La scelta del “Rosso”

La scelta del “Rosso”

24 Marzo 2020 0

In quella tiepida mattina di settembre dell’anno 1394, il Rosso Bortolaia stava lavorando, come sempre, nella sua buia bottega di armaiolo che si trovava sulla modesta piazza della Mirando­la, proprio a metà strada fra il Borgo Franco e il Borgo Vecchio.

Ad un centinaio di passi si poteva scorgere la mole tozza del castello dei Pico, dove un folto gruppo di muratori e terrazzieri stava rico­struendo la torre e il ponte levatoio sul fossato, mentre a levante, dietro un piccolo gruppo di casupole, si innalzava la facciata della chiesa di San Francesco d’Assisi, poco più di un grosso oratorio.

Il Rosso Bortolaia si era alzato presto, come sempre, poco dopo l’alba; un breve temporale di fine estate aveva scacciato l’umida calura del giorno precedente, l’aria era fresca e pulita, anche se in cielo restavano grandi stracci di nuvole bianche. Poi si era messo subito a lavorare, anche perché i quattro fratelli Pico, che allora erano i padroni della Mirandola e di una piccola Signoria che com­prendeva il territorio della stessa Mirandola, San Possidonio, Quarantoli e San Martino Spino (cioè dalla “valle” semideserta fino al­l’argine del fiume Secchia, dove sorgevano alcuni mulini ad ac­qua), gli avevano commissionato cento spade e il Rosso doveva completare il lavoro entro l’autunno.

Il Rosso Bortolaia lavorava sempre di buona lena e non sentiva per nulla il peso dei suoi 60 anni ormai compiuti. Era un fabbro di grande valore, il più bravo della Mirandola, il lavoro non gli man­cava mai. Unico suo grande dispiacere era quello di non avere avuto figli e spesso pensava, con un po’ di dispiacere, che alla sua morte la bottega sarebbe passata nelle mani di qualcuno che non portava il suo cognome. Perché la famiglia dei Bortolaia costruiva armi e oggetti in metallo fin da prima che il vecchio Francesco Pico, nel lontano 1311, diventasse vicario imperiale della Mirandola. Il bisnonno e il nonno erano stati fabbri, poi suo padre aveva scel­to la strada di fabbricare armi, visto il crescente bisogno, e dalla bottega dei Bortolaia da vari decenni uscivano spade, lance e col­telli di buon pregio e grande resistenza.

Il vero nome del Rosso, quello di battesimo, era Francesco, in omaggio al Santo di Assisi, al quale il popolo della Mirandola e i Signori Pico avevano dedicato da oltre un secolo una chiesetta. Era rosso di capelli e ogni tanto amava raccontare che il colore del suo crine derivava probabilmente dalla sosta nel Mirandolese di un esercito di soldati longobardi, avvenuto qualche secolo prima.

Nelle terre comprese fra i corsi dei fiumi Secchia e Panaro tutti conoscevano il Rosso Bortolaia, ognuno apprezzava la sua abilità di artigiano, ma godeva anche di buona stima per il suo buon sen­so e per la capacità di esprimere con serenità di giudizio la propria opinione. Era quello che si diceva, una volta, “un uomo da pare­re”, in grado di fornire consigli autorevoli a chi glieli chiedeva. Perché, per tutto il resto, il Rosso si faceva gli affari suoi: quattro soldi non gli mancavano, la bottega era di sua proprietà, assieme ad un paio di camere costruite sulla bottega stessa. Era uno di quelli che amava la libertà, un uomo di grande tolleranza.

