Mirandola – Il ventennio fascista
Dopo la fine della Grande Guerra, Mirandola potè riprendere la sua normale vita democratica solo nel 1920, con l’insediamento del nuovo Consiglio comunale. Con la conferma nella carica di sindaco del socialista Vito Vischi, che aveva già guidato il comune dal 1912 al 1914, sembrava veramente che una parentesi fosse stata chiusa. Ma le lacerazioni che già avevano segnato la nostra città nel periodo giolittiano, non tardarono a riemergere in maniera ancora più violenta.
L’anno 1921 sarà il più triste e violento della nostra storia. La borghesia agraria della pianura padana era ben decisa a ridimensionare la forza dei sindacati dei braccianti, che avevano ripreso con rinnovato vigore la lotta per il miglioramento delle loro miserevoli condizioni di vita, fatti forti anche delle promesse avanzate dalle classi dirigenti nelle trincee. Anche a Mirandola, quindi, si assistette alla tragica saldatura tra le esigenze normalizzatrici del padronato agrario e le confuse istanze di rinnovamento della società italiana di cui il Partito fascista si era fatto interprete nel programma di San Sepolcro, fortemente venate di odio anti-socialista e di rifiuto dei metodi democratici e parlamentari.
Le squadracce fasciste impiegarono il 1921 per annientare tutte le forme di organizzazione operaia e contadina, sia socialista che cattolica. Intimidazioni e violenze venivano inutilmente denunciate. Il Consiglio comunale si univa, il 1 marzo 1921, alla dichiarazione letta dal consigliere popolare Polacchini, che deplorava il clima di violenza che regnava nella nostra zona.
Inutilmente: il 21 aprile il Prefetto decideva di commissariare il Comune di Mirandola e scioglieva il Consiglio comunale, democraticamente eletto.
Nell’agosto dello stesso anno, dopo l’occupazione fascista della Camera del lavoro, toccò al dottor Mario Merighi, forte della sua fama di medico e di politico moderato, denunciare, in una lettera all’on. Berenini, socialista riformista come lui, le connivenze tra i fascisti e le forze dell’ordine. Secondo Merighi, alcuni carabinieri erano stati visti partecipare a comizi e addirittura a spedizioni fasciste. Ma il comandante della divisione dei Carabinieri reagì sdegnato. La situazione a Mirandola non era peggiore che nel resto della provincia. Piuttosto, secondo il maggiore Ivaldi, era evidente che i socialisti tentavano di mascherare, lanciando allarmi e accuse così gravi, il loro fallimento: la Camera del lavoro aveva visto crollare i suoi iscritti da 20.000 a 1.000, a favore dei sindacati fascisti nelle campagne, che erano sorti solo nell’aprile 1921.
Il 17 agosto 1921 cinque individui mascherati uccidono il sindacalista cattolico Agostino Baraldini, coltivatore diretto di Mortizzuolo. Vengono accusati del delitto cinque fascisti, che verranno però assolti per insufficienza di prove dalla Corte d’Assise di Modena. Ma la matrice di quel delitto non era certo un mistero per nessuno. Tuttavia, anche questa volta le autorità minimizzano. Il Prefetto di Modena, rispondendo ad una lettera preoccupata dell’allora primo ministro e ministro dell’interno Bonomi, definisce discreta la situazione in provincia: nessun fatto grave, pochi feriti da armi, solo un certo stillicidio di bastonate in genere domenicali. In una provincia come questa, aggiunge, che ha ben 50 fasci e 27 comuni commissariati su 31, da sempre nota per la sua lotta politica vivacissima, tutto ciò sembra normale!
Del resto i fascisti modenesi avevano rifiutato, anche contro le indicazioni della dirigenza centrale del partito, il Patto di pacificazione del 3 agosto 1921. A Mirandola fu ancora il dottor Merighi a tentare una via di conciliazione. Divenuto, nel luglio 1921, presidente della locale sezione dell’Associazione nazionale combattenti, egli tentò di farne un luogo di incontro, sulla base della solidarietà di trincea, tra socialisti e fascisti, scegliendo come vice-presidente il fascista Aroldo Molinari. Propose quindi ai fascisti una versione mirandolese del patto di pacificazione, che però i fascisti respinsero. Anzi, nell’agosto 1921 trasformarono i funerali dell’operaio Corrado Vescovini, caduto vittima delle loro violenze, in una dimostrazione di forza: dopo aver imposto che non vi fossero simboli di partito al seguito del corteo, assaltarono comunque la cerimonia, che i compagni del defunto avevano organizzato imponente, inseguendo alcuni partecipanti e obbligando i proprietari a riaprire i negozi, chiusi in segno di lutto. Infine, nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1922, contro la casa del dottor Merighi vennero lanciate due bombe, che però non esplosero, e alcuni colpi di rivoltella. Era il preludio della fine: l’11 agosto 1922 il Consiglio direttivo provinciale dell’A.N.C. scioglieva la sezione mirandolese.
