle paure del suo tempo, un tempo che fu ben più lungo, purtroppo, di quello vissuto da Gianfrancesco.
“Posti dinanzi a paure per così dire ancestrali che venivano a sommarsi con le paure storicizzabili del tempo – ha scritto sempre la Li Vigni – i letterati del XV e XVI secolo finiscono col presentare ai nostri occhi un comune stato schizofrenico, uno sdoppiamento lacerante, non solo culturale, ma altresì interiore, fra erudizione classica e viscerali credenze superstiziose, fra ratio e disordine intellettuale”.
Tratto da: Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Francesco.
Autore: Jader Jacobelli
Edizioni: Laterza – Cassa di Risparmio di Mirandola
Anno: 1993