L’ultimo assedio
L’ultimo assedio.
Ahhh, le riunioni di condominio. Riuscire a mettere tutti d’accordo è un’impresa non da poco, e non solo oggi.
Nel 1740 Federico II, proprietario dell’appartamento Prussia, convoca una riunione del condominio Europa. E’ deceduto Carlo VI che ha lasciato il proprio appartamento Austria alla figlia Maria Teresa, già proprietaria dell’appartamento Ungheria; Federico non è d’accordo e vorrebbe l’Austria per sé. Al termine di un’accesa riunione si va alle votazioni: Francia, Spagna ed il Principe Elettore di Baviera danno ragione a Federico, mentre Ungheria, Inghilterra e regno di Sardegna votano per Maria Teresa. Gli astenuti sono numerosi così Maria pretende l’annullamento delle votazioni, cosa che fa infuriare Federico e si arriva alle mani. Oggi manderemmo un esercito di avvocati, Federico & Company mandarono eserciti di soldati.
Il duca di Modena Francesco III d’Este, che abita in subaffitto in una piccola stanza dell’appartamento Italia, ha votato per Federico più per amicizia verso Spagna e Francia che per convinzione e si affida per la difesa al numeroso esercito spagnolo presente in zona. Per un po’ la calma regna sovrana nel ducato, se le stanno dando di santa ragione da altre parti, ma nella primavera del 1742 un esercito austro sardo si avvicina ai confini. “Armiamoci e partite” recita una vecchia battuta; Francesco dà disposizioni per la difesa dello stato e poi il 6 giugno scappa a rifugiarsi a Venezia. L’esercito nemico entra in Modena senza colpo ferire; solo la cittadella fortificata resiste per 18 giorni, ma il 29 giugno i 3.000 difensori si arrendono. L’esercito spagnolo su cui contava Francesco si trova non lontano a Castelfranco, ma non interviene. Ora l’esercito austro sardo si sposta verso la città/fortezza della Mirandola e la pone sotto assedio.
Certo chiamare la Mirandola “città fortezza” nel 1742 significa essere molto ottimisti. Le mura ed il fossato ci sono ancora ma sono stati trascurati ed hanno bisogno di lavori urgenti, gli armamenti difensivi sono ridotti a 24 cannoni di cui solo 5 sono perfettamente funzionanti, ed anche i soldati non danno affidamento; il reggimento Mirandola, costituito nel 1740 con un migliaio di uomini provenienti dal territorio circostante, già prima che inizi l’assedio comincia a perdere soldati a causa di diserzioni sempre più numerose sia individuali che di interi reparti. Ma anche i reggimenti Modena e Reggio che completano il presidio della fortezza non sono da meno; un piccolo reparto svizzero è l’unica unità su cui la difesa può veramente fare affidamento. Così il 16 luglio, spinto dall’esasperazione, il comandante della Piazza e governatore della città, il generale Giulio Martinoni, dà il permesso a chi lo voglia, di lasciare la fortezza; 800 soldati non se lo fanno ripetere ed abbandonate le armi se ne vanno. Ne restano così circa 1200, assolutamente insufficienti ma decisi a dare il massimo.
Nel frattempo, già l’8 luglio si è presentato sotto le mura un drappello di piemontesi formato da un maggiore, 4 ufficiali ed un tamburino. Il maggiore fa rullare il tamburo per attirare l’attenzione poi con voce ferma e decisa chiede la capitolazione. Dentro si discute, si dibatte, soprattutto si tergiversa per prendere tempo aspettando invano che arrivino in soccorso gli spagnoli, si chiede quali condizioni vengano offerte; il maggiore risponde seccamente: “Resa senza condizioni o vi sarà battaglia!”. Martinoni, che doveva aver visto troppi film di John Wayne, risponde allora che i suoi ordini sono di “ … resistere fino all’estremo …”. Nel giro di una settimana arriva l’intera armata nemica che si dispone attorno alla città iniziando a costruire fortificazioni e trincee e posizionando l’artiglieria; gli austriaci si accomodano a ovest, di fronte al baluardo di s. Agostino, mentre i piemontesi a nord, tra il baluardo del Castello e quello della Porta. Anche i difensori non stanno però con le mani in mano; compiono brevi sortite per distruggere le case fuori le mura, ma troppo vicine e quindi utilizzabili dal nemico, e per disturbare i lavori di preparazione per l’assedio. La sera del 20 un drappello mirandolese si prepara ad un incursione nel territorio a settentrione della città con l’intento di demolire l’osteria Posta che gli austro sardi vogliono usare a loro favore. Due soldati mirandolani si offrono volontari; niente di strano se non che i due sono conosciuti come fannulloni che cercano di stare lontano dai lavori pesanti e pericolosi, ma siamo in tempi di vacche magre e si prende ciò che passa il convento. La sortita ha successo e l’osteria viene demolita, ma i due approfittando della confusione disertano. Catturati dal nemico svelano le reali condizioni in cui si trova la “fortezza”, questi accelerano i preparativi ma già dal giorno prima due batterie di mortai hanno iniziato il bombardamento della città che continua ininterrotto anche tutto il giorno dopo.