Eliminati tutti gli avversari politici, i fascisti potevano ora governare Mirandola indisturbati. Le elezioni del 1922 diedero loro un’ampia maggioranza, che permise l’ascesa alla carica di sindaco dell’ing. Dario Ferraresi, un esponente di quella borghesia agraria che stava trasformando i nostri campi in moderne aziende agricole, ma che era per ciò stesso la più aspra antagonista dei sindacati dei braccianti.
Il programma del nuovo sindaco era in realtà ricalcato su quello delle amministrazioni liberal-moderate dei primi anni del secolo. Nel suo discorso di insediamento, il Ferraresi se la prendeva con le eccessive spese volute dalle amministrazioni socialiste e con il conseguente inasprimento delle tasse, in particolare della sovrimposta sui terreni e i fabbricati, che con l’ultima amministrazione Vischi aveva coperto il 70% delle entrate del comune.
Tutto questo per sostenere una politica demagogica, che sprecava risorse in inutili opere pubbliche per alleviare la disoccupazione, o per finanziare una Azienda di consumo che, per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, sacrificava gli interessi dei negozianti, o infine per mantenere il controllo delle scuole elementari, invece di cederle allo Stato come avevano fatto la maggior parte dei comuni, con evidenti intenti di controllo ideologico sui maestri. Un insostenibile peso fiscale ricadeva così sulle classi proprietarie, che così non potevano dedicare risorse adeguate al rilancio della economia cittadina.
Secondo i principi del più ortodosso liberalismo, il bilancio del comune doveva tendere al pareggio e diminuire al minimo le spese. Ma questo non doveva però intaccare la qualità dei servizi offerti e che i fascisti non mettevano in discussione, nonostante l’espansione che proprio le amministrazioni socialiste avevano operato dei compiti del municipio. Si rimproverava ai socialisti di non aver saputo gestire i servizi in maniera economica, per aver voluto coprirli con l’ampliamento della pianta organica. I fascisti cercarono allora di ridurre il numero dei dipendenti pubblici: mentre per i loro stipendi ci pensava il governo, che periodicamente li decurtava, con la scusa di una presunta diminuzione dei prezzi. Molti servizi vennero quindi affidati a privati, che si impegnavano, ad esempio, alla manutenzione delle strade come cottimisti fiduciari, oppure a svolgere il lavoro di fuochisti come avventizi, cioè con un rapporto che durava solo per il periodo invernale. Oppure appaltati a ditte, come avveniva per la riscossione del dazio di consumo, o ad associazioni assistenziali che avevano costituito cooperative, come per la pulizia delle strade e la raccolta dei rifiuti, sempre affidate alla sezione locale dell’Associazione mutilati e invalidi.
Tutti questi risparmi dovevano servire per ridare fiato ad una politica di opere pubbliche, alla quale le amministrazioni fasciste si dedicarono con un certo vigore fino al 1928 e le cui tracce sono ancor oggi ben visibili, nel bene e nel male.
Una parte di queste opere avevano un significato prevalentemente legate al decoro cittadino. La ristrutturazione del Palazzo municipale permetteva certo di sistemare in maniera più comoda gli uffici, ma anche di dotare la piazza principale di un sipario scenografico, certo non originale, ma almeno rispettoso di quanto si poteva vedere in antiche stampe e dello stile dei palazzi circostanti. Identica scelta venne operata per la nuova sede del Liceo, il cui stile era in sintonia con la attigua chiesa di San Francesco. Proprio quest’ultima fu poi restaurata, nel 1928, ma qui Fintervento del comune fu limitato: per coprire le 350.000 lire previste furono in gran parte sufficienti le donazioni dei mirandolesi, come pure per la costruzione del Sacrario dei caduti. Infine si procedette alla sistemazione del Parco delle rimembranze e dei viali di circonvallazione, con la costruzione del percorso alberato sul quale dovevano affacciarsi le case che si sperava di veder sorgere sui terreni ricavati con l’abbattimento delle mura, con un primo timido ampliamento urbano, ancor oggi ben riconoscibile.
