1973 – Anno chiave per la Bellco
La fiammella era accesa, e serviva tanta energia ,tanto lavoro e un po’ di fortuna per vederla ingrandire.
Io per quanto mi riguarda viaggiavo come un pazzo nei miei paesi perché dovevo contemporaneamente: convincere i clienti già acquisiti a stare con noi (qualche volta qualcuno ebbe delle vere perplessità), tenere d’occhio i concorrenti non Sandoz che comunque cominciavano a farsi le ossa, e promuovere i nuovi prodotti che erano sicuramente interessanti.
Viaggiai con tutti i mezzi, il mio quasi nuovo Maggiolino (l’auto aziendale era rimasta un lusso Sandoz), oppure il Ford Transit targato Bellco, dove potevo agevolmente caricare una apparecchiatura e farmi accompagnare da uno dei nostri mitici dimostratori nonché tecnici scafati, primo fra tutti l’Armando Neri, che stava anche lui acquisendo dimestichezza con i nuovi prodotti e il training lo faceva sul campo.
Armando era socievolissimo, intelligente, modesto ed estremamente disponibile ad insegnarmi almeno i rudimenti tecnici fondamentali che governavano i nostri prodotti: ho imparato più da lui che da tetri corsi di addestramento, o sussiegosi product specialists (che erano comunque di là da venire). Mi organizzò anche un corredo tecnico indispensabile, da tenere in auto, composto di :
-1 cacciavite
-1 pinza
-1 martello
-1 rotolo di nastro teflonato.
Con lui ci rivisitammo tutti i centri ospedalieri jugoslavi più importanti, dove la dialisi con un solo ago, o un nuovo preparatore per liquido di dialisi pratico e non ingombrante aumentavano il nostro prestigio a dismisura. Poco importa se i fondi ospedalieri fossero limitati, noi eravamo lì e loro apprezzavano anche il nostro contributo personale di assiduità.
Spesso tra l’incredulità degli scafati dealers triestini , i quali , rappresentanti di prestigiosi nomi americani, (Eurospital in prima linea, rappresentante della affidabile macchina per dialisi americana della Drake Willock) non si capacitavano del successo della azione di quattro ex-contadini usciti dal nulla.
Un viaggio standard con Armando passava attraverso le forche caudine delle occhiute dogane slovene (mai dimentiche della loro pedanteria ex-asburgica).
Il mitico documento doganale che contribuì alla nostra fortuna, il Carnet ATA,che permetteva l’esportazione temporanea di apparecchiature per dimostrazioni, fiere ecc., veniva esaminato al microscopio e questo significava passare alcune ore ad aspettare in valichi di frontiera inospitali, spesso non potendo nemmeno mangiare un boccone perché di ritardo in ritardo arrivavamo al nostro agognato albergo quando le cucine erano ormai spente.
Fu così che mi guadagnai la fama in Bellco di chi non mangiava mai, e chi veniva con me veniva messo in guardia, “ attenzione con lui non si mangia”. E che era colpa mia se la Jugoslavia era priva di confort?
Ricordo un giorno, eravamo stati per ore presenti ad una estenuante dimostrazione tecnica a Spalato, avevamo accumulato un ritardo enorme, dovevamo essere la sera, non ricordo, probabilmente a Fiume o a Pola, o in Slovenia: cercare un ristorante in città impensabile, e io dissi ad Armando di non preoccuparsi perché avremmo trovato un ristorante lungo la strada.
Sciagura, non era stagione turistica, e dovemmo farci centinaia di chilometri di curve sulla splendida Jadranska Magistrala , senza trovare l’ombra di un pezzo di pane, tutto era chiuso e sigillato:Karlobag, Senj, Armando era così affamato che quando vide un albero delle famose “maraske”(le famose amarene dalmate da cui si ricava il “maraschino”) balzò dal Transit e si riempì le tasche di questi frutti appetitosi.
Solo la bellezza di un tramonto primaverile su quel mare blu e le rocce che si accendevano di rosa ci diede un po’ di sollievo.
Con Armando facemmo anche una puntata fino a Sofia, sempre con il Transit, e al ritorno passammo una notte all’addiaccio a Fernetici, perché “il dottore” (l’ufficiale doganale italiano) dormiva e non poteva essere disturbato fino al mattino alle otto.
Un’altra volta ,attraversando l’Ungheria e sostando nei centri nostri amici, Debrecen, Miskolc, ci spingemmo fino al congresso nefrologico ceco a Kosice, dopo un estenuante iter doganale.
La Polonia dava concreti segni di risveglio: reduci da una seria avaria su una nostra macchina per dialisi in prova a Cracovia-con la disperazione del primario, il Prof. Hanicki, che a tutti i costi voleva collaborare con noi e che aveva letteralmente visto una pompa sul pannello frontale della macchina esplodere (eh, sì l’inizio non fu tutte rose e viole, ma si fatturava già qualcosa e Chierici comunque ci passava le nostre legittime provvigioni sulle vendite Dasco, che venivano maturando, e questo ci permetteva di sopravvivere) io e Armando ci eravamo precipitati a Mirandola, avevamo riempito l’auto di pezzi di ricambio, perché nessuno in ditta aveva la minima idea della causa del problema, e per accelerare il rientro a Cracovia avevamo deciso di transitare non attraverso l’abituale valico internazionale di Ceski Tezin, ma attraverso un valico minore, a poche decine di chilometri dai monti Tatra e da Cracovia.