Gli stessi Pico, che erano i Signori della Mirandola da quasi un secolo, tenevano in grande considerazione il Rosso Bortolaia. Lo stimavano non solo come armaiolo di valore, ma anche come uo­mo giudizioso. Né lui, il Rosso, si era mai tirato indietro se giunge­va il momento di menare le mani contro i nemici della città. Quan­do una schiera di soldati di Massa, sobillati certamente dagli Esten­si di Ferrara, aveva tentato di prendere il castello della Mirandola con un audace colpo di mano, il Rosso Bortolaia era subito accor­so a combattere al fianco delle truppe regolari dei Pico e il castel­lo fu salvato, dopo un feroce combattimento durato fino a tarda notte. E quando il povero Paolo Pico, ora scomparso, aveva deciso di infliggere una severa punizione a quelli di Massa, il Rosso era fra i primi ad attaccare e distruggere il piccolo borgo del territorio estense. Il castello di Massa era stato ridotto, nello spazio di poche ore, ad un cumulo di macerie, moltissimi abitanti, tutti quelli che non erano riusciti a fuggire, furono passati a fil di spada. Non solo, ma sulle rovine del castello e di parecchie case, Paolo Pico volle che fosse sparso del sale, in segno di minaccioso sterminio. E il Rosso aveva fatto la sua parte, assieme a parecchi altri della Miran­dola.

Poi, ogni volta tornava al buio della sua bottega, tranquillamen­te, per riprendere il lavoro interrotto. Da qualche tempo, tuttavia, aveva preso con sé un ragazzo, un certo Filippo, figlio di un pove­ro contadino di Quarantoli, al quale una scorribanda di mercenari estensi aveva tolto la vita e la casa. Praticamente Filippo, che ave­va ora 17 anni, era diventato un figlio adottivo, lavorava con il Rosso, apprendeva il mestiere, non era pagato, ma un piatto di mi­nestra a mezzogiorno e a sera c’era sempre. Di notte, Filippo dor­miva nella bottega, anche se la moglie del Rosso non aveva visto di buon occhio quella specie di tacita adozione. Forse non amava quel ragazzo, ma si rendeva conto che egli riempiva la vita di suo marito e gli dava una mano in bottega, visto che adesso c’era pa­recchio lavoro. Sapeva benissimo che un giorno l’antica bottega del Rosso Bortolaia sarebbe passata a quel ragazzo.

Anche se, come diceva sempre il Rosso parlando con i suoi ami­ci e con le persone che frequentavano per vari motivi la sua botte­ga, i tempi erano difficili.

Il ’300 era stato un secolo terribile per questa zona detta della Lombardia che stava tra il Po, il Secchia e il Panaro. C’era stata la incruenta presa di potere al governo della Mi­randola di Francesco Pico, grazie anche alla generosità dell’impera­tore Arrigo VII, poi del tirannello mantovano Rinaldo Bonaccorsi, detto il “Passerino”, che aveva dapprima conquistato Modena e poi raso al suolo quasi tutta la Mirandola, senza trascurare di fare mori­re di fame in una torre lo stesso Francesco Pico e due dei suoi figli, poi la successiva vendetta dei Gonzaga e dei Visconti coalizzati contro il feroce Passerino. Infine la Mirandola era stata coinvolta in una sorta di turbolento interregno, costellato di piccole e grandi guerre locali che avevano seminato lutti e disastri in questi territori mirandolesi, dove tutti comandavano e nessuno aveva il potere.

Sta di fatto che dal lontano 1321 alla Mirandola non c’era anco­ra una signoria stabile, il popolo non contava nulla, il castello era ancora mezzo in rovina e le più disparate compagnie di ventura passavano su queste terre come folate di bibliche cavallette.

Ma è mai possibile – pensava fra di sé il Rosso Bortolaia, mentre affilava le sue spade – che queste guerre non finiscano mai? Chissà come è bello il mondo senza armi, forse io ne farei parecchie in meno, ma cosa importa. Tornerei a fabbricare vanghe, zappe, badi­li e falci per i contadini, tutti potrebbero lavorare in pace e attende­re con fiducia e serenità il momento del raccolto. C’è ancora tanta terra da dissodare qui nelle nostre zone, c’è il bosco monastico che potrebbe essere tutto dissodato, poi la Val Nemorosa, che è solo un immenso sterpeto, c’è tanta legna da ricavare, tanta terra da vanga­re. Si potrebbero impiantare nuove viti, così che una maggiore quantità del nostro buon vino potrebbe raggiungere Venezia, dove è tanto apprezzato. Poi si potrebbe aumentare la produzione della seta, si potrebbe avere molto più frumento. Insomma, ci potrebbe essere lavoro e ricchezza per tutti. Ma soprattutto la pace.