Sempre lungo i viali doveva sorgere il nuovo campo sportivo, opera ben consona alla retorica guerresca e giovanilistica del regime: il campo, inaugurato nel 1932, doveva servire non solo alle esibizioni della locale squadra di calcio, ma anche e soprattutto all’addestramento pre-militare dei fanciulli e degli adolescenti. Progetto completato poi con la costruzione della palestra e dei campi da tennis.
Un risalto particolare venne poi dato alla costruzione, nel 1929, della Scuola allievi sottufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dal punto di vista urbanistico ed estetico certo il peggior scempio perpetrato dai fascisti a Mirandola. Questa scuola doveva portare a Mirandola 250 allievi e tutto il personale docente e non docente. Oltre al prestigio che da tale insediamento i fascisti mirandolesi si ripromettevano per la loro città, la speranza era che tale presenza potesse rappresentare anche una opportunità per l’economia cittadina.
Ma non erano in fondo queste le opere pubbliche su cui i fascisti mirandolesi puntavano. L’opera maggiormente propagandata e che più esprimeva una certa visione del ruolo economico di Mirandola doveva essere il Mercato bestiame. Aperto nel 1927 esso venne gestito direttamente dal comune, che costituì una apposita commissione di funzionamento e vigilanza: segno evidente dell’importanza strategica che l’amministrazione attribuiva a tale realizzazione. Il Mercato bestiame doveva far diventare Mirandola il centro riconosciuto di un’ampia zona agricola, caratterizzata dalla forte integrazione tra agricoltura tradizionale e allevamento, di cui la borghesia agraria era stata protagonista negli anni a cavallo tra i due secoli: essa comprendeva la Bassa modenese, ma anche i comuni mantovani al di qua del Po, mentre guardava ad una possibile integrazione con la bassa reggiana, verso la quale si progettava la costruzione di una ferrovia che collegasse la linea per il Brennero con la linea Modena-Mantova, seguendo il tracciato Mirandola-Novi-Rolo, con possibile prolungamento fino a Novellara. Mentre si cercava di rilanciare l’attività del Consorzio per la bonifica di Burana.
Mirandola doveva quindi diventare la città dei servizi per quest’ampia zona della pianura più vicina al grande fiume. Già erano presenti importanti uffici pubblici: la sotto-prefettura, la Pretura, gli uffici tributari. Con l’apertura del mercato bestiame tutto il mondo agricolo circostante doveva convergere qui anche per svolgere le sue attività economiche.
Per completare il quadro, Mirandola doveva offrire anche servizi culturali e ricreativi. Così si spiega la ristrutturazione del Teatro Nuovo (1932) e la partecipazione del comune alla sua gestione insieme alla società dei palchettisti (1933), con la concessione ogni anno di una somma per l’allestimento di opere liriche durante la fiera di San Michele. Ma soprattutto si spiega l’impegno per la riapertura del Liceo, chiuso nel 1903 dai socialisti, che avevano preferito mantenere il controllo delle scuole elementari, nonostante ciò comportasse un impegno in bilancio considerevole, e creare una scuola tecnica. L’amministrazione fascista rinunciò all’autonomia delle scuole elementari comunali nel 1928. Ma già nel 1923 aveva dato il suo appoggio ai genitori che avevano raccolto le prime somme necessarie, che andavano unite a quelle di un legato testamentario che doveva essere utilizzato a tale scopo per volontà del donatore, che però coprivano insieme meno della metà delle spese complessive. Ancora una volta questa spesa venne giustificata con la possibilità che al nuovo Liceo si iscrivessero non solo i giovani mirandolesi, ma anche quelli dei comuni vicini, compresi quelli del basso mantovano, tutti privi di scuole superiori. Un motivo in più, insomma, per gli abitanti della zona per venire a Mirandola, dove già si veniva per recarsi agli uffici pubblici, per andare a teatro, per trovare i servizi per le proprie attività economiche, ed anche per portare i figli a scuola. Non però una scuola qualsiasi: il Liceo, dove si formavano i figli delle classi ricche, che sarebbero stati la classe dirigente di domani, secondo il modello fascista della riforma Gentile.
