Fotogrammi ingialliti – La vita nella Bassa Modenese negli anni 50 e 60
L’autore del libro “Claudio Malagoli”(nato a Medolla nel 1956, laureato in Scienze Geologiche ed autore con Mons. Francesco Gavioli di : Medolla ed il suo Territorio Comunale-Ecclesiastico 1996 – Centro Studi Storici Nonantolani ) traccia un intenso affresco “amarcord“, riportandoti con i suoi ricordi alla fine degli anni cinquanta nella campagna della Bassa Modenese.
Pubblichiamo con piacere un racconto, invitando i nostri lettori all’acquisto del libro.
La bottega in cui mio padre lavorava era piuttosto stretta ma era un sogno meraviglioso che la mia famiglia era riuscita a realizzare riservando due stanze nella casa appena acquistata e ristrutturata.
Nella grande porta a due ante mio padre aveva installato i vetri e due scuretti protettivi che toglieva al mattino al fine di ottenere una buona luminosità per lavorare e rimontava alla sera per chiudere il laboratorio. Tutto lo sforzo economico possibile era stato fatto per la casa perciò quello che serviva nel lavoro doveva essere costruito internamente, scaffali, banco e parecchi attrezzi compresi. Al centro, un grosso e robustissimo bancone di legno con morsa da legno, ferro di “fermo” per piallare, ripiano sottopiano per gli attrezzi e zona a terra chiusa su tre lati per contenere i rìs, i trucioli che avrebbero avuto un uso specifico.
Alcune lunghe ferie (chiodi enormi fabbricati in ferro battuto) ben piantate nel muro sostenevano le numerose seghe a mano con le lame diversificate a seconda del taglio che si doveva fare, squadre, compassi, corde e ogni altro attrezzo che potesse essere appeso. Un piccolo ma grazioso armadietto, costruito con ogni tipo di legno inutilizzato, conteneva gli utensili più preziosi e importanti che meritavano tutta la cura possibile: ipialletti e gli scalpelli.
Ora, è doveroso che io dica che mio padre non era il normale falegname comunemente inteso. Certo, capitava di costruire mobili, armadi e ogni altro componente dell’arredamento delle abitazioni ma, normalmente, egli costruiva bare, casse da morto. Sempre di legno sono e per chi come me ci cresce intorno, le vede costruire, ci gioca intorno e a volte anche dentro, non nota alcuna diversità con ogni altro oggetto costruito.
Dopo anni di lavoro “sotto padrone”, finalmente, poteva costruire prodotti in cui esprimere le proprie capacità artistiche a costo delle fatiche e delle innumerevoli ore richieste. Tante sere al lavoro dopo cena fino a tardi per finire una consegna. Non vi sembri strano, ma quasi metà della settimana di lavoro che serviva per fabbricare una bara serviva alla decorazione con incisioni delle tavole che la componevano. Arabeschi di ogni sorta, splendidi disegni e bellissime immagini sacre in bassorilievo e cornici di abbellimento fatte con grande abilità ed esperienza anche su legni che non si prestavano affatto ad essere incisi per le robuste vene ed i nodi che presentavano.
Aveva seguito un breve corso per lavorazioni artigianali e di disegno ma in lui era innata la capacità artistica alla quale applicare l’esperienza del lavoro manuale quotidiano. Un gran numero di sgorbie e scalpelli ripetutamente battuti dal palmo calloso della mano o dal mazzuolo di legno fino a consumare i robusti manici di legno. La mola a pedale, fatta con un telaio da bicicletta rotto, serviva per arrotare gli scalpelli ed i coltelli dei pialletti che sarebbero successivamente passati innumerevoli volte sulla pietra affilatrice per assicurare un taglio perfetto.
Due contenitori di legno, a settori per separare i chiodi e le viti delle diverse misure, il martello, la tenaglia ed il metro stazionavano quasi costantemente sul banco. Anche per la mia giovane età, io non vedevo oltre l’oggetto che veniva costruito e osservavo stupito le splendide decorazioni che venivano fuori da quelle ruvide assi di legno. Verniciate e lucidate, completate da maniglie e immagine sacra in ottone sul coperchio venivano completate internamente con una imbottitura di seta viola riempita dei trucioli di legno precedentemente conservati durante la lavorazione.
