Bruno Andreolli – Le zanzare della Bassa
L’onnipresenza dell’acqua nella bassa pianura modenese dei secoli passati rappresentò senz’altro un bene di grande valore sotto il profilo economico-produttivo. Pesci, crostacei, rane, selvaggina di palude, canne, riso, lino, canapa: tutto un mondo animale e vegetale preziosissimo ruotava attorno all’acqua ricca dispensa quotidiana per gli uomini.
Di questo mondo facevano parte, come tuttora, anche se in misura del tutto diversa, le zanzare.
A proposito della presenza diffusa di questo fastidioso insetto nelle terre della Bassa, si può ricordare che tra gli insediamenti menzionati nell’Itinerarium Antonini, una specie di guida stradale del III-IV secolo dopo Cristo, è menzionata Colicaria, situabile poco a Nord di San Felice sul Panaro e il cui nome deriva probabilmente del latino cuìex, che significa appunto zanzara.
Altrettanto significativa a riguardo la visita pastorale compiuta dal vescovo di Reggio nel maggio 1664 a Gavello, le cui fameliche zanzare costrinsero l’intera delegazione ad una precipitosa fuga.
Non si deve però credere che gli uomini del tempo non conoscessero antidoti contro la puntura delle zanzare, che venivano allontanate spalmandosi sul corpo assenzio (un’erba amarissima appartenente alla famiglia delle Composite) cotto nell’olio.
Decisamente impreparati si era invece allora nel combattere la malaria, inoculata nell’uomo dalla zanzara anofele.
Tutti i ceti sociali ne erano colpiti, tant’è che il duca Alessandro II Pico fece costruire il casino della Fossa (terminato nel 1683) perché ivi la duchessa potesse curarsi dalle febbri terzane, che sono appunto febbri provocate dalla malaria. C’erano tuttavia delle professioni maggiormente a rischio come quella del ranaro ed è certamente ad un attacco di malaria che allude Quirino Molinari di S. Biagio in Padule, di professione ranaro, quando nel suo diario ricorda che il 5 settembre del 1852 fu colto da “uno forte febbre con gran doglia di capo, e ciò fu il principio di una grande malattia di giorni 35 di letto, ma questa venne preceduta da un mese di febbri quartane, le quali furono da me strapazzate perché andavo a pescare rane medesimamente: il male dunque s’impossessò in modo che si dovette dubitare nella vita”. Non ci si deve sorprendere se il Molinari, per così dire immunizzato dalla frequentazione di stagni, canali e paludi, si salvò.
E’ infatti accertato che in queste zone, come in tutta la Romagna, i plasmodi trasmessi dall’anofele erano per lo più il Plasmodium vivax, il Plasmodium ovale e il Plasmodium malariae, che presentavano una evoluzione quasi sempre benigna della malattia e rare complicazioni. Quella padana fu dunque una malaria, per così dire, piu mite, da non confondere con le analoghe infezioni malariche della Maremma toscana o dell’Agro Pontino, dove invece ad essere trasmesso era il Plasmodium Falciparum, che allora, in assenza di terapie efficaci, portava quasi sempre al decesso.
Come è noto, la sconfitta della malattia si dovette soprattutto al progresso delle conoscenze mediche, ma un peso notevole per debellare il morbo lo ebbero le bonifiche, che in particolare nel corso del Novecento eliminarono gran parte delle terre acquitrinose e malariche.
E ciò testimonia l’importanza che anche sotto il profilo sanitario detiene sempre una gestione corretta del territorio e delle risorse ambientali.
Preoccupazione ben presente agli antichi prìncipi, come conferma un chirografo estense del 1783, nel quale Ercole III notificava alla comunità di Mirandola: “Informati Noi pienamente delle perniciose conseguenze, che derivano dalle fosse circondanti la nostra città della Mirandola, e delle acque quasi stagnanti in esse, che ne rendono l’aria insalubre e nociva, e premurosi di provvedere alla salute ed alla conservazione di quella parte de’ nostri sudditi, ci determinammo già di far disseccare, ed interire anche con discapito delle rendite del nostro erario le fosse istesse, e ne commettemmo la direzione al nostro Consiglio d’economia sotto quelle regole e prescrizioni che giudicammo confacenti all’intento”.
Tratto da: Acquerelli Mirandolesi – Tracce di vita quotidiana nelle terre dei Pico.
Autore: Bruno Andreolli
A cura dell’Associazione Mogli Medici Italiani – Sezione di Mirandola
Anno 2012