Armelina dai “Ladri Occhi”

Armelina dai “Ladri Occhi”

22 Marzo 2020 0

Quando nella primavera del 1522 padre Gerolamo Armellini da Faenza, dell’ordine dei Domenicani, giunse alla Miran­dola per la propria delicata missione, credette subito di es­sere arrivato nella città di Sodoma e Gomorra, tanto imperanti era­no, come tutti dicevano, la lussuria e l’eresia che regnavano sovra­ne su queste terre.

I suoi primi giorni di permanenza alla Mirando­la furono giorni di studio, in attesa che arrivassero anche i suoi di­retti collaboratori, e cioè padre Luca Bettini, fiorentino e già intran­sigente collaboratore e seguace di Gerolamo Savonarola, e il frate bolognese, pure domenicano, Leandro Alberti, noto soprattutto co­me uomo di lettere. Questi giorni di osservazione dell’ambiente convinsero padre Armellini che in questi luoghi apparentemente tranquilli serpeggiava un clima particolarmente ricco di streghe e di stregoni, di eretici che preferivano seguire i dettami del Maligno piuttosto che quelli di Dio. “Qui c’è molto da fare”, sussurrava ogni tanto, sfregandosi le mani dall’intima soddisfazione.

Perché padre Gerolamo Armellini da Faenza, non era un perso­naggio di poco conto: era infatti giunto nelle terre dei turbolenti Pico su precisa e dettagliata richiesta del signore del luogo, il con­te Giovan Francesco II Pico, il quale aveva chiesto l’intervento del­la Santa Inquisizione nel tentativo di arginare, meglio ancora soffo­care, il fenomeno della stregoneria, fin troppo diffuso in questo angolo della Lombardia, come allora si diceva. Il monaco faentino era infatti l’inviato dell’Inquisizione, con competenza assoluta e illi­mitata per le diocesi di Parma e Reggio. E a quei tempi le terre della Mirandola facevano parte della diocesi reggiana.

Ma cosa stava succedendo, in realtà, in queste terre della Signo­ria dei Pico? Ad un primo esame – pensava fra Gerolamo – sem­brava proprio che qui accadesse un po’ di tutto, faccende molto strane ed oscure. Nelle ville e nel contado, infatti, soprattutto di notte, capitavano cose che non potevano lasciare indifferente il si­gnor Conte della Mirandola, che pure era uomo intelligente e tolle­rante, e la Santa Inquisizione, resa ancora più integralista dopo gli avvenimenti di Germania e le follie di un certo Martin Lutero.

Si raccontava di misteriosi e terribili riunioni notturne sulle rive del fiume Secchia, convegni molto affollati, tanto che si accennava alla presenza di duemila persone, nel corso dei quali si effettuava­no strani riti, contrassegnati dalla più oscena trasgressione, sia nel cibo che nel vino e nel sesso. Riunioni popolate di streghe, con te­ste di animali tagliate e offese ai simboli della religione cristiana. Queste streghe, talvolta ubriache e spesso discinte, organizzavano le loro notti bollenti all’insegna dello slogan: “Mangiamo, beviamo e facciamo l’amore”. Che, come programma, non era poi così trop­po fuori dagli schemi dell’edonismo.

Ma la gente aggiungeva altri terribili particolari, perché si mor­morava di riti osceni ai quali prendevano parte gli adepti di un ri­tuale che nei racconti dei contadini e dei borghigiani timorati di Dio veniva definito semplicemente come “il corso”, oppure, assai più misteriosamente, come il “giuoco della Donna, quel tanto mal­vagio, scelerato e maledetto giuoco della Donna”, come più tardi racconterà padre Leandro Alberti, divenuto, forse suo malgrado, una sorta di addetto stampa del Tribunale dell’Inquisizione. Ma pa­re si facesse un po’ di tutto, in quelle notti stregate al lume della luna compiacente.