Ma questo progetto rimase a metà. La bonifica di Burana conduceva una vita stentata e non procedeva nei lavori per grandi opere. La ferrovia Mirandola-Novellara non venne mai completata, neppure nel tratto fino a Rolo: se ne vedono ancora adesso alcuni manufatti, isolati nella campagna. Come se fossero rimasti congelati dal grande freddo del 1929, che mise in ginocchio la nostra agricoltura, un anno prima che si abbattesse sull’Europa la grande bufera della crisi economica mondiale.
Mirandola rimase un grande centro agricolo. Il suo allevamento bovino e la sua produzione di formaggi e latte erano al terzo posto in provincia. Così pure al terzo posto in provincia era l’allevamento dei suini, mentre al primo posto era l’allevamento degli equini, grazie alla presenza a San Martino Spino del Centro allevamento quadrupedi dell’esercito.
Anche le non molte industrie presenti a Mirandola erano legate all’agricoltura.
Secondo il censimento del 1911, in città erano presenti 140 attività industriali, che impiegavano 696 persone: ma di esse ben 91 si occupavano della trasformazione del prodotto agricolo, con 424 addetti. Esse erano per lo più legate alle stesse famiglie degli imprenditori agrari, che avevano aperto, ad esempio, un mulino o che avevano costituito consorzi per la gestione della cantina vinicola o il caseificio. La maggior parte dei mirandolesi abitava in campagna. Ancora nel 1931 i cittadini veri e propri erano 5312 su un totale comunale di 20.621: nel ’28 gli abitanti erano più di 22.000, ma la crisi aveva riaperto per molti la strada dell’emigrazione. Nel 1936 si tornò a superare quel livello, arrivando a contare 22.478 abitanti, ma ancora solo 6178 abitavano in città.
Ma il dato più impressionante degli anni trenta è certamente il numero di coloro che dovevano essere assistiti dal comune. Nel 1928 erano 696 le famiglie che ricorrevano alla beneficenza pubblica, contando complessivamente 2446 persone in questo triste stato di necessità. Ma nel 1931 erano diventate 857, cui se ne aggiunsero altre 83 nel 1932, per un totale di 4277 assistiti. Nel 1937 le famiglie assistite erano diventate 1220, con 5458 poveri: di queste, 522 abitavano in città, con 1977 poveri. Se si pensa alla popolazione cittadina complessiva, quasi la metà di essa era così povera da dover essere assistita dal comune, nonché dalla miriade di enti legati al partito fascista. Era infatti l’Ente opere assistenziali che progressivamente assunse compiti sempre maggiori: aprì un refettorio popolare, organizzava la Befana per i bimbi poveri oppure le colonie montane e marine. Insomma, il progetto di fare di Mirandola il centro terziario della Bassa modenese, mantovana e reggiana era completamente fallito. Certo non vi era stata grande attenzione da parte del governo, che pure era stato sollecitato ad intervenire dai dirigenti locali che potevano rivolgersi direttamente a Mussolini. E d’altra parte, gli anni Trenta furono difficili per tutti i paesi.
Ma quel progetto era adeguato ai nuovi tempi? Non era forse solo il sogno di una classe dirigente con interessi prevalentemente agrari, che sembrava non accorgersi, se non marginalmente, dell’industrializzazione e della sua importanza? O forse questo disinteresse era legato alla sua scarsa disponibilità ad aumentare i salari dei suoi braccianti, che aveva voluto invece umiliare distruggendone ogni capacità di lotta e di rappresentanza democratica? Essi inseguivano forse ancora il sogno liberista di un’Italia grande fornitrice di prodotto agricolo per tutta l’Europa, che era stato dei primi governi liberali del Regno. Lo sviluppo industriale non rientrava nei loro piani. Il nuovo modello di sviluppo nato con le idee di Ford prevedeva una produzione di massa per un mercato di massa: quindi anche la disponibilità ad aumentare i salari al di sopra di quanto bastasse per la sopravvivenza, per fare delle classi popolari dei consumatori. Una idea che per i nostri agrari era evidentemente troppo rivoluzionaria.
Franco Verri
Tratto da : Fatti e figure della Mirandola – Storia,arte,società dal calare dell’Ottocento al Terzo Millennio.
Edizioni: “Al Barnardon” Anno 2000
Le immagini sono state gentilmente concesse dai collezionisti Roberto Neri e Alberto Toscani