Mentre il Rosso Bortolaia pensava tutte queste cose, le figure di due uomini armati si stagliarono nel chiarore della porta di bottega che era spalancata. Filippo si tirò subito da parte, la presenza dei soldati era spesso foriera di brutte notizie e una sorta di apprensio­ne si impadronì del ragazzo.

Il Rosso invece si dimostrò molto più tranquillo, si fece avanti pulendosi le mani col grembiule e chiese:

“Cosa volete?”.

“Sei tu il Rosso Bortolaia?”, chiese il più anziano dei due soldati, il cui accento non sembrava proprio mirandolese.

“Sono io, in cosa posso servirvi?”.

Nulla di particolare, il nostro capo delle guardie dice che prima di mezzogiorno dovrai presentarti al castello, dovrà darti un ordine”. “Ma di che si tratta?”, provò a chiedere il Rosso.

“Non sappiamo, ha detto soltanto che dovrà darti un ordine im­portante. Vieni al castello prima che suoni mezzogiorno”.

Poi i due soldati se ne andarono in silenzio, senza salutare. Il Rosso Bortolaia fece un brevissimo esame di coscienza: cosa poteva significare quella parola “ordine”? Azioni cattive non ne aveva certamente commesse, adulteri nemmeno, non aveva più l’età, dei quattro fratelli Pico non aveva mai parlato male, anche perché gli davano spesso da lavorare e lo pagavano puntualmente. Oddio, erano quattro fratelli un po’ arroganti, anzi, erano molto arroganti e prepotenti, ma con i liberi cittadini mirandolani usavano sempre un tratto di riguardo, forse perché di essi avevano bisogno. Con i nemici e con gli stranieri invece erano terribili, proprio dei veri Pi­co, insomma. Perché la famiglia godeva di una fama piuttosto cat­tiva. Gli altri signori della pianura padana cercavano, quand’era possibile, di evitarli, sennò erano guerre in continuazione; d’altra parte la modesta superficie della loro Signoria, racchiusa fra gli ar­gini di Secchia e Panaro, con parecchie zone ancora acquitrinose, li induceva ad un comportamento prepotente, altrimenti era diffici­le la sopravvivenza del loro piccolo dominio.

Comunque il Rosso non intese trattenere troppo entro di sé i suoi dubbi: si ripulì le mani in un vecchio secchio di rame, si ras­settò, disse al suo ragazzo che andava fuori per un po’ di tempo, si infilò la giacca buona e si diresse verso il vicino castello.

Mentre stava per raggiungere il posto di guardia davanti al pon­te levatoio del castello, incontrò Nicolò De Nadali, suo vecchio amico e compagno di tante scaramucce. Si conoscevano fin da bambini, anche se Nicolò era di famiglia quasi nobile. I De Nadali possedevano una vasta porzione di terreno verso i prati di San Martino Carano, con alcuni buoni campi che la famiglia coltivava da un paio di secoli, un pezzo di bosco verso la Fossa da cui si traeva parecchia legna, un grande pozzo che poteva abbeverare molto bestiame. La famiglia viveva in città, in una bella casa a due piani vicino alla chiesa di San Francesco, e ogni giorno gli uomini della famiglia si recavano nella loro campagna, poco più di un mi­glio, per seguire il lavoro agricolo e in particolare i momenti del raccolto.

