L'esterno e l'interno di Portovecchio

L'esterno e l'interno di Portovecchio

20 Giugno 2024 0

L’imponente massa del palazzo poggia ancora sullo zoccolo a scarpa di colore rosso scuro, ingentilita dalla torre dell’orologio asimmetrica e dal colore dei piani superiori, giallo chiarissimo; rimangono i finestrini ovali settecenteschi sotto le gronde e stranamente, due finestre ad arco sopra l’orologio della torre, con il vano ristretto in legno.

Otto finestre del pianterreno sono state allungate quasi a livello del marciapiede e terminano con un arco superiore in stile stranamente rinascimentale; voci senza documentazione, le daterebbero nel periodo di comando del Colonello Zaffuto.

Dopo la profonda ristrutturazione dell’esercito, nella situazione attuale, il palazzo di Portovecchio risulta lungo 64,50 metri, è alto circa 15 metri alla bandierina della torretta, dove una cupola metallica a bordi frangiati, completata di una bandierina segnavento, ripara le due campane che battevano le ore, le mezze ore, i quarti.

Il quadrante esterno dell’orologio di notte era illuminato.                      .

Sotto, lo stemma in marmo del Regno d’Italia.

Le finestre dei piani superiori sono 46 nella facciata, 102 quelle totali.

Una scala a chiocciola di ghisa dava accesso all’ambiente del congegno dell’orologio, funzionante a pesi: due blocchi di cemento, agganciati ad una fune di acciaio, con la carica a mano, salivano, mentre il loro stesso peso li faceva scendere lentamente mettendo in movimento tutto il meccanismo, compresa la suoneria la cui carica durava più di un mese.

Sul lato nord, un corpo di fabbricato sporgente, retto da dodici pilastri di mattoni rossi, creava un vasto porticato che reggeva un unico piano costituito da un appartamento, la foresteria, riservato agli ufficiali in missione che, per ragioni di servizio, dovevano fermarsi qualche tempo; forse un ampliamento molto più recente rispetto alla costruzione del palazzo.

Il porticato riparava e, nello stesso tempo, esaltava l’ingresso principale: qui si apriva il portone dì accesso di notevoli dimensioni, in legno di noce, bugnato, di ottima fattura.

Un verdeggiante giardino abbelliva il fronte nord del palazzo con panchine e tavolini.

Una parte del giardino era composta da piante da frutto, scelte in modo che d fosse sempre una varietà in maturazione; le piante erano coperte da una rete che costituiva la voliera dove vivevano fagiani dorati, pavoni ed altri volatili.

Dalle 12 alle 15 era proibito far rumori o far chiasso … perché le signore riposavano!

E’ tramandata storia di paese che per due bambini che vivevano al magazzino cereali, poco distante, era un delitto vedere tutta quella frutta, disponibile solo per dei volatili. Così nell’orario del silenzio il più grande sollevava la rete dal terreno e Paciaghinà, il fratello più piccolo, si introfùlava nella voliera e si arrampicava a cogliere quel ben di Dio.

Accadde un giorno che inaspettatamente nell’orario del silenzio, entrò dal cancello della voliera il maresciallo Vignudelli, i due si irrigidirono, fermi immobili ad aspettare, ma non si sa perché cadde una prugna ed il maresciallo, alzando gli occhi, colse il “raccoglitore” sulla pianta.

La storia finì la sera da parte del padre, non si sa se a suon di sculaccioni o di carezze alle gambe con un rametto di salice, come allora si usava …

Sul retro del palazzo esiste ancora la grande cisterna per l’acqua piovana, che raccoglieva l’acqua di tutto il tetto, seguivano lavanderia, orti, un piccolo giardino di tre aiuole uguali, rotonda la centrale, quattro vialetti convergenti, bordo in cotto, siepe di bosso, due altalene arredavano lo spazio libero.

Un viale di gelsi terminava sul canale San Martino che, per un certo tratto del suo corso, segnava il confine della tenuta e del paese col mantovano. Esisteva, andando verso est, una strada sterrata, poco frequentata, affiancata da olmi e pioppi, di rado percorsa perché non portava in nessun luogo, anzi, con gli occhi di oggi, nel posto più bello: un lembo di bosco ai confini della tenuta che poi è lo stesso confine con la provincia di Ferrara. Un vero e primitivo bosco su un terreno disuguale: piccoli avvallamenti, piccoli rilievi ne ostacolavano la coltivazione; furono queste le difficoltà che lo salvarono fino all’arrivo delle ruspe che ne avrebbero fatto scempio.

Un frammento di terra ricca di grandi frassini, di enormi querce, varietà di alberi diverse per altezza, specie e dimensioni, cespugli ora fitti ora radi, terra di poiane, falchi, lepri e fagiani; quei frassini, quelle querce ora sarebbero monumenti intoccabili. Era l’ultimo lembo di un bosco secolare.

Se non è fantasia del cartografo, forse poteva veramente essere il resto di un bosco antico che forse esisteva ancor prima dell’anno 1650.

Il bosco fu distrutto negli anni ’60 per farne terreno agricolo.

Gli Interni del Palazzo

Al piano terra, un grande atrio e il corridoio su cui si aprivano tutti gli uffici, quello del direttore, con caminetto, e l’ufficio cassa, che custodiva, con una quinta di ferro lavorato, la cassaforte.

Dall’atrio si accedeva con un grande scalone di marmo alle abitazioni delcomandante e del suo vice; nell’occasione di visite importanti lo scalone veniva arredato con una guida rossa: nello spazio tra la prima e la seconda rampa; in una cassapanca, era riposta la bandiera italiana che si esponeva nei giorni di festa nazionale, alla parete una panoplia con sei fucili disposti a trofeo come una piccola collezione.

La sala da pranzo, con camino, aveva un passavivande che, dalla cucina adiacente, facilitava il servizio in tavola. Il salone attiguo era illuminato da sei alte finestre definite da un arco a sesto acuto, lo stesso salone che nell’autunno del 1944 divenne aula di tribunale nel processo contro i tre giovani partigiani sanmartinesi, poi condannati a morte per fucilazione.

Tratto da: San Martino dei Cavalli – Dagli allevamenti dei Pico al V° Deposito Allevamenti Cavalli del Regio Esercito

Autore: Andrea Bisi

Edizione 2024

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