I Santi de “Al Barnardon” dal 24 al 30 luglio

I Santi de “Al Barnardon” dal 24 al 30 luglio

23 Luglio 2017 0

24  luglio

Il Beato Giovanni Tavelli nacque a Tossignano di Imola (BO), nel 1386, in una data tra il 28 luglio e la fine dell’anno. Giovane universitario a Bologna interruppe gli studi giuridici per entrare nell’ordine pauperistico dei Gesuati.Assiduo alla preghiera, alla penitenza, agli studi sacri, ben presto divenne sapiente guida del popolo, di anime elette e persino di Pontefici. Fu nominato Vescovo di Ferrara il 28 ottobre 1431. Svolse un’intensa attività pastorale visitando la diocesi sei volte. Tradusse e compose opere di carattere biblico ed ascetico.Partecipò ai Concili di Basilea (1433) e di Ferrara-Firenze (1438) per l’unione dei cristiani. Fu eroico apostolo durante la peste e salvò miracolosamente la sua città da un’innondazione del Po. In collaborazione coi marchesi d’Este fondò l’Arcispedale S.Anna nel 1443. Morì a sessant’anni, il 24 luglio 1446, consumato dallo zelo, dalle penitenze e ancor più dall’intenso amore di Dio e delle anime.

25  luglio

Detto il Maggiore (per distinguerlo dall’omonimo apostolo detto il Minore), s. Giacomo figlio di Zebedeo e Maria Sàlome e fratello dall’apostolo Giovanni Evangelista, nacque a Betsàida. Fu presente ai principali miracoli del Signore , alla Trasfigurazione di Gesù sul Tabor e al Getsemani alla vigilia della Passione. Pronto e impetuoso di carattere, come il fratello, con lui viene soprannominato da Gesù «Boànerghes» (figli del tuono). Primo tra gli apostoli, fu martirizzato con la decapitazione in Gerusalemme verso l’anno 43/44 per ordine di Erode Agrippa. Il sepolcro contenente le sue spoglie, traslate da Gerusalemme dopo il martirio, sarebbe stato scoperto al tempo di Carlomagno, nel 814. La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi medioevali, tanto che il luogo prese il nome di Santiago (da Sancti Jacobi, in spagnolo Sant-Yago) e nel 1075 fu iniziata la costruzione della grandiosa basilica a lui dedicata.

26  luglio

Secondo la leggenda, San Glisente era definito come un cavaliere franco (Glisentus gallicus miles) di nobili origini, vissuto nell’VIII secolo. Egli sarebbe giunto in Valle Camonica al seguito dell’imperatore Carlo Magno dopo aver lasciato ai poveri i beni ereditati dalla sua famiglia, in quanto convinto di dover restare nell’esercito per tutta la vita e quindi nell’impossibilità di ritornare nella sua terra. Glisente non era però solo e seguiva il suo comandante insieme al fratello Fermo e alla sorella Cristina. Sembra che i due fratelli, al seguito di Carlo Magno fin dalla loro adolescenza, non fossero molto religiosi. Erano invece armati di molto coraggio, tanto da distinguersi in diverse battaglie. Proprio per questo erano stimati e apprezzati tra i militari. La sorella, invece, si era convertita al cristianesimo già in età adulta e da tempo seguiva i fratelli per curare le ferite e le contusioni che si procuravano negli scontri, sempre nella speranza di riuscire a far abbracciar loro la sua stessa fede cristiana. Dopo aver percorso tutta la Valle Camonica combattendo, Glisente iniziò a sentire il peso degli orrori della guerra e implorò Re Carlo di lasciarlo libero. Il sovrano, proprio in nome della sua fedeltà e dei suoi meriti accolse, anche se a malincuore, la sua richiesta e lo salutò definitivamente. Fu allora che i tre fratelli decisero di scendere verso la media valle, in una zona che avevano già attraversato. Mentre la sorella Cristina terminava di curare le loro ferite, i tre parlarono a lungo e fu proprio in questo periodo che anche Glisente e Fermo decisero di abbracciare la fede cristiana e di ritirarsi in montagna come eremiti, per pregare fino alla morte. Scelsero tre luoghi diversi e lontani tra loro, che in seguito vennero chiamati con i loro nomi. Glisente salì su un monte di Berzo Inferiore, Fermo su uno di Borno e Cristina sul territorio di Lozio, nella zona della Concarena. Si abbracciarono un’ultima volta, sicuri di non vedersi più su questa terra, e si promisero di accendere un falò ogni sera, per confermare l’un l’altro che erano ancora vivi. Per fare in modo che entrambi i suoi fratelli capissero, Glisente avrebbe dovuto accendere due fuochi dato che, per la conformazione orografica del territorio, essi non sarebbero stati in grado di comunicare direttamente tra loro. Se qualcuno non avesse acceso il falò, gli altri avrebbero capito che era subentrata la morte. Questa vita continuò per molti anni ed anche i valligiani si abituarono a vedere quei fuochi che tenevano uniti i tre fratelli lontani. Glisente, ritiratosi in una piccola grotta proprio sulla cima della montagna, viveva di erbe e radici che trovava nei pressi del suo eremo. Ma il Signore, che sentiva le sue preghiere e conosceva la sua vita frugale di penitente, gli mandò un’orsa a portargli rami di frutti e una pecora che si lasciava mungere e gli regalava il suo latte. Trascorsero così molti anni e i tre eremiti invecchiavano in solitudine. Solo al calar della sera, mentre curavano i loro grandi fuochi, si rallegravano nel vedere accesi anche quelli dei fratelli e ringraziavano Dio per aver concesso loro ancora una giornata in cui avevano potuto comunicare tra loro. Poi, una sera, Glisente attese a lungo di vedere il falò di Cristina ma col trascorrere delle ore capì che la sorella era morta. Il primo fuoco delle montagne si era spento per sempre. Poiché sul monte di Berzo ne era stato acceso uno solo, anche Fermo comprese che la vita di Cristina era giunta al termine. Dopo un po’ di tempo, il 6 agosto del 796, toccò anche a Glisente, seguito a breve distanza da Fermo che, vecchio e malato, era assistito secondo la leggenda da un’aquila e da un’orsa che gli portavano legna, radici commestibili e favi di miele. Si racconta che Glisente, dopo la morte, sia stato trovato da alcuni pastori saliti sulla montagna con il gregge. Questi avevano notato un fatto molto strano: una colomba che portava ramoscelli e foglie sopra la grotta in cui era vissuto l’eremita. Incuriositi, si avvicinarono e trovarono il suo corpo intatto, come se fosse ancora vivo. Lo seppellirono così nello stesso luogo che il santo aveva scelto come sua dimora.

