Giovanni Pico – Per cogliere una Margherita

Giovanni Pico – Per cogliere una Margherita

22 Maggio 2019 0

Quando studiava a Padova – e non era ancora ventenne – Pico non era uno stinco di santo, tanto che Gianfrancesco, il nipote-biografo, con tono più da nonno che da nipote, ricor­dava: “Nella prima giovinezza fu molto ambizioso e, stimolato da vani desideri, aveva ceduto alle seduzioni femminili, anche perché molte donne si inna­morarono di lui. Non rifiutando tali amori egli si era un po’ abbandonato ad una vita dissipata tra­scurando di seguire i veri valori”.

Pur facendo la tara a questo giudizio, data la fon­te piuttosto severa, qualche testimonianza di amici conferma che il giovane Pico era gioviale, amante delle allegre brigate, per nulla misogino. Comunque, un episodio clamoroso della sua vita ci rassicura in proposito, un episodio che per alcuni fu una mac­chia in una vita specchiata, per altri una comprensi­bile parentesi.

Era il maggio del 1486. Pico aveva allora ventitré anni e stava mettendo a punto il disegno di quella “grande disputa” da organizzare a Roma per discute­re le sue novecento Tesi “in omni genere scientiarum” (riguardanti tutte le scienze). Proprio per mette­re a punto tali Tesi pensò di lasciare Firenze e di ritirarsi a Fratte, vicino a Perugia (l’attuale Umbertide?), con alcuni consulenti – come li chiameremmo oggi – del calibro di Elia del Medigo, Flavio Mitridate, Jochanan Alemanno e Girolamo Benivieni. E la com­pagnia di una donna poteva non guastare.

La donna era una giovane signora di nome Mar­gherita, vedova rimaritata (o malmaritata) con Giu­liano di Mariotto de’ Medici, un lontano parente del grande Casato fiorentino, residente ad Arezzo perché Gabelliere della città, cioè colui che riscuote­va le tasse.

Il fatto, o fattaccio, avvenne durante il trasferi­mento da Firenze a Perugia. Pico, come si conveniva a un Principe, cavalcava alla testa di venti-venticinque guardie del corpo e famigli.

Secondo l’anonimo autore di una “Cronaca della nobilissima Famiglia Pico”, la gentildonna, di lui in­namorata, sapendo che egli doveva recarsi a Roma, gli si parò davanti in tutta la sua bellezza. “Contino, se voi siete quel gentiluomo che penso siate, mi ac­cettereste in compagnia fino a Roma?”. Detto, fatto.

Il cronista vuole anche rassicurare i malpensanti che il Contino “non hebbe ardire di toccarla, ancora che sapesse (sebbene sapesse) non essere venuta ad al­tro affatto che per amor di quello (che la donna era innamorata di lui)”.

Fu, dunque, la richie­sta di un passaggio, o un ratto, o una tresca?

Più realisticamente, le cose andarono così: i due erano d’accordo e s’erano dati appunta­mento ad una porta di Arezzo, all’ora della Mes­sa, per giustificare l’usci­ta della donna. La Messa durava un’oretta. Quan­do il marito vide che la moglie non tornava se ne preoccupò. Poi la da­migella di compagnia con cui era uscita gli rac­contò, in buona o in ma­lafede, che la Signora era stata rapita. Apriti cielo. Da Gabelliere potè ordinare che la campana della città suonasse a martello in se­gno d’allarme, e radunare un centinaio di armigeri per inseguire i rapitori. Li raggiunse ad una ventina di chilometri dalla città, forse a Marciano di Chiana, e fu una carneficina. I famigli di Pico furono quasi tutti trucidati, lui ferito e fatto prigioniero, la donna recu­perata e riportata a casa come vittima, per l’onore del marito. “Tale è la sorte di ogni Elena – commentò sprezzantemente un biografo molto di parte – tradi­scono lo sposo e seducono gli uomini e poi fanno es­se le vittime, e il marito e i concittadini combattono e muoiono per riabilitarle con un trionfo”.

L’arresto del Mirandola durò ben poco perché quando a Firenze giunse la notizia, intervenne subito Lorenzo il Magnifico su quel Medici “minore” e Pico fu liberato. Ma quello che neppure il Magnifico potè fu di impedire che in tutte le Corti si parlasse dell’ac­caduto: chi romanticamente, chi maliziosamente,“quasi fosse precipitato – scrisse un biografo maschi­lista – Lucifero dal cielo”. “È veramente da dolere (dolorosa) tale disgrazia a lui intervenuta – scrisse nel suo rapporto Aldobrandino Guidoni, ambasciato­re degli Estensi di Ferrara alla Corte dei Medici – per­ché oltre la dottrina sua Pico era reputato uno santo. Però a molti de più conditione de lui (anche più qualificati) è intervenuto de tali errori (è capitato di commette­re tali errori) infiamati da Venere (travolti dalle donne)”.

Marsilio Ficino, che traduceva tutto in termi­ni platonici, compose addirittura un “Apologo” per difendere l’amico, fi­glio di Mercurio e di Venere (scienza e amore), protagonista di un’“impresa pia” avendo sottratto agli uomini la bella ninfa Margherita, figlia di Apollo e Venere. E, quasi non bastasse, diffuse un’“Apologia” per sostenere che accogliere o rapire una ninfa tenuta schiava da un uomo, e quindi desi­derosa di venir rapita, è in fondo come liberarla. Il più obiettivo fu proprio Pico, che ad un amico (An­drea Corneo di Urbino), scrisse che anche Davide e Salomone commisero errori simili al suo. “Per non dire poi di Aristotele – aggiungeva – il quale si perde­va spesso, follemente innamorato, dietro a qual­che sgualdrinella dimenticando del tutto i principi etici che egli stesso aveva indicato”. “Però – continua­va – io non gradisco tali difese e quasi protezioni, anzi le odio e le respingo. Mi lamento dell’accaduto, non mi scagiono dalla colpa commessa, mi pento del peccato e non mi assolvo. E chi mi vuole assolve­re, lo faccia soltanto perché io non mi assolvo. Nes­suno è più debole dell’uomo. Niente è più forte dell’amore (…). Perfino Girolamo (divenuto poi San­to), che pur era forte e attratto dalle cose celesti, si eccitava alle danze delle fanciulle. Se perfino un uo­mo così è stato tentato, chi non sarà attaccato da una simile peste? Se l’amore ha potuto tanto nell’ere­mo in cui si era rinchiuso e su un corpo disteso sulla nuda terra e a digiuno da settimane, come lo può arrestare chi vive fra le piume, in casa, e nell’abbon­danza?”.

La conclusione è altrettanto esplicita: “Per il tuo amico questo è stato il suo primo errore e perciò non aveva esperienza di tali cadute. Ha diritto a lamen­tarsi di Nettuno colui che è naufragato soltanto una volta? Soltanto se andrà a sbattere di nuovo contro lo stesso scoglio, non si dovrà porgergli la mano e avere pietà di lui”.

Tratto da: “Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Gianfrancesco.

Autore: Jader Jacobelli – Anno 1993

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