Tuttavia la scelleratezza massima di quelle notti torbide e in­quietanti stava nel fatto che il punto saliente di queste vicende mi­steriose (ma non troppo) e di queste riunioni notturne era il culto del demonio, al quale si facevano sacrifici, e di questa fantomatica Donna che gli faceva da complice e da ruffiana, attirando verso il peccato gran numero di persone. Che giungevano non solo dalla Mirandola, ma anche da Carpi, da Concordia e dal vicino Mantova­no.

Padre Gerolamo Armellini, già esperto di queste storie, si era ben presto reso conto che l’elemento unificante delle grandi feste notturne era una sorta di culto verso il diavolo, per il quale i par­tecipanti sembravano rinunciare alla loro fede cristiana, oltre tutto sottolineando la loro pratica eretica con gesti abominevoli che, in particolare, esprimevano disprezzo per l’ostia consacrata e gli altri simboli della fede cristiana, come la croce. Insomma, pareva pro­prio che nelle campagne mirandolesi e dintorni furoreggiasse una sorta di eresia stregonesca e diabolica.

“Qui c’è parecchio da fare”, diceva fra di sé padre Gerolamo Ar­mellini e, dopo avere accolto nella sede che lo ospitava, cioè il convento dei domenicani della Madonna di Via di Mezzo, i suoi collaboratori Luca Bettini e Leandro Alberti, si mise subito al lavo­ro. Dimostrando in breve tempo le sue caratteristiche peculiari e cioè un’estrema durezza che sfiorava la crudeltà mentale, uno spietato senso del dovere e qualche percettibile frammento di fe­roce sadismo. Il frate faentino pareva felice delle sofferenze altrui e certo non voleva essere da meno di alcuni suoi colleghi inquisi­tori, come frate Giorgio da Casale, operante con grande rigore nel­le diocesi di Piacenza, Cremona e in altre terre della bassa Lombardia, oppure come frate Girolamo da Lodi, responsabile delle massicce e crudeli repressioni in Val Camonica del 1518, o infine come padre Bartolomeo Spina, attivo nelle diocesi di Modena e Ferrara, a sua volta molto severo.

Per farla breve, in poche settimane padre Gerolamo Armellini da Faenza, che oggi potremmo chiamare, per il suo spietato impe­gno, un romagnolo di turno nei nostri territori, fa arrestare dai gendarmi del Conte Giovan Francesco II Pico una settantina di persone, uomini, donne e preti. E il padre domenicano interroga per lunghissime ore tutte queste persone accusate di stregoneria e di eresia, con estremo rigore e senza troppi complimenti. Chi con­fessa subito le sue colpe, cioè chi si proclama reo confesso, viene condannato in modo assai sollecito e affidato al braccio secolare, non senza qualche salutare tratto di corda, ovvero qualche oretta di tortura, procedimento che non guasta mai e fa sempre bene alla salute. Chi invece resiste e nega ogni colpa viene scrupolosamente torturato fino alla confessione finale e poi a sua volta consegnato alle truppe del Conte, mentre quei pochi arrestati contro i quali non si ravvisano colpe specifiche vengono liberati, dopo qualche tortura, per non dimenticare, oppure affidati alle prigioni mirandolesi per un periodo più o meno breve. E le prigioni del castello della Mirandola non erano certo un albergo a cinque stelle. Come si può vedere ancora oggi.

Resta il fatto storico, comunque, che una dozzina di persone, tra il 1522 e il 1525, vengono condannate a morte senza appello e il loro affidamento alle “fiamme purificatrici” dei roghi avviene sul­la pubblica piazza della Mirandola, destino comune a uomini, don­ne e sacerdoti. Nulla di strano per quei tempi, forse, se non l’orro­re di questi roghi e queste brutali esecuzioni, molto spesso sanzio­nate senza troppe prove a carico. Inoltre la stranezza sta nel fatto che a queste esecuzioni sulle fiamme assistono migliaia di perso­ne, uomini e donne, bambini compresi, le quali hanno sempre di­mostrato di gradire molto lo spettacolo, oltre tutto gratuito. Le esecuzioni erano disposte a mo’ di esempio per tutti i cittadini ed era­no anche annunciate al popolo con un congruo anticipo, in modo che tutti potessero assistervi. Era considerato un divertimento sano, educativo e ammonitore e una delle poche cose gratuite che ve­nissero offerte al popolo.