“Buona giornata”, disse Nicolò De Nadali, “cosa fai qui?”. An­ch’egli, naturalmente, era stato convocato dalle guardie dei Pico e non conosceva il motivo di questo ordine così improvviso. Intuiva che anche il Rosso fosse giunto al Castello per invito, si fa per dire, dei Pico, ma si augurava che il suo vecchio amico sapesse qualcosa più di lui. La breve risposta del Rosso Bortolaia gli fece subito capire che entrambi erano completamente al buio. Comun­que, passarono il ponte levatoio sempre in corso di riparazione e, accompagnati da un soldato dall’aspetto nordico, furono condotti nella stanza del capitano delle guardie.

“Ah, bravi”, disse il capitano Manfredo Possidoni, capo delle guardie e uomo di fiducia dei Pico. Manfredo, infatti, era un valo­roso, era stato per molti anni al fianco di Paolo Pico e quando il Signore della Mirandola era stato ammazzato a Verona in una fu­riosa scaramuccia per le vie della città, era tornato alla Mirandola per avere cura dei quattro figlioli di Paolo, ragazzi inquieti e turbo­lenti, sempre smaniosi di combattere, magari anche fra di loro.

“Sedetevi”, disse Manfredo Possidoni, “e ascoltate quello che vi dico. Voi sapete certamente che la signoria della Mirandola, dopo tante lotte, è ancora contesa da due rami dei Pico. Qui a Mirando­la ci sono i miei signori, Francesco, Tommasino, Spinetta e Prendiparte, tutti figli dell’amatissimo Paolo Pico, che mi onoro di avere servito con lealtà e fedeltà. Ma a Milano, ospiti dei Visconti, vi so­no Giovanni, Franceschino e Prendiparte, anche lui si chiama così, figli di Nicolò Pico, che a loro volta pretendono di avere pieno di­ritto al dominio di queste terre. Giusto? Ma queste cose voi le sa­pete meglio di me ed è inutile che io vi stia a ricordare tutto”.

Manfredo Possidoni fece una breve pausa, si passò una mano sulla testa quasi completamente calva; non aveva mai parlato tanto in vita sua. Poi continuò.

“Voi sapete che io sono un soldato, di politica non capisco mol­to, non me ne intendo affatto. Però devo dirvi una cosa: i tre figli di Nicolò sono a Milano, ospiti di Gian Galeazzo Visconti, che in questi tempi è l’uomo più potente della Lombardia, e non solo della Lombardia. Vi faccio un esempio: se lui decide che un suo amico debba diventare papa, state pur sicuri che al primo Concla­ve il suo pupillo va a sedere sul trono di Pietro. Avete capito? E al­lora veniamo ai fatti nostri: il Visconti ha stabilito che sia il popolo della Mirandola a scegliere i suoi signori. Secondo me è una cosa assurda, una roba da matti, ma lui, il Visconti, ha deciso così e non c’è nulla da fare. Se noi dicessimo di no, arriva a Mirandola con il suo esercito e in poche ore riduce il paese e il castello ad un cu­mulo di rottami. Perciò i miei signori hanno dovuto accettare la decisione di Gian Galeazzo Visconti”.

Il capitano fece una seconda pausa: ad uno come lui, abituato ad usare la spada per tutta una vita, riusciva difficile parlare di compromessi politici, di arbitrati e di strane decisioni popolari, pensava che tutte le questioni si dovessero decidere con la spada.

“Ma noi, cosa c’entriamo?”, chiese con un pizzico di timore il Rosso Bortolaia, sempre più convinto di trovarsi di fronte a cose più grandi di lui.