27  luglio

Beato Novellone (Nevolone) nacque a Faenza (Ravenna) verso il 1200 ed ivi morì a il 27 luglio 1280. Probabilmente esercitava qui la professione di calzolaio, poiché nel 1331 è venerato come patrono dai ciabattini di quella città. Fu certamente fratello della Penitenza del Terz’Ordine francescano e condusse un’esistenza austera, dedicandosi all’ascesi e alla preghiera. Secondo una cronaca contemporanea si recò undici volte in pellegrinaggio a San Giacomo di Compostella. La sua fama di santità era tale che, fin dall’indomani della sua morte, gli abitanti e il clero di Faenza portarono il suo corpo in processione alla cattedrale, dove fu sepolto. Ben presto si verificarono numerosi miracoli sulla sua tomba che fu visitata da molti, come attesta la presenza di un custode particolare fin dal 1282. Nel 1351 si fa menzione di un altare dedicato al beato nella cattedrale. Il culto è stato confermato da Pio VII il 4 giugno 1817.

28  luglio

Fino alla precedente edizione del ‘Martyrologium Romanum’, s. Serena, presunta sposa dell’imperatore Diocleziano (243-313) era inserita come celebrazione al 16 agosto, come in precedenza l’aveva inserita Adone († 875) arcivescovo di Vienne, nel suo ‘Martirologio’ e di seguito nei Martirologi successivi, fino al ‘Romano’ sopra citato. Nell’odierna edizione, essa non è più menzionata, il perché scaturisce dalla grande incertezza che la riguarda come sposa di Diocleziano, infatti Lattanzio (Lucio Cecilio, III-IV sec.) scrittore latino cristiano che visse al tempo ed alla corte di Diocleziano, afferma nel suo “De mortibus persecutorem” che la moglie e la figlia si chiamavano Prisca e Valeria e che furono costrette a fare riti pagani. Mentre i leggendari “Atti” di s. Marcello e di santa Susanna, parlano invece di un’imperatrice di nome Serena, moglie di Diocleziano, che intervenne per difendere i cristiani dalla persecuzione scatenata dal marito, la decima e la più violenta. Evidentemente il suo intervento fu proficuo, riguardo il termine della persecuzione, perché nel 305 Diocleziano abdicò e si ritirò a Spalato. Probabilmente dall’antichità, venne considerata per questo, una figura santa da venerare, senz’altro con evidente esagerazione.

29  luglio

Nato a Toul, in Alsazia, intorno al 383, Lupo si fece monaco nell’abbazia di Lèrins dopo aver distribuito ai poveri tutti i suoi beni. Eletto vescovo di Troyes nel 426, difese la città dalla furia devastatrice degli Unni e combatté strenuamente il dilagante clima eretico. Il martirologio romano nel ricordo romano ne ricorda la «deposizione» il 29 luglio, giorno in cui la Chiesa beneventana ne ha sempre celebrato la memoria. Il culto di san Lupo, in Benevento e nella sua diocesi, risale almeno al IX-X secolo.

30  luglio

Primo vescovo di Assisi e martire, san Rufino è il patrono principale della diocesi umbra e a lui è dedicata la Cattedrale fin dalla prima metà del XI secolo. Una «passio» del IX secolo racconta che Rufino, vescovo della città di Amasia nel Ponto, dopo aver convertito il proconsole, sarebbe arrivato con suo figlio Cesidio nella regione dei Marsi nell’Abruzzo. In questa zona avrebbe consacrato una chiesa e dopo proseguì per predicare il Vangelo ad Assisi. Qui venne scoperto dal proconsole Aspasio che, dopo averlo sottoposto a diversi supplizi, lo condannò a morte perché cristiano. Rufino morì gettato nelle acque di un fiume con una pietra legata al collo. Un’antica tradizione indica come luogo del martirio il paese di Costano che ora fa parte del Comune di Bastia Umbra, sulla riva del fiume Chiascio. Il corpo del martire venne trasportato da Costano ad Assisi, proprio nel luogo dove sorge la Cattedrale.

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