Ma tutte queste cose sono abbastanza note, fanno parte integra­le della storia della Mirandola, ma sembra giusto offrire qualche particolare in più su uno dei personaggi che hanno dato lustro, al­la loro sfortunata maniera, alla feroce repressione anti-stregoneria della Mirandola cinquecentesca, una repressione tanto pesante e feroce da costringere, ad un certo punto, lo stesso Signore della Mirandola a rinunciare al prezioso contributo della Santa Inquisi­zione. Forse Giovan Francesco II Pico temeva che i coscienziosi padri domenicani gli decimassero la popolazione, tanto era il loro rigore, anche se il divertimento collettivo dei roghi in piazza sem­brava essere una buona azione promozionale per l’immagine della Signoria.

E allora, lasciando alla storia il suo corso, si vorrebbe qui rac­contare l’incredibile vicenda di don Benedetto Berni, uno dei condannati a morte, e della sua misteriosa e fantomatica amante, la splendida e conturbante Armelina.

Don Benedetto Berni, sacerdote di 72 anni, originario di Camurana (oggi frazione del comune di Medolla) e ordinato sacerdote dal Vescovo di Modena, era, secondo i racconti popolari di quel tempo, un arzillo e anzianotto sacerdote con abitudini lievemente trasgressive, un po’ troppo trasgressive per quell’epoca corrotta. Soprattutto da quando, poco prima dei suoi cinquant’anni, aveva deciso di rinunciare all’attività pastorale e di andare a vivere alla Mirandola.

Di lui, in apparenza tranquillo sacerdote di campagna ormai in pensione, oltre tutto dotato di un discreto patrimonio personale che gli consentiva di vivere di rendita, si raccontavano, anzi si sus­surravano, vicende incredibili sul versante della stregoneria, con non poche concessioni anche all’eresia e alle azioni blasfeme e sa­crileghe. E non a caso era stato uno dei primissimi personaggi a fi­nire nel mirino di padre Gerolamo Armellini e a cadere nelle sue grinfie onnipotenti. Forse non sapendo ancora che nelle vicende torbide, il frate domenicano ci sguazzava con infinito piacere.

Ma prima di dare un’occhiata alle vicende e alle molte colpe di don Benedetto Berni, sembra giusto e anche più stimolante dare uno sguardo, almeno con la fantasia, alle molte grazie di quella che era considerata la sua amante, anche per renderci conto di quanto potevano essere assurde e pretestuose, fuori dalla realtà, le presunte responsabilità attribuite agli eretici stregoni della Miran­dola in pieno Cinquecento.

Armelina – a detta di tutti – era giovane e bellissima, una ragaz­za di insolito quasi diabolico splendore: le cronache e i documenti del tempo la fotografano così: “era bella di faccia, colli ladri occhi e con il giocondo volto”. Poche parole, che dicono tutto di questa “bellissima diavola”, amante riconosciuta di don Benedetto Berni, ma impossibile da punire. Perché era una diavola, diretta discen­dente del demonio, invisibile a tutti, tranne che a don Benedetto e alle persone che le erano simpatiche o che professavano il mestie­re di strega. Sembra incredibile, ma le cronache del tempo la rac­contano così: Da parecchi anni la bellissima top-diavola era la compagna di don Benedetto, con cui faceva l’amore infinite volte al giorno, probabilmente grazie a qualche filtro magico, dato che il prete non era più giovanissimo, avendo già superato la bar­riera dei 70 anni, età universalmente riconosciuta come scomoda per quegli uomini che amano fare del sesso, come si suol dire ai giorni nostri. Ma evidentemente, per don Benedetto con Armelina la cosa era assai diversa. Lei era giovane, bellissima, piena di quel­le attrattive che mandano in visibilio gli uomini, specie quelli di una certa età. E poi, e poi aveva quei “ladri occhi” che facevano resuscitare anche i morti. 

