1879 – Come si vive nella Bassa quando nasce “Al Barnardon”
Come vive la gente in città e nelle campagne? A dire il vero, un po’ meglio di Vittorio Emanuele II e di Pio IX che proprio nel 1878 sono finiti all’altro mondo, ma anche da noi non sì scherza.
Basta dare un’occhiata alle statistiche relative ai nati e ai morti. La mortalità infantile è altissima. Nel 1878 i nati a Mirandola sono 461, i morti 457, di cui 244 inferiori ai sette anni, con una percentuale di mortalità infantile superiore al 53 per cento.
In città si vive con una certa dignità: la borghesia se la cava abbastanza bene, vive in case decorose, non manca di qualche agio, frequenta i caffè e va anche a teatro, dove (è il vecchio Teatro Greco, situato nel castello dei Pico, pressapoco dove adesso c’è il cinema Pico) si rappresentano commedie bruttissime e opere liriche di discreto livello. Gli artigiani e i bottegai, che sono parecchi, conducono una vita accettabile; lavorano e guadagnano a sufficienza per sbarcare il lunario. Mandano anche i loro figli a scuola. Questo lusso ben difficilmente se lo possono permettere i figli degli operai, dei braccianti, dei ”cameranti” che vivono alla giornata in case d’affitto mal riscaldate, spesso prive di ogni elementare servizio, con i fogli di carte al posto dei vetri, con la compagnia scomoda delle malattie, del freddo e della fame.
In campagna
Nelle campagne la povera gente non vive molto meglio. La terra è quasi tutta di proprietà delle famiglie nobili o borghesi, meno qualche fazzoletto di terra in cui lavorano piccoli coltivatori diretti la cui vita non è certo più rosea di quella dei mezzadri. Per dieci mesi all’anno i contadini del Mirandolese si alzano alle prime luci del giorno, qualcuno accudisce alla stalla, altri vanno nei campi a lavorare. D’autunno l’intera famiglia, uomini donne e ragazzi, forma le squadre dei vangatori che dissodano tutto il terreno dove non hanno potuto passare i buoi che trascinano l’aratro. Poi ci sarà da zappare, sempre a mano, da sarchiare, da seminare. Il lavoro ha una pausa verso le otto del mattino per una rapida colazione, un po’ di latte, magari una fetta di polenta abbrustolita, un pezzo di pancetta, più spesso una fetta di lardo. Poi il lavoro prosegue fino a mezzogiorno, senza soste. Al rintoccare del mezzogiorno, si torna tutti a casa per il pranzo: un piatto di minestra o di zuppa, qualche fetta di polenta con cipolla e altra verdura. Il pane bianco e la carne sono prerogativa soltanto dei signori. Un breve riposo pomeridiano, poi di nuovo tutti nei campi, a zappare, vangare, potare, seminare, poi d’estate a mietere il grano, falciare l’erba per gli animali, e poi ancora raccogliere il granoturco e vendemmiare l’uva. Quando si fa sera, tutti a casa, per la cena; zuppa di latte, polenta con fagioli o cipolle, ogni tanto una “saracca” e un’aringa. Viene in mente la leggendaria immagine dell’aringa appesa ad un filo sulla tavola dove tutti intingono la magra fetta di polenta. Poi a letto, sui materassi fatti con gli ”scartocci”.
La luce elettrica non esiste, o meglio non è ancora arrivata. È sufficiente una lumiera a petrolio, in compenso non manca la legna per accendere un bel fuoco negli spaziosi camini. I ragazzi non vanno a scuola. I rapporti con il ”padrone” non sono sempre cordiali, si vede nel proprietario terriero lo sfruttatore. Forse non è del tutto esatto, però il mezzadro e il colono non hanno grossi motivi di simpatia per il proprietario terriero che, in definitiva, vive sul lavoro altrui. Gli istituti giuridici più diffusi sono la mezzadria e la colonia parziaria.
Il patto di mezzadria
Il patto di mezzadria consisteva, a quei tempi, nel porre il contadino a metà dei prodotti del terreno e degli utili (o perdite) del bestiame, restando a carico del padrone le imposte. Il mezzadro, però, paga per metà le sementi e il bestiame, paga al padrone un affitto per fabbricati, che occupa con la famiglia ed è tenuto ad eseguire tutti i lavori. Deve al padrone le regalie e non deve avere un numero eccessivo di figli. Ecco perché — come si racconta — all’arrivo del padrone talvolta si nascondono alcuni figli nel tino, con l’obbligo di stare zitti. L’uva va per un terzo al mezzadro e per due terzi al concedente. Però molto spesso il contadino non sa leggere e scrivere e i conti (il famoso libro dei conti) li tiene il padrone e alla fine il mezzadro si ritrova spesso qualche spiacevole sorpresa.
Il patto di colonia parziaria
Il patto di colonia parziaria — nel Mirandolese alla fine dell’Ottocento — consisteva in questo: il padrone dà al colono un assegno annuo in contanti o più spesso in natura, oltre alla casa gratuita. Il colono deve svolgere tutti i lavori nei campi e nella stalla e il padrone tiene per sé tutto il raccolto, ad eccezione di un nono del frumento, di un quarto del granoturco, di un ottavo dell’uva e di un quarto della legna che spettano al colono.
Tratto da : Nona i me car mirandules
Autori: Vilmo Cappi – Giuseppe Morselli
Edizioni Al Barnardon
Anno: 1978