Cottura dei ciccioli
I pezzi di lardo destinati alla cottura per ottenere, dalla loro fusione, lo strutto e da ciò che rimaneva i ciccioli, venivano posti a cuocere nel paiolo della fornacella mobile fin dal mattino, in modo che verso sera si potesse preparare l’operazione della loro compressione. La cottura era lenta ed a fuoco non vivace, per evitare che un’ebollizione eccessiva cuocesse solo l’esterno del pezzo di grasso, rendendolo biondo senza aver raggiunto l’adeguata cottura del pezzo al’interno. Inoltre l’esagerata ebollizione poteva far straripare all’esterno il liquido di bollitura. Vi era una persona costantemente addetta al paiolo, la quale doveva calibrare il fuoco e mescolare assai spesso i ciccioli. Tuttavia il norcino vegliava e ogni tanto andava a verificare il punto di cottura ed il fuoco. Appena i ciccioli avevano assunto un colore biondo delicato, la razdóra, con un mestolone, asportava dal pentolone una minima quantità di strutto che sarebbe servito esclusivamente per friggere i dolci, i tortelli di marmellata o di crema. Era uno strutto bianchissimo, senza quel gusto di bruciaticcio che aveva lo strutto più maturo. Quando la cottura dei ciccioli giungeva al termine, interveniva il norcino che, con un mestolone, versava i ciccioli ed il liquido o grasso di cottura dentro ad un telo di canapa a maglie larghe che tratteneva i pezzi di grasso e lasciava colare di sotto lo strutto bollente, raccolto nel vaso di terracotta. Il telo veniva poi arrotolato dai due assistenti, che stavano ai due lati, mentre lo trattenevano, per farne colare le ultime parti di strutto. Riaperto il telo, il norcino salava i ciccioli, versava le spezie macinate finemente ed aggiungeva le foglie di alloro. Si riavvolgeva il telo, poi veniva posto tra due pezzi d’asse che venivano a loro volta stretti con energia: lo strutto residuo colava di sotto e veniva accuratamente raccolto in un vaso. Le formelline, compatte soprattutto dopo che si erano raffreddate, venivano poste una sopra l’altra ed assaggiate dal norcino. Di solito una formellina toccava di diritto al norcino.
Tratto da “La cucina mirandolese” di Giuseppe Morselli – Edizioni CDL