Remo Rinaldi – Il Natale, il Capodanno, i Nonni
Anni 70 Via Francesco Montanari - Mirandola
IL NATALE, IL CAPODANNO, I NONNI
Una cosa impressionante erano i nebbioni di novembre e dicembre. Uscendo in strada eri soffocato da una nebbia densa, che ti pungeva naso e gola con un odore soffice e umido, somigliante a quello attenuato dell’erba ruta. L’altro lato della via era invisibile. Nella tarda mattinata, la nebbia si dissolveva in fumacchi che salivano verso l’alto. Molti uomini portavano il tabarro con il lembo destro buttato sulla spalla sinistra; le donne un grande sciallo di lana nera. I cappotti erano cose da benestanti.
La preparazione del presepio ci metteva in smanie. Andavamo in campagna, a cogliere il muschio nei fossi dove aveva stagnato l’acqua. Le montagne si facevano con i pezzi più irregolari di legna da ardere, oppure con la marógna, i residui del carbone minerale bruciato dall’azienda comunale del gas. Si allestiva la scena della Natività sul focolare, sotto la cappa del camino, che non serviva più, soppiantato dalla stufa economica a legna. Con l’anno nuovo, noi bimbi s’andava di casa in casa dei parenti e dei conoscenti a porgere gli auguri di buon anno. Per la via Montanari si udiva, cantata a voce alta da bambini e ragazzi, la filastrocca tradizionale: A sòn gnu a dar al bòn cavdàn Ch’a scampàdi sènt an Sènt an e un dè La bòna man la végn a mè.
In cambio degli auguri, davano una piccola mancia, dei tortelli dolci. La zia Celestina era sempre generosa nella mancia, ci faceva mangiare un paio di tortelli e bere un bicchierino di liquore per difenderci dal freddo. Uscivamo dalla casa della “Torneria Rinaldi Valmiro”, di fianco al Gesù, un po’ intontiti.
Andavamo spesso in campagna dai nonni materni. Entrambi mantovani di Poggio Rusco, erano emigrati in Brasile, a Taquaritinga, nello stato di San Paolo, dove si concentravano tutti quelli del Poggio che emigravano in Brasile. Mia nonna Aldegarda era andata ragazza con i genitori. Mio nonno Narciso era emigrato da solo a diciotto anni. Si conobbero là e si sposarono. Gestivano un mulino e avevano un emporio dove vendevano un po’ di tutto. Mio nonno Narciso era un avventuriero. Si assentava da casa anche per alcuni mesi e ritornava con merci varie per trafficare. Una volta tornò dall’Europa con due grosse valigie colme di orecchini d’oro, andati a ruba. Un’altra volta, partito con un cavallo nero, tornò vestito di bianco, con barba e baffi e un cavallo diverso. La nonna non lo riconobbe. Tornarono in patria nel 1912, con otto figli e un po’ di fortuna. Si erano imbarcati sulla seconda classe di un piroscafo. Mia madre e sua sorella Batilde erano piccole bimbe di bellezza tipica in quegli anni al termine della belle époque: capelli gonfi, ricciuti, sciolti sulle spalle, con vestitini lunghi al polpaccio, stivaletti chiusi da una fila di bottoncini.
Raccontava che le signore incontrate a passeggiare sul ponte le portavano in prima classe, offrendo dei dolci e mettendo loro dei nastri nei capelli. Dopo aver abitato a Concordia e a Santa Giustina, i nonni si stabilirono alla fine su un podere di oltre trenta biolche modenesi, acquistato in località San Pietro in via Sabbioni. Mio nonno era un vecchio taciturno, scontroso, che lavorava sodo da solo per tagliare l’erba medica con la falce fienaia. Ogni tanto fermava, posava a terra la sommità del manico di legno della falce, poggiava l’avambraccio sinistro sulla falce, ne puliva il taglio da una poltiglia verde con un manipolo d’erba, e affilava sveltamente la lama con la pietra cote tolta dal corno pieno d’acqua appeso alla cintura. Dormiva, solo, in una stanza e non l’ho mai visto parlare con la nonna. La domenica andava a Mirandola a piedi, giocava a carte nell’osteria Zerbini in via Fenice, comprava il vino al minuto, lo beveva all’ingrosso e tornava quasi sempre sbronzo. Aveva una sensibilità quasi morbosa per la musica, quella delle canzoni, da ballo liscio o, al massimo, dell’operetta. Diceva: “Quel ch’a invinta la musica al na duvrév mai èsar morti”. Aveva certe convinzioni sociali spicciole, con un buon fondo di verità: “A sta mónd, ogni tri caiòn sta bèn un fùrub!”. Non lontano dai nonni abitavano Mario e Maria Galavotti con una bella squadra di figli. Mia zia Ida fece amicizia con la Maria ad Galavòt, una donna molto stimata a San Giacomo, per la saggezza e il buon senso contadino posseduti in abbondanza……….
Autore Remo Rinaldi
Tratto dal libro : Via Montanari e d’Intorni – Ricordi di un mirandolese invecchiato in esilio