Santi de Al Barnardon dal 9 al 15 ottobre
9 ottobre
Il nome di Sara significava in ebraico “principessa” e proprio come una principessa Abramo la volle con se, ciò nonostante ella fosse sua sorellastra da parte paterna. Sara condivise così tutte le avventure del santo patriarca, dalla vocazione a Ur sino alla morte in terra di Canaan. Il libro della Genesi pone in evidenza solo quegli eventi direttamente correlati alla formazione del popolo di Dio, essendo lei strumento privilegiato delle promesse che Dio formulò ad Abramo, la cui discendenza numerosa quanto le stelle sarebbe nata proprio da questa donna sterile ed ormai sessantacinquenne. Dio le mutò il nome da Sarai, cioè “mia principessa”, in Sara, dunque “principessa”. La sua straordinaria bellezza fu motivo del rapimento architettato prima dal faraone e poi da Abimelec in Gerar, ma Dio la protesse nel suo onore. Dette in sposa ad Abramo la sua schiava egiziana, Agar, auspicando che per mezzo di lei avesse potuto realizzarsi la promessa divina. Ben presto si accorse però dell’alterigia e del disprezzo provati dalla donna, madre di Ismaele, iniziò a maltrattarla sino a costringerla a fuggire. Ben venticinque anni dopo l’uscita da Ur, all’età di novant’anni concepì miracolosamente il figlio Isacco, ma non tollerando che quest’ultimo divenisse coerede con il fratellastro Ismaele, costrinse Abramo a cacciare di casa Agar e suo figlio. Nel commovente episodio del sacrificio di Isacco, Sara non compare, anche se è facile immaginare come ne soffrisse sicuramente molto. Alla veneranda età di centoventisette anni Sara lasciò questa terra, morendo presso Ebron (odierna Qiriat Arba), e trovò sepoltura nella spelonca doppia di Macpela difronte a Mamre, tomba comune di Abramo, Isacco, Giacobbe, Rebecca e Lia.
San Cerbone, originario dell’Africa, fu vescovo di Populonia proprio al tempo delle invasioni barbariche, nel VI secolo. Di lui parla il pontefice San Gregorio Magno nei suoi Dialoghi, definendolo “uomo di vita venerabile, che dette grandi prove di santità”. La più celebre di queste prove la dette quando Totila ricercava alcuni militi romani e cristiani. Il santo vescovo di Populonia li nascose e per questo incorse nell’ira del re barbaro, che decretò la sua morte per mezzo delle fiere. Mandò Cerbone nel cosiddetto Campo del Merlo, dove un ferocissimo orso avrebbe dovuto sbranarlo, alla presenza dello stesso sovrano. Lo spettacolo sembrava promettere grandi emozioni, ma Totila non aveva previsto un fatto che lo sbalordì: quando l’orso giunse dinanzi al vescovo rimase per un istante quasi pietrificato nell’atto dell’aggressione, con le zampe anteriori alzate e le fauci spalancate. Poi, lentamente, ricadde sugli artigli, chiuse la bocca e prese a leccare con inaspettata mansuetudine i piedi del santo. Totila rilasciò Cerbone, ma dopo i Goti di Totila giunsero i Longobardi, a scacciare il vescovo di Populonia, che riparò dunque nell’isola di Elba. Ormai vecchio e prossimo a morire, il vescovo aveva chiesto di essere sepolto a Populonia, ancora in mano ai Longobardi, raccomandando ai suoi seguaci di riprendere subito il mare dopo aver provveduto alla sua sepoltura. Morto il santo (10 ottobre 575), i seguaci attraversarono il Canale di Piombino senza essere miracolosamente visti dai nemici a causa delle nubi e nebbie.
11 ottobre
Michele Pini era fiorentino, forse di famiglia senese. Non si sa nulla della sua vita prima del suo ingresso nell’eremo di Camaldoli, che avvenne nel primo anno del ‘500. E anche della sua vita nell’eremo quasi nulla, probabilmente, ci sarebbe rimasto, se un caso poco comune non ci avesse tramandato le sue virtù e anche le sue parole. Il caso fu questo: nel 1510, un nobile veneziano, Tommaso Giustiniani, chiese di essere ammesso nell’eremo di Camaldoli. I superiori, naturalmente, presero un po’ di tempo, per accertarsi della sincerità nella vocazione dell’insolito postulante. Nel frattempo, il Giustiniani salì a Camaldoli, osservò il luogo, i religiosi, la loro vita. Ed ecco che cosa scrisse di Don Michele Pini: ” C’è un solitario, già prete secolare, eremita da più di cinque anni… L’ho visitato il giorno del mio arrivo, con il reverendissimo Padre generale. A mio avviso, ha circa sessant’anni. ” Ha una lunga barba bianca, e sembra un secondo San Girolamo. E’ un po’ pallido, ma non troppo magro. Sembra di natura dolce, e pieno di santa umiltà. A giudicare dalle poche parole che mi ha detto quando gli ho fatto visita, mi è parso pieno di prudenza e assai spirituale. ” Quando il Generale gli ebbe detto che ero colui di cui gli aveva parlato, mi dichiarò che avrei fatto bene se, seguendo le parole del nostro Santissimo Signore, avessi abbandonato tutto per seguire il Signore, il quale ha promesso eterna felicità a chi lo segue… ” Tali parole sono press’a poco quelle da lui dettemi al momento del mio arrivo e del commiato, quando mi ha abbracciato. Richiestolo di pregare per me, mi ha risposto: “E tu, figlio mio, prega affinché Dio esaudisca le preghiere che ho già rivolto a te, e che ancora rivolgerò; e prega per la mia salvezza” “. Qualche mese dopo, Tommaso Giustiniani prese anch’egli l’abito bianco dei Camaldolesi. Restò sempre grande ammiratore dell’eremita alle cui preghiere si era raccomandato. Lo volle per proprio confessore e consigliere spirituale, soprattutto nell’opera di riforma che il Giustiniani intraprese. Con dolore se ne distaccò, quando i Superiori lo inviarono a fondare una nuova Congregazione di eremiti. Il Beato Michele Pini resta così, nel secolare ricordo, come figura di perfetto camaldolese, esemplare tra tutti gli esemplari confratelli.
12 ottobre
Al tempo di Pipino il breve nacquero due bambini straordinariamente simili, uno “ex comite alvernensi”, I’altro “ex quodam milite bericano”. Mentre erano condotti a Roma per il battesimo, si incontrarono in Lucca, dove fecero amicizia e alleanza, e quindi andarono insieme a Roma a ricevervi il battesimo dal papa, che al figlio del conte impose il nome di Amelio, al figlio del soldato il nome di Amico. Come ricordo del battesimo ricevuto nel Laterano, ciascuno dei due ebbe in dono dal papa una coppa di legno, ornata d’oro e di pietre preziose; quindi ritornarono entrambi nella propria patria. Dopo la morte del padre, Amico, a causa di insorte difficoltà ed inimicizie, fu costretto a lasciare la patria; partì allora con dieci servi, per recarsi presso Amelio, nella speranza di essere bene accolto, ma non lo trovò, perché anche questi si era messo in viaggio alla volta di Bericum, per visitare Amico. Dopo molte e varie avventure, Amico, afflitto per non essere riuscito nell’intento e colpito dalla lebbra, ritornò a Roma, dove fu accolto dal papa Costantino, ma dopo tre anni, essendo sopraggiunta una grande carestia, si fece riportare alla casa di Amelio, che, prima di vederlo, non sapendo che fosse l’antico compagno, gli fece apprestare il cibo nella coppa ricevuta dal papa: così si riconobbero. Passarono intanto vari anni, finché i Longobardi, divenuti molto minacciosi, determinarono l’intervento di Carlo Magno contro Desiderio; riuscite vane le trattative, il re franco, superate le Chiuse di Susa, con il suo esercito nel quale militavano Amelio e Amico, vinse il re longobardo, e lo mise in fuga, fino al luogo, ora detto Mortarium per il gran numero dei morti in combattimento, prima chiamato Pulchrasilva per l’amenità del luogo. Amelio e Amico, i quali, benché soldati, esercitavano le virtù cristiane e conducevano vita di penitenza, morirono in quella battaglia, uniti così in vita e in morte (773). Desiderio si rifugiò in Pavia, presa poi da Carlo Magno il quale fece costruire una chiesa nel luogo della sua vittoria. Furono costruite poi anche altre due chiese: una in onore di S. Eusebio di Vercelli, I’altra in onore di S. Pietro; Amelio fu sepolto presso la chiesa di S. Pietro, Amico presso quella di S. Eusebio, in due arche fatte venire da Milano. Il giorno dopo, il sarcofago di Amelio si trovò vicino a quello di Amico: allora il vescovo Albino comandò che i corpi dei due santi fossero conservati insieme nella chiesa di S. Eusebio dove ancora si trovano.