“Adesso arrivo”, rispose il capitano Possidoni, “voi due c’entrate perché Gian Galeazzo Visconti ha stabilito che il destino della si­gnoria dei Pico dovrà essere deciso da un collegio di tredici cittadi­ni della Mirandola, tutta gente dabbene e timorata di Dio. Voi do­vrete, insomma, decidere se la Signoria dei Pico spetta ai tre figli di Nicolò Pico (quelli di Milano) oppure ai quattro figli di Paolo. Ave­te capito? I fatti li conoscete, dovrete stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Io credo che affidare il destino di una signoria ad alcune persone, anche se degne della massima stima, sia una grossa scioc­chezza, ma il Visconti ha deciso così. Ad ogni modo, vi troverete domenica mattina, al sorgere del sole, nella chiesa di San Francesco e prima del tramonto dovrete comunicare la vostra decisione. Se qualcuno di voi non sarà presente, manderò a prenderlo con la for­za. Ripeto: sarete in tredici, domenica mattina, nella chiesa di San Francesco, non ho altro da aggiungere e che Dio vi aiuti”.

Il Rosso Bortolaia e Nicolò De Nadali si guardarono negli occhi; nessuno trovò la forza di parlare, ma era chiaro che le decisioni del Visconti li aveva messi di fronte ad una responsabilità enorme. Uscirono dal castello senza scambiare una parola fra di loro, era tale il groviglio dei pensieri che non riuscivano a trovare il modo di esprimere la loro impressione. Si salutarono al limite del ponte levatoio e ognuno si diresse verso la propria casa.

Il Rosso Bortolaia rientrò nella sua bottega, si tolse la giubba e si mise a lavorare in silenzio. Ma aveva netta la sensazione di tro­varsi di fronte ad un grosso dilemma. Lui conosceva bene le vicende della Mirandola e sapeva che, in fondo, tutti e due i rami della famiglia Pico avevano gli stessi diritti. Forse non era giusto dire che avevano identici diritti, ma certo diritti equivalenti. Anzi, lui aveva sempre pensato, in precedenza, che se tutti i sette Pico avessero governato insieme la Signoria le cose forse sarebbero an­date meglio per tutti. Perché non riuscivano a mettersi d’accordo?

È vero che sette galli in un solo pollaio erano tanti, ma i figli di Paolo erano alleati con i potenti Gonzaga di Mantova, mentre i fi­gli di Nicolò erano quasi figli adottivi dei Visconti. Con alleati così potenti, i Pico forse avrebbero avuto anche la possibilità di allarga­re, ai danni degli Estensi, il loro dominio verso San Felice, verso il Finale e anche verso Solara, con tutto il patrimonio dell’immenso bosco della Saliceta. La concordia fra parenti è molto importante, pensava il Rosso, e invece qui bisogna decidere, sicuramente an­che a nostro rischio. Siamo proprio in un bel guaio.

Il suono della campana di mezzogiorno della vicina chiesa di San Francesco lo distolse dai suoi pensieri. L’ultimo, quello più as­surdo, era stato più o meno questo: “io che non mi sono mai preoccupato di politica, adesso devo fare una scelta politica”. Ma intanto Filippo aveva smesso di lavorare e puntualmente dalla por­ta della scala apparve la figura della moglie che portava in bottega tre piatti di terracotta e la pentola della minestra. Una vecchia to­vaglia sdrucita fu posta da Filippo su un angolo del tavolo da la­voro e poi il ragazzo corse su in casa a prendere il pane. E tutti si sedettero a tavola. Contrariamente alle sue abitudini, quel giorno il Rosso Bortolaia non diceva una parola; anche la brevissima bene­dizione del cibo, questa volta, era stata recitata dal capofamiglia con aria assente. Matilde, la moglie, si accorse subito che qualcosa non andava.

“Cosa c’è, Francesco, hai dei lunari?”.

“No, nulla d’importante”, rispose lui, ma si capiva benissimo che non stava dicendo la verità. Matilde, da donna astuta, non eb­be né la voglia né il coraggio di insistere, tanto, la sera, a letto, avrebbe ridotto tutti i nodi al pettine della sua curiosità femminile.