La fortuna aiuta gli audaci e gli inesperti: il posto di frontiera era deserto, e sembrava il centro di addestramento per doganieri socialisti stronzi che devono catturare il pervertito capitalista di turno.
Come rapaci sulla preda , si precipitarono sulla nostra auto .Essa fu esaminata centimetro per centimetro, ma i pezzi erano così ben nascosti che non furono trovati, e dopo ore di vuota attesa (sempre senza cibo, che era introvabile)e di comprensibile tensione potemmo proseguire per Cracovia dove in ospedale ci attendeva una buona tazza di acidulo brodo di barbabietole.
Il danno fu riparato, la macchina poi si comportò benissimo e in pochi anni tutti i centri dialisi polacchi erano targati Bellco , grazie al Prof. Hanicki e a qualche altro volenteroso e coraggioso medico polacco , tra cui mi piace ricordare la dott.ssa Radwanowska-Dowzenko dell’ospedale dei ferrovieri di Varsavia, e ad altre considerazioni di cui parlerò più avanti.
L’anno fu veramente tirato al parossismo: già in febbraio io mi muovevo in lungo e il largo con il mio Maggiolino per l’Ungheria, la Bulgaria e la Jugoslavia. Il giorno in cui nacque la mia prima figlia, Barbara, io ero in viaggio precipitoso da Szeged per l’Italia, e purtroppo arrivai a cose compiute, mia moglie era molto veloce.
In Bellco, messe da parte tutte le gerarchie, soci e non davano il loro contributo al grande balzo in avanti.
Armando era, come ho già detto, la punta di diamante di una schiera di tecnici che divenne sempre più folta , che univano la bravura alla flessibilità ed adattabilità. Sanzio Grana, Ghidoni, Nicoletti , il povero Melloni, giocarono un ruolo molto importante nella diffusione delle nostre apparecchiature.
Molto inspiegabilmente un altro tecnico validissimo, Paltrinieri, fu lasciato in Dasco, e in Dasco restò anche se per poco il già menzionato Maurizio Gibertoni.
Ricevetti spesso una mano anche da Romano Flandoli, al quale era demandato di tenere i delicati rapporti coi vari medici inventori, curava da vicino l’applicabilità pratica dei nuovi prodotti, ma era anche responsabile del servizio tecnico. Lui più di chiunque altro fu attivo a dimostrare la validità del nostro sistema monopuntura, che tanto interesse suscitava nell’ambiente, dato che la connessione macchina-paziente rappresentava sempre un punto critico della emodialisi.
Non esisteva ancora in Bellco un reparto R-D strutturato: gran parte delle sollecitazioni, delle prove, dei test venivano fatti da volonterosi centri dialisi , con i quali avevamo ottimi rapporti.
Di Flandoli erano i contatti con gli inventori belgi della pompa monoago, il Prof. Ringoir e il suo staff tecnico.
Flandoli venne anche una volta a compiere un faticosissimo viaggio in Jugoslavia a bordo del mio Maggiolino, che aveva contemporaneamente due scopi: mostrare il sistema a clienti potenziali di riguardo ed insegnare a me (non-tecnico e venditore, come mi appellava Veronesi giustamente) la tecnica d’uso.
Quando penso a quei tempi mi sembra infatti incredibile: dopo qualche tempo, grazie al mio addestramento pratico, io fui in grado di fare anche delle dimostrazioni su pazienti “da solo”, con il solo aiuto dei tecnici ospedalieri locali (ogni centro dialisi ne conta almeno uno) e la cosa mi riempiva di soddisfazione, come sempre succede agli inesperti bricoleurs che riescono a montare il loro primo aggeggio , o a verniciare la loro prima parete ecc.
Questa volta comunque il tempo fu veramente tiranno, divertimento zero, stress alle stelle.
I nostri rappresentanti locali giocavano anche la carta della nostra innovazione tecnica e ci organizzarono una stringa di dimostrazioni in posti sia di prestigio che no, e spesso con notevoli difficoltà logistiche. La fortuna voleva che in quasi tutti gli ospedali visitati noi fossimo già conosciuti e questo ci facilitava enormemente il compito. Ricordo una fortunosa traversata del Danubio su una chiatta, sempre col fido Maggiolino per passare da Osijek a Novi Sad.
Novi Sad era una cittadella del nemico americano Travenol e lì non avemmo mai un grande successo, ma quella volta la dimostrazione fu apprezzata, anche se non diede i frutti sperati.