13 ottobre
Romolo fu certamente diacono della Chiesa fiesolana; forse sacerdote o vescovo, ma vissuto dopo il tempo delle persecuzioni, alla fine del secolo IV; sepolto nella vecchia cattedrale, fu a poco a poco ritenuto come il primo vescovo della città e martire. Le qualifiche di vescovo e di martire, non comparivano in documenti del 966, mentre nel 1028 egli era già considerato tale e così per i secoli successivi; il suo nome insieme a quelli dei compagni Carissimo, Marchiziano, Crescenzio e Dolcissimo, è riportato al 6 luglio dal “Martirologio di Usuardo” nell’edizione del 1468 fatta a Firenze; e alla stessa data fu introdotto nel secolo XVI nel ‘Martirologio Romano’ con l’affermazione che Romolo, discepolo di s. Pietro apostolo, fu da lui inviato a predicare il Vangelo; dopo essere stato in diverse città d’Italia, fu martirizzato a Fiesole, insieme ad alcuni compagni, al tempo dell’imperatore Domiziano (51-96).
14 ottobre
Chelidonia nacque a Cicoli, nell’Abruzzo, verso il 1077 da famiglia del popolo. Il suo nome di battesimo pare fosse Cleridona (“dono della sorte”), come risulta anche da un affresco del Sacro Speco di Subiaco, opera del Magister Conxolus (inizi del sec. XIII); quello di Chelidonia (“rondinella”) si cominciò a usare dopo il Rinascimento. Verso il 1092, desiderosa di dedicarsi a Dio, abbandonò la casa paterna e si ritirò a vita eremitica in una spelonca dei monti Simbruini, due miglia a nord-est di Subiaco. Il luogo era ed è noto col nome di Mora Ferogna che, secondo alcuni, conserverebbe il ricordo di un santuario della dea Feronia. Lì visse per quasi cinquantanove anni sola al cospetto di Dio, nel digiuno e nella preghiera, sopportando eroicamente le inclemenze delle stagioni, dormendo sulla nuda roccia, sfidando la ferocia dei lupi, nutrendosi delle offerte dei fedeli, ben presto attratti dalla fama delle sue virtù e dei suoi miracoli, e, talvolta, sostentata miracolosamente da Dio. Una sola volta interruppe la lunghissima solitudine compiendo, tra il 1111 e il 1122, un pellegrinaggio a Roma. Tornata a Subiaco, nella basilica di S. Scolastica, il 12 febbraio, giorno sacro alla santa sorella di s. Benedetto, ricevette dal cardinale Conone, vescovo di Palestrina, l’abito benedettino. Riprese quindi la vita eremitica, che non abbandonò più fino alla morte, avvenuta nel 1152, la notte tra il 12 e il 13 ottobre Dalla spelonca si innalzò allora fino al cielo una colonna luminosa che fu vista da innumerevoli testimoni in tutto il territorio sublacense e oltre. Anche a Segni, dove si trovava il papa Eugenio III, fu osservato il fenomeno: fu forse proprio Eugenio III che decretò a Chelidonia gli onori degli altari. Il corpo della santa fu trasferito subito dall’abate Simone in S. Scolastica e sepolto nella cappella di S. Maria Nuova. Ma nove anni dopo (per espresso ordine della santa, si disse), le spoglie furono riportate alla spelonca, presso la quale l’abate Simone edificò poi un monastero di religione e una cappella dedicata a Chelidonia e a s. Maria Maddalena.
15 ottobre
Teresa nacque nel 1515 e fu donna di eccezionali talenti di mente e di cuore. Fuggendo da casa, entrò a vent’anni nel Carmelo di Avila, in Spagna. Faticò prima di arrivare a quella che lei chiama la sua «conversione», a 39 anni. Ma l’incontro con alcuni direttori spirituali la lanciò a grandi passi verso la perfezione. Nel Carmelo concepì e attuò la riforma che prese il suo nome. Unì alla più alta contemplazione un’intensa attività come riformatrice dell’Ordine carmelitano. Dopo il monastero di San Giuseppe in Avila, con l’autorizzazione del generale dell’Ordine si dedicò ad altre fondazioni e poté estendere la riforma anche al ramo maschile. Fedele alla Chiesa, nello spirito del Concilio di Trento, contribuì al rinnovamento dell’intera comunità ecclesiale. Morì a Alba de Tormes (Salamanca) nel 1582. Beatificata nel 1614, venne canonizzata nel 1622. Paolo VI, nel 1970, la proclamò Dottore della Chiesa.