Nella stanza collegata con la bottega un paio di robusti scaffali conteneva alcune opere pronte che mio padre teneva assortite nel tipo di legno e nella misura al fine di poter far fronte alle improvvise emergenze. Proprio perché il servizio doveva essere garantito sempre, era necessaria la reperibilità di mio padre per cui si recasse al cinema, al bar o in qualsiasi luogo, doveva lasciarlo detto a casa per poter essere chiamato
La consegna avveniva col cariolino, spinto a mano o trainato dalla bicicletta, su cui la bara veniva coperta con un grosso telo grigio e fissata per bene con corde robuste. Quando si vive in un ambiente non si fa caso a quello che esternamente appare e, se per molti il solo parlarne faceva “immergere profondamente le mani al fondo delle tasche”, io con quei mobili ci giocavo e non mi spaventava affatto stendermi dentro; non erano altro che casse di legno. Il lavoro era duro e faticoso come quasi tutti i mestieri dell’epoca. Tutto era frutto di forza e ogni operazione costava fatica e sudore. Si badi bene che parlo del 1955 ed i fori erano fatti col trapano a mano, i tagli con seghe e seghetti a mano, pialle e pialletti di ogni genere e dimensione spinti e tirati decine e decine di volte a mano, lime e sgorbie manuali, carta vetrata da passare con un tampone di legno per rifinire manualmente ogni parte, lucidature che richiedevano ore e ore di attento quanto costante sfregamento.
Lucidare “a spirito” con anilina era poco gradevole solo per l’odore ma “tirare a lucido” un mobile con la cera lacca sfregando con forza il tampone della pomice per ore, badando a uniformare tutta la superficie, specialmente se la stagione non aiutava, era un’impresa veramente ardua e ci voleva tanto “sugo di gomito”. In un angolo del locale c’era una piccola stufetta rotonda di ferro con coperchio di cerchi in ghisa su cui stazionava sempre il pentolino della colla. Era chiamata “colla di pesce”, l’odore lo garantiva, per l’origine che aveva e si presentava a piccole lastre rigide resinose, quasi vetrose, che spezzate e sciolte al caldo si trasformavano in un efficacissimo adesivo. Un angolo della bottega era totalmente occupato dal legname, tavole, travetti, assicelle e rigotti in gran quantità di cui mi appropriavo spesso per giocare badando bene di riportarli sempre al loro posto a gioco finito
Nulla poteva essere scartato perché prima o poi sarebbe stato utilizzato e, nel frattempo, io avevo una infinita scorta di materiale con cui giocare, costruire e fantasticare. Ho ancora negli occhi e nel cuore l’immagine di mio padre che al mattino toglie gli scuretti dalla porta, si mette il piccolo grembiule per proteggere i pantaloni dalla resina e, accendendosi la prima sigaretta, comincia sereno una faticosa giornata. Alcuni visitatori abituali venivano per chiacchierare un po’ e, sebbene non interrompesse mai il suo lavoro, a mio padre faceva piacere la loro compagnia. Ecco, nella mia innocenza giovanile, non ricordo differenze sostanziali tra la bottega di mio padre e quelle dei falegnami che visitai con lui. Naturalmente i mobili costruiti erano di tutt’altro genere, i metodi di lavoro forse diversi, le esperienze certamente diversificate ma l’atmosfera, gli odori, i suoni erano gli stessi. Gli anni del boom economico, gli anni sessanta, portarono materiali lavorati a macchina a costi inferiori. Le pompe funebri divennero vere e proprie agenzie in cui veniva assicurato ogni servizio, carro funebre compreso, ed i piccoli artigiani, come mio padre furono costretti ad abbandonare l’attività per l’impossibilità economica di investire e l’insicurezza delle entrate. La tendenza del progresso economico a rendere la vita impossibile alle piccole iniziative è tuttora in atto, troppe volte indifferente a salvaguardare l’inventiva, il valore artigianale, artistico e la radice culturale da cui deriva.
Tratto da “Forogrammi Ingialliti” Claudio Malagoli – Edizioni Artestampa – anno 2011