Il problema era che le ore richieste per una dimostrazione in ospedale erano tantissime, i viaggi estenuanti ed in orari impossibili. Partimmo il pomeriggio da Novi Sad e io mi diressi direttamente a Sarajevo, erano più di quattrocento chilometri di strada bestiale, da fare praticamente di notte. Ricordo anche , ormai nelle vicinanze della capitale bosniaca, di avere investito un ubriaco, con preoccupazione mia e disperazione di Flandoli. Fortunatamente, con lo specchietto retrovisore, vidi che l’arzillo ubriaco, preso solo di striscio, si era semplicemente seduto sulla strada, in attesa del prossimo veicolo che lo stendesse in modo definitivo, perciò dopo un rapido conciliabolo decidemmo di proseguire.
Arrivammo all’hotel talmente stremati che durante la dimostrazione del giorno dopo Flandoli si addormentò nello studio del dott. Cagalj (persona simpaticissima, non bosniaca, che doveva poi trasferirsi in Dalmazia, all’ospedale militare di Spalato). In generale la Bosnia presentava ogni tipo di difficoltà, era difficile raggiungere Sarajevo, e la gente, con le dovute eccezioni, era abbastanza “unfriendly”, ma ciò non toglie che nel corso degli anni non fossimo in grado di sviluppare anche lì la nostra presenza.
I nostri rappresentanti ci guardavano muoverci nel paese e crescere di visibilità, ma intanto giocavano anche un ruolo vitale come importatori dei nostri prodotti, e riuscirono a sviluppare un notevolissimo giro d’affari.La Sig.ra Buterin e la avvenente Sig.ra Jelacic (che tutti chiamavano Jebacic…un gioco di parole) gestivano magistralmente il loro ufficio import.
Al momento la loro più grande difficoltà era che non avevano una persona dedicata da darci per lavorare con noi full-time.
Io potevo seminare ed anche la mia assiduità sul mercato era molto apprezzata, ma noi avremmo voluto che il loro esperto collaboratore, il dalmata Matosic, (tra l’altro parlava un italiano perfetto) lavorasse per noi, ma lui era troppo impegnato con numerose altre ditte( tra cui la General Electric, altra miracolata dagli ospedali jugoslavi) , era in realtà il vero direttore commerciale della società e chiamato ad altre responsabilità.
Con il direttore generale Sig. Pavunc in testa arrivarono a decidere di assumere una persona nuovissima, il Sig. Darko Mijatovic che poi doveva per anni accompagnare le fortune e le sfortune della Bellco in quel paese.
Mijatovic, inglese scarsissimo, parenti in Erzegovina, altissimo e naturalmente ex giocatore di pallanuoto, vero tombeur de femmes (di infermiere, in futuro), assolutamente sprovvisto di ogni conoscenza tecnica, scientifica e anche delle basi del più semplice vivere civile fu per me fonte di incazzature a non finire, al punto da spingermi spesso all’idea di cambiare ditta di rappresentanza.
D’altra parte Mijatovic aveva per i medici un’aria assolutamente innocua, e si dimostrò ideale per mantenere i contatti tra le multiforme esigenze dei medici e dei tecnici ospedalieri e la nostra società.
C’erano tante cose che lui doveva imparare: per esempio a non fidarsi dei giocatori d’azzardo nelle aree di servizio sulla autostrada Zagabria –Belgrado. Un giorno vado a fare pipì, sosta rapida, esco e vedo Mijatovic con un energumeno che gli punta un bastone acuminato alla gola; nei pochi minuti della mia assenza era riuscito a perdere tutto il denaro che aveva in tasca e anche ad indebitarsi.
Io d’istinto cominciai a gridare “zovim milicija, zovim milicija! (chiamo la polizia!)”, al che l’energumeno e gli altri bulli si dileguarono.
La Jugoslavia era un paese difficile e, date le diversità interne, anche di smisurata complessità: una specie di Europa Centrale e Medio Oriente unite e miniaturizzate. La ditta capì che Mijatovic non sarebbe mai riuscito a sfruttare tutte le nostre potenzialità e verso la fine dell’anno prese una brillantissima decisione (o vi fu costretta?). Mijatovic si sarebbe occupato solo della parte settentrionale-occidentale, mentre un’altra persona, belgradese , si sarebbe occupata della parte meridionale-orientale.
Questa volta loro e noi ci azzeccammo: una donna coi fiocchi, giovane e volitiva, estremamente pratica ed abituata a farsi benvolere da tutti, con il suo perfetto American-English (aveva vissuto qualche anno a NYC, dove dirigeva un Beauty Parlour) era quello che ci voleva. Mijatovic non fu mai neppure invidioso dei successi che Vesna Lukic riportò, proprio perché si rendeva conto dei propri limiti e riuscì a ritagliarsi il suo tranquillo cantuccio.
La ditta aveva naturalmente una filiale a Belgrado, ben organizzata, con un buon tecnico di assistenza (il Sig. Zivkovic) e un abile direttore (Vidak Arsenovic).
Ovviamente, in un certo senso, il tempo necessario da dedicare al mercato per me si raddoppiò , perché dovevo prima viaggiare con Mijatovic nel nord e poi con Vesna nel sud (il suo unico neo era che non guidava, ma non fu mai un grande problema).
La foto mostra un acquerello rappresentante la Bellco tratta da un depliant pubblicitario del 1976.