Quella sera, infatti, il Rosso andò a letto presto. L’abitudine esti­va di restare seduto per un po’ di tempo davanti alla porta della bottega, magari per conversare con qualche amico del Borgo Fran­co, quella sera non venne rispettata. Ma dopo poco meno di un’oretta aveva già raccontato tutto alla moglie. Dentro di sé, maledisse per un attimo la sua condizione di uomo libero e quella improvvi­sa e inaspettata elezione a notabile della sua piccola città. Ma a questa città il Rosso voleva bene, per Mirandola aveva combattuto e sofferto, per la sua città aveva rischiato tante volte la vita. Perché a quei tempi Mirandola era un borgo di meno di mille abitanti, molti erano in condizioni di pratica servitù, lui, invece, artigiano di valore, era un uomo libero. Poi pensò che era meglio così, pensò a quei tanti poveri contadini che in pratica erano servi della gleba e non potevano lasciare la terra senza il permesso del padrone, pensò ai servitori che lavoravano nel castello, agli ordini dei Pico, senza paga, con la sola possibilità di chiedere un piatto di minestra e un pezzo di pane ai loro signori.

La moglie, con la disinvolta praticità tipica delle donne, gli sug­gerì l’ipotesi più logica:

“Fai come dicono gli altri dodici e se proprio devi scegliere, se il tuo parere diventa l’ago della bilancia, digli che non stai bene e torna a casa. Ma se proprio vedi che è impossibile lasciare la chie­sa, non ti resta che decidere a favore di quei quattro manigoldi ar­roganti che stanno qui alla Mirandola. Degni figli del tuo amico Paolo Pico, che ha ammazzato tanta gente innocente. Ma la Ma­donna ha visto giusto e lo ha fatto crepare di spada a Verona. Cen­to preti hanno portato le sue spoglie in San Francesco, ma forse erano cento diavoli travestiti da preti”.

La lunga rancorosa litania della moglie ebbe il gran merito di condurre il Rosso Bortolaia alle soglie di un sonno profondo ma inquieto, un sonno attraversato da strani incubi. Sognò di tutto, si svegliò, sudato, almeno una decina di volte. Quel venerdì notte fu un autentico calvario; e la moglie, dopo la lunga geremiade, russa­va tranquillamente.

Il giorno dopo, che era sabato, trascorse abbastanza tranquillo: il Rosso lavorò come un dannato per tutto il giorno, cercando di non pensare a quello che era successo e, soprattutto, a quello che doveva succedere. Fu tentato di recarsi alla casa di Nicolò De Nadali, per conoscere la sua opinione e anche per capire chi fossero gli altri undici giudici. Sperò anche che lo stesso De Nadali venisse nella sua bottega per consultarsi, per concertare una sorta di piano d’azione, ma nella vecchia bottega quel giorno non entrò nessuno. Anche il suo amico si era recato in campagna a far finta di lavorare.

Come Dio volle anche il giorno della vigilia trascorse le sue lun­ghe ore senza che nulla succedesse. Appena a letto, il Rosso Bortolaia si fece il segno della croce e dormì tranquillo per tutta la notte, forse per stanchezza, forse per una strana calma che si era insediata nel suo cervello: in fondo, ragionò prima di cedere al sonno, “saremo in tredici a decidere e il buon Dio ci aiuterà; qual­cosa di ragionevole salterà fuori”.

Quando le prime luci del giorno cominciarono ad illuminare la torre ancora diroccata del castello della Mirandola, il Rosso Bortolaia era già in piedi; la moglie gli aveva preparato il vestito buono, il Rosso lo indossò con calma, si fece il segno della croce e uscì di casa. Dopo pochi minuti era già sul sagrato della chiesa di San Francesco. Il capitano Possidoni era già in servizio, con una dozzi­na dei suoi uomini che controllavano le presenze dei tredici nota­bili della Mirandola.

