Fonderia Ghisa – La lotta del 1959 – Capitolo Ottavo

Fonderia Ghisa – La lotta del 1959 – Capitolo Ottavo

28 Giugno 2018 0

Da anni funzionava in fonderia un premio di produzione che i lavo­ratori erano soliti denominare Kg/ora e che era così concepito: ad ogni dipendente della fonderia veniva attribuito un premio di pro­duzione uguale (pari ad esempio nei ’55 a £ 10 per ogni kg/ora di getti colati). Il kg/ora era una unità di misura dato dalla quantità di ghisa colata divisa per il numero delle ore realmente lavorate in un mese.

Il cottimo era uguale per tutti e non era quindi direttamente incenti­vante; lo si poteva intendere come un cottimo in quanto era legato alla produttività aziendale, tuttavia per il fatto che era collettivo e non individuale lo si poteva catalogare tra i premi di produzione.

Il premio veniva corrisposto a tutti i dipendenti, sia quelli direttamente inseriti nella produzione (formatori, colatori…) che agli indi­retti (impiegati amministrativi, addetti alle pulizie ecc.).

Un cottimo quindi che nel premiare la maggiore produttività della fabbrica impediva i pericolosi meccanismi di estrema incentivazio­ne individuale.

Era anche equo, poiché, pur tenendo conto della situazione di disa­gio e di fatica di alcuni lavoratori rispetto ad altri, non divideva gli addetti alla produzione dagli “indiretti”, gli operai dagli impiegati, i bravi dai meno bravi, gli svelti dai pigri.

Tutti erano chiamati ad avere una coscienza collettiva per aumen­tare il colato giornaliero e quindi i soldi in busta paga.

Ognuno percepiva in base alle ore lavorate realmente in un mese, cosa che premiava la costanza nel lavoro e puniva l’assenteismo. Fino al 1957 l’indice della produzione si è innalzato in modo co­stante.

Tra la fine di quell’anno e l’inizio del ’58 avviene il già ricordato cambio di direzione di Concari, Soncini, Molinari, con il nuovo ma­nager Pino Stebini. A sette giorni dal suo insediamento, nonostan­te la dichiarata volontà di voler rispettare le norme contrattuali, con un pretesto, Stebini licenzia l’operaio Meloni.

Era questo il primo biglietto da visita del nuovo direttore e il primo segnale di avvertimento che stava per avviarsi in fonderia un nuovo corso.

Per quel provvedimento ingiustificato e incomprensibile agli occhi dei lavoratori, le maestranze tutte unite scesero in sciopero per ben 9 giorni riprendendo il lavoro solo a conclusione di un accordo che trovò la C.I. e i lavoratori spiazzati in quanto realizzato in tratta­tiva privata tra l’operaio licenziato e la direzione.

Era, questo modo di concludere la vertenza, un’altro segnale, un avvertimento della nuova direzione che aggravava i rapporti con la C.I. togliendole quel ruolo di contrattazione peraltro stabilito dal Contratto Nazionale di Lavoro (CNdL).

“Da quel momento incominciò un nuovo regime: si violarono le pre­rogative della Commissione Interna, si accentuarono le multe, i ri­chiami, le sospensioni, e si fecero pressioni per accelerare il ritmo di lavoro fissando i tempi”.

Accanto a questi importanti e significativi sviluppi della situazione dei rapporti sindacali interni alla fabbrica contribuiscono all’ulte­riore deterioramento posizioni divergenti e contrasti nella direzio­ne tecnica della fonderia.

Ad esempio, il primo impianto semiautomatico installato fin dal 1957, nel luglio 1958 non aveva ancora cominciato a funzionare in modo regolare e veniva impiegato parzialmente per una funzione che non era propria dell’impianto: la preparazione della terra.

Di concerto con la sottoutilizzazione dell’Hansberg, un incremento vertiginoso degli scarti, e una serie di conflitti a livello decisionale sul come impostare il lavoro. Alcuni responsabili e capi reparto si dimettono, altri vengono rimossi dalle loro funzioni.

La nuova direzione accuserà i lavoratori di essere responsabili del­la situazione di ingovernabilità e di aver sabotato gii impianti e la produzione. Le maestranze dal canto loro respingeranno le accuse attribuendo il calo di produzione e il maggior numero degli scarti ad una insipiente politica imprenditoriale oltre che ad una poco li­neare conduzione tecnica che assommava in fonderia errori su er­rori.

”Noi operai che lavoriamo a cottimo abbiamo sempre avuto inte­resse a produrre molto e che tutta la produzione venisse buona, perchè in tal modo più alti erano i nostri guadagni”. Contemporaneamente alla messa in funzione completa dell’Han­sberg e ad una nuova impostazione dell’organizzazione del lavoro rispetto quella preesistente, il direttore propone, e la Commissione Interna accetterà, di modificare il sistema del cottimo, con l’assi­curazione tuttavia data alle maestranze che, a fronte della stessa produzione, avrebbero guadagnato gli stessi soldi.

Nel frattempo i capi reparto che erano entrati in conflitto con la direzione sono sostituiti con altri più obbedienti e rigidi nel far rispet­tare le direttive dell’azienda.

I formatori, che con Concari lavoravano in coppia sulle formatrici meccaniche, con il nuovo sistema organizzativo strettamente lega­to alla natura del cottimo, che da collettivo diventa individuale, la­voreranno per proprio conto e ognuno ritornerà a formare la staffa completa.

Ad ogni operaio sarà segnata la produzione giornaliera sulla cui base verrà corrisposto il cottimo. La squadra dei facchini che un tempo aveva il compito di preparare la terra e distaffare i getti, vie­ne inserita nel processo di produzione.

Con la media produttiva realizzata dai formatori dovevano essere pagati gli “indiretti”.

Alla prima busta paga percepita dopo l’introduzione del nuovo si­stema di cottimo sia i formatori che gli indiretti potevano registrare una diminuzione del salario pur a fronte di un incremento della pro­duzione.

La Commissione Interna il giorno successivo alla giornata di paga, l’11.2.59, in un incontro con la Direzione chiede che vengano rispet­tati e onorati gli impegni stabiliti all’accettazione di entrambe le partì del nuovo sistema del cottimo.

Per tutta risposta la Direzione rinnega gli impegni e dichiara “con tono provocatorio e minaccioso” la propria indisponibilità ad inte­grare il maltolto.

Se i lavoratori avessero insistito, la Direzione avrebbe tutt’al più pagato e reintegrato la somma mancante del solo mese di gennaio, abolendo il cottimo, per tