Giovanni Pico – Fuga a Parigi
Il tarlo della condanna
Quando il Nostro apprese che tredici delle sue novecento Tesi erano state incriminate dalla Commissione di inchiesta della Curia romana e che quindi il progetto del suo “grande dibattito”era fortemente compromesso, temendo d’essere addirittura scomunicato si preoccupò di difendersi. Ma lo fece attaccando.
In venti giorni scrisse, infatti, un’“Apologia” che finì con l’aggravare la sua posizione, anche perché la preannunciò dicendo: “Questo scritto è necessario perché debbo dare agli amici qualcosa da gettare in pasto a quei cani di nemici che latrano, così come si gettano ossi a Cerbero”.
Apriti cielo. Innocenzo VIII, che aveva tenuto nel cassetto la “pratica Pico” sperando che col tempo venisse dimenticata, anche per non pestare troppo i piedi a Lorenzo il Magnifico, che sapeva grande protettore del giovane principe mirandolano, fu costretto a tirarla fuori e a passarla a un Tribunale di inquisizione formato di due soli membri, il vescovo Monissart, che aveva presieduto la Commissione d’inchiesta, e il vescovo di Cesena, Menzi.
Saputo ciò, invece di attendere il loro giudizio, Pico abbandonò nottetempo Roma per Parigi. Una vera e propria fuga, tanto più provocatoria in quanto la Francia era contro il Vaticano e ne avrebbe approfittato.
A tutte le autorità ecclesiastiche fu ordinato allora di arrestare il mirandolano e di riportarlo a Roma per processarlo. E furono incaricati di inseguirlo addirittura due Nunzi pontifici che dovevano anch’essi andare a Parigi per conferire con Carlo VIII.
Ad arrestarlo fu uno zio del Re, il conte di Bresse, Filippo, futuro Duca di Savoia. Fu un arresto molto tattico, compiuto per sottrarre il Mirandola ai due Nunzi, anche perché si sapeva che il Re conosceva Pico per fama.
I due Nunzi progettarono allora di rapire il falso prigioniero durante il suo trasferimento a palazzo reale. Ma ancora una volta Carlo VIII li prevenne e fece trasportare Pico nella prigione dorata della Rocca di Vincennes.
Appena la notizia di quell’arresto si diffuse in Italia, i Medici, gli Sforza, gli Estensi, i Gonzaga, protestarono vivacemente. Era proprio quello che voleva il Re, il quale decise subito di liberare Pico per aggraziarsi quei principi italiani che un giorno avrebbero potuto favorire – come in effetti fecero – i suoi disegni sull’Italia. In tal modo, faceva un doppio dispetto alla Curia romana: prima con l’arresto, poi con la liberazione.
Dopo qualche mese il Mirandola era a Firenze, ospite di riguardo di Lorenzo il Magnifico, attorniato dalle più belle menti del Rinascimento, ma insidiato dal dubbio che la condanna della Chiesa potesse sottrargli l’amore di Dio. Un dubbio che, come un tarlo, lo inquietò quasi fino alla morte, tanto da non stancarsi di insistere nell’invocare l’assoluzione papale, e da tormentare Lorenzo perché giocasse tutte le sue carte per ottenerla.
Tratto da: Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Gianfrancesco
Autore: Jader Jacobelli
Edizioni Laterza – Anno 1993
L’immagine è il ritratto di Papa Innocenzo VIII