In effetti, dopo una rapida conta, il capitano Possidoni ebbe il modo di constatare che c’erano già tutti. Erano infatti presenti Giacomo Brunoro, Francesco Margotti, Paolo Colle­vati, i fratelli Antonio e Bartolomeo Ferrari, Giovanni Antonio De Nadali e suo fratello Nicolò, Bernardo Della Manna, Matteo De Gazzi, Martino Ghisellini, Riccobono De Folli, Pellegrino De Negri e il nostro Francesco Bortolaia, detto il Rosso. Non ci furono pre­sentazioni o convenevoli, tutti si conoscevano ma tutti erano terri­bilmente tesi, nessuno aveva voglia di parlare. L’unico desiderio era quello di far presto e, soprattutto, di far bene, in ogni caso di togliersi il pensiero.

Il capitano Manfredo Possidoni li accompagnò fino all’interno della chiesa, li salutò con un semplice e forse ironico “buon lavo­ro”, poi uscì, sistemò i suoi armati davanti alla porta con un breve ma perentorio ordine: “Di qui nessuno entra e nessuno esce. Co­munque io resto qui con voi”.

All’interno della chiesa di San Francesco i tredici notabili della Mirandola si misero a sedere sui banchi rustici delle ultime due fi­le e nessuno ebbe il coraggio di portarsi verso l’altare maggiore. Dei frati francescani, in pratica i padroni della chiesa, nessuna trac­cia. Infatti erano stati vivamente “consigliati” di restare chiusi den­tro le loro celle.

Francesco Margotti, dopo un silenzio lungo e imbarazzante, fi­nalmente si decise a rompere il ghiaccio.

“Oh” disse con quella sua voce roca che assomigliava a quella di un uomo perpetuamente arrabbiato “qui dobbiamo decidere, purtroppo tocca a noi. O scegliamo quelli di Milano oppure questi della Mirandola. Speriamo soltanto che Sant’Ambrogio e San Possidonio ci mandino l’ispirazione giusta, perché noi non siamo santi ma loro sì, Dio voglia che ci possano illuminare e condurre verso la strada giusta”.

La citazione dei santi non sembrò convincere molto Martino Ghisellini, che non era conosciuto come un grosso frequentatore di chiese.

“Il padrone di Milano” fece osservare con fare puntiglioso “forse non sa nemmeno se la Mirandola esista e dove sia. Siamo noi che dobbiamo decidere e soprattutto siamo noi che dobbiamo fare una scelta difficile”.

Poco per volta ognuno spiegò la propria opinione, chi con frasi concise, chi invece con ampi e tortuosi giri di parole. Perché an­che sul finire del secolo XIV la terra era popolata da persone che amavano parlare molto, ma soprattutto ascoltarsi compiaciute. In­somma quasi tutti dissero parole ovvie, ma nessuno ebbe il corag­gio di schierarsi apertamente per gli uni o per gli altri candidati al governo della Signoria.

E di nuovo Francesco Margotti, quando ormai il sole già alto co­minciava a filtrare luminoso fra le grate delle finestre, si alzò quasi solennemente in piedi per dire, con il suo tono roco e perentorio che forse nascondeva un’intima insicurezza, che era giunto il mo­mento di decidere.

“Cominciamo un po’ a contarci” disse “e vediamo come si orienta questa assemblea”.

Bernardo Della Manna, visibilmente emozionato, si alzò in piedi e disse, avvalendosi della frase rituale in queste circostanze:

“Io la mia idea l’ho già, però se gli altri decidono diversamente non ho difficoltà ad adeguarmi. Secondo me, quelli che hanno maggiori diritti sono quelli di Milano, ho chiesto ad un mio amico notaio di studiare la faccenda e lui pensa che i “milanesi” abbiano qualche ragione in più rispetto a questi Pico della Mirandola. E poi non vorrei che il Visconti la prendesse per il verso sbagliato e fa­cesse irruzione qui nella nostra città per mettere le cose a posto secondo il suo parere. Però se la maggioranza, ripeto, è di parere diverso dal mio, io sono sempre disposto a mettermi d’accordo. Ma sentiamo gli altri”.