Ma quali altre colpe venivano attribuite a don Benedetto Berni, oltre alle frequentazioni della “diavola” Armelina, un delitto per il quale il popolo della Mirandola mostrava una notevole indulgenza e, anzi, lo ammirava in silenzio? Invidia non certo condivisa dall’in­flessibile padre Armellini. Tutta una serie di responsabilità orribili, anche se parecchie di esse sembrano proprio inverosimili.

La Santa Inquisizione gli imputava nefandezze di vario genere: secondo i giudici ecclesiastici, don Benedetto aveva più volte for­nito alle streghe della Bassa modenese le ostie consacrate (per lui era ovviamente facile entrarne in possesso) da calpestare durante i sabba e “cospargere di urina”; non solo ma – sempre secondo l’ac­cusa – questo prete irrefrenabile era assai dedito ai “sozzi piaceri della carne”, senza guardare troppo per il sottile nella scelta dei suoi oggetti del desiderio, tanto che gli storici negli atti processua­li, hanno trovato che – sempre secondo i giudici – “ancora havea havuto uno figliolo dalla propria sorella”. Poi, quando l’Armelina glielo chiedeva, i due amanti fuorilegge andavano a passeggiare in atteggiamento poco ortodosso sulla piazza della Mirandola e così “insieme andavano ragionando siccome fanno duoi compagni as­sieme, benché (Armelina) non fussi veduta d’alcun altro”.

Non solo, ma sembra proprio che il mitico conte Dracula abbia avuto un terribile predecessore proprio alla Mirandola, nel senso che la Santa Inquisizione sosteneva, del tutto convinta, che don Benedetto Berni e la sua immancabile compagna Armelina fossero dediti anche al vampirismo. Gli inquisitori sostennero infatti che durante una notte di plenilunio i due amanti fossero entrati in volo entro la “fortissima Rocca di questo nostro Castello”, per succhiare il sangue ad un bambino indicato come figlio di una parente del Castellano della Rocca. Tutte colpe gravi quanto incredibili, che comunque l’anziano sacerdote fu costretto ad ammettere, probabil­mente in seguito all’interiore convincimento che non avrebbe or­mai più potuto salvare la propria vita. Probabilmente pensava che in fondo era meglio la morte che la tortura, con la speranza di ri­vedere in un’altra vita la sua bellissima Armelina. Semmai, a noi, potrebbe nascere qualche dubbio dal fatto che quando si voleva incastrare qualcuno, gli si attribuivano colpe al di fuori di ogni lo­gica realtà. Come era ragionevolmente possibile pensare che un uomo potesse volare oppure frequentare una donna invisibile?

Resta il fatto che la Santa Inquisizione dalla sua sede del con­vento della Madonna della Via di Mezzo (dal quale ogni tanto si udivano strazianti grida di dolore e di rabbia) condanna al rogo il fin troppo vivace don Benedetto Berni, di anni 72, e anche la dia­volessa Armelina, sua amante, peraltro non punibile in quanto in­visibile. L’anziano sacerdote viene quindi consegnato al “braccio secolare”, cioè ai gendarmi del conte Giovan Francesco II Pico, previa la confisca di tutti i beni. Non solo, ma l’anziano sacerdote viene anche “degradato” cioè ridotto allo stato laicale.

Nel chiaro e afoso pomeriggio del 22 agosto 1522 don Benedet­to Berni viene dapprima impiccato, davanti al popolo entusiasta, e poi arso sul rogo nella piazza della Mirandola. La gente raccontava che fino all’attimo in cui il cappio si strinse in modo irrevocabile attorno al collo, don Benedetto Berni non tremava né piangeva o supplicava, ma sorrideva in modo quasi estatico, dando l’impres­sione non tanto del dolore quanto della felicità. Sicuramente fissa­va in volto la sua compagna Armelina, invisibilmente mescolata al­la folla. E sorrideva guardando i “ladri occhi” della sua bellissima diavola. Quegli occhi che gli avevano regalato per molti anni tanta felicità terrena.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Racconti Mirandolani

Editore Bozzoli – Anno 1999

Il dipinto è opera del mirandolese Aleardo Cavicchioni

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