I primi danni sono arrecati al Monte di Pietà ed al pubblico macello e due case prendono fuoco e bruciano per giorni. La prima vittima è la signora Giacoma Frascorati, moglie di Francesco Tosatti, che si è rifugiata in casa del canonico Besutti. Verso mezzogiorno un colpo centra una casa che ospita il negozio di tabacco ed in cui si sono rifugiate una ventina di persone, compreso il conte Zucchi, ispettore di Sua Altezza, con la sua famiglia; a parte una leggera intossicazione dovuta al fumo del tabacco che ha preso fuoco se la cavano con uno spavento. Anche il castello viene colpito da numerosi colpi alcuni dei quali finiscono nella torre Spina che per fortuna non ha depositi di polvere da sparo. Nemmeno gli edifici religiosi vengono risparmiati; cinque bombe cadono sul convento di sant’Agostino distruggendone il dormitorio e tre nel monastero di s. Lodovico, che era stato restaurato solo due anni prima, spaventando a morte le religiose e uccidendo due buoi. Il tremendo bombardamento continua per tutta la notte provocando numerosi incendi. Viene duramente colpita la strada della Beccaria dove molte case crollano sotto i numerosi colpi che piovono come grandine.
La mattina di domenica 22 luglio, all’alba, una nuova batteria di venti cannoni è approntata dagl’imperiali e si unisce al bombardamento dei mortai. Il cannoneggiamento appare a molti mirato più a spaventare e demoralizzare la popolazione che non a colpire e distruggere le fortificazioni. La maggior parte delle palle infatti sorvola le mura ed i bastioni e vanno a colpire le case adiacenti mettendo in pericolo più le vite dei civili che non dei militari. Le prime palle di cannone colpiscono la chiesa di s. Francesco, danneggiando gravemente la cappella della B.V. di Reggio, e la chiesa di s. Agostino. Nemmeno starsene rintanati in casa a ridosso dei muri è sicuro; dove non arrivano direttamente palle e bombe il pericolo è rappresentato dalle schegge dei mattoni e delle stesse palle che spesso si frantumano in mille pezzi e volano da tutte le parti.
Mezza città è in rovina, molte case sono danneggiate o distrutte e gli incendi numerosi; preoccupa molto quello della strada della Beccaria, alimentato pare da un piccolo deposito di polvere da sparo presente nel Seminario, anch’esso colpito, e che nonostante tutti gli sforzi si estinguerà solo parecchi giorni dopo; il continuo cadere di palle impedisce qualsiasi tentativo di spegnimento e la paura che l’incendio si propaghi alle case adiacenti aumenta. Da più parti si fanno pressioni presso il generale Martinoni di chiedere la resa. Finalmente a metà mattinata dà l’ordine di alzare bandiera bianca. Un soldato sale sulle mura sventolando un drappo bianco, ma il timore di essere colpito dalla fucileria o da una cannonata lo rendono maldestro e la bandiera cade. Allora un ufficiale spiega un fazzoletto bianco ed inizia ad agitarlo verso il campo nemico. Il bombardamento cessa ed un drappello di ufficiali sardi si avvicina alle mura, ma con loro stupore nessuno si presenta a parlamentare; rabbiosamente girano i cavalli e tornano tra le loro fila ed il bombardamento riprende a devastare la Mirandola.
La confusione regna sovrana in città e nessuno sa bene cosa fare, ed intanto le bombe continuano a cadere e a far danni e vittime. Finalmente verso mezzogiorno Martinoni fa issare nuovamente bandiera bianca e questa volta due delegazioni s’incontrano per discutere non trovando però un accordo. E’ necessario andare alla Concordia dov’è il quartier generale del re sardo Carlo Emanuele III, che al contrario del nostro amato duca è alla testa del proprio esercito. Nel frattempo è ripreso il cannoneggiamento ed altre nuove rovine si aggiungono alle vecchie. Nel tardo pomeriggio l’accordo è finalmente raggiunto e firmato dalle due parti nella sacrestia di s. Francesco; finalmente il bombardamento ha termine e la gente può uscire in strada e festeggiare. C’è chi ha tenuto il conto dei colpi sparati dagli austro sardi contro la città, almeno 300 bombe di mortaio nei tre giorni e 320 palle di cannone nelle quasi nove ore in cui sono stati utilizzati.
Verso sera il re Carlo Emanuele III entra a cavallo in città seguito da un numeroso seguito e accolto dai rappresentanti politici, militari ed ecclesiastici del duca. Espletate le formalità di rito il re, col cappello in mano, visita il castello e le brecce aperte sulle mura per poi tornare al suo campo alla Concordia. La Mirandola viene trasformata in una base logistica delle forze imperiali e solo il 7 febbraio del 1749 la città viene restituita al governo estense.
La guerra di secessione austriaca è l’ultimo conflitto a cui la città prende parte direttamente e segna la fine della gloriosa “città-fortezza”.
Vanni Chierici
Fonti: V. Cappi – Atlante di cartografia storica commentata della Mirandola al sec. XVIII –
Memorie storiche della città e dell’antico ducato della Mirandola Vol. IV –
Morselli – Mirandola 30 secoli di storia –