Uno alla volta parlarono tutti di nuovo e il Rosso Bortolaia, for­se memore dei consigli coniugali, si tenne per ultimo, non preve­dendo che i suoi amici e colleghi fossero di opinione equamente diverse. Infatti il primo vero giro d’orizzonte, in pratica, vedeva sei favorevoli e sei contrari. Terrorizzato, si accorse che forse toccava a lui essere il cosiddetto ago della bilancia. Prima di dire la sua opinione, che forse non esisteva ancora, pensò che non si doveva mai dare retta alle mogli, il cui ruolo – e questo era sempre stato il suo parere fin da giovane – andava bene per sole tre cose, e cioè fare all’amore, rammendare le calze e preparare il soffritto.

Il Rosso stava per parlare, finalmente, quando fu interrotto sul nascere da Pellegrino De Negri, un uomo al quale si attribuiva la caratteristica di parlare per due ore senza dire nulla. Ma agli effetti della decisione, nulla era cambiato, la situazione restava sempre ancorata ad una sorta di instabile e aleatorio equilibrio.

Conclusa finalmente l’interminabile quanto inutile litania di Pel­legrino De Negri, che aveva cominciato da Adamo ed Èva, passan­do ovviamente per Romolo e Remo, Francesco Margotti, che si era attribuito il ruolo di moderatore del dibattito, si rivolse al Rosso Bortolaia per chiedergli in modo perentorio:

“E tu cosa dici?”.

Il Rosso sperava soltanto che questo momento non arrivasse mai, ma a questo punto non poteva più evitare l’espressione del suo parere.

Si alzò lentamente dal suo banco, tossì, si passò lentamente la lingua sulle labbra e poi con tono quasi solenne cominciò a dire:

“Io ho riflettuto molto su questa nostra scelta e sono del parere che…”.

Un rumore secco e violento lo interruppe, con una specie di schianto la porta della chiesa si spalancò d’improvviso e quattro uomini armati entrarono senza troppi complimenti nell’edificio sa­cro. La sorpresa durò soltanto un attimo, perché fu molto facile per tutti riconoscere i quattro fratelli Pico, quelli che abitavano nel castello. Avevano un’aria per nulla rassicurante, gli si leggeva in volto una grande decisione e soprattutto un atteggiamento minac­cioso. Il più vecchio dei quattro fratelli, Francesco, salutò con finta cortesia e disse, con grande capacità di sintesi:

“Buongiorno a tutti, noi sappiamo che voi tredici signori state decidendo le sorti della nostra città e noi saremo i primi a rispetta­re e onorare la vostra decisione. I vostri diritti sono sovrani e noi non esiteremo a prenderne atto. Vogliamo soltanto avvertirvi che se la decisione non sarà a nostro favore, nessuno di voi uscirà vivo da questa chiesa. Vi ammazzeremo tutti e tredici. Però questo è un luogo sacro e noi, da buoni cristiani, non verseremo una goccia del vostro sangue, riteniamo più giusto strangolarvi tutti e affidarvi alla sacra benedizione dei frati. Avete capito? O scegliete a nostro favo­re o vi strangoliamo, tutti. Avete un’ora di tempo per decidere”.

Senza aggiungere una parola i quattro fratelli Pico, Francesco, Tommasino, Spinetta e Prendiparte, uscirono dalla chiesa. È facile immaginare lo stupore e la paura dei tredici notabili. Per dieci mi­nuti nessuno ebbe il coraggio di aprire bocca, con i cuori in tu­multo, per un senso di rabbia impotente.

Ma come al solito, fu Francesco Margotti e riprendersi per pri­mo e, rivolgendosi con un pizzico di malizia al Rosso Bortolaia, chiese:

“Cosa stavi dicendo?”.

Il Rosso non ci pensò un attimo e con molta calma affermò:

“Il mio parere è quello di scegliere i quattro fratelli Pico della Mirandola”.

“Crediamo proprio che tu abbia ragione”, dissero, unanimi, gli altri dodici.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Racconti Mirandolani

Edizioni Bozzoli – Anno 1999

Il dipinto è del mirandolese Aleardo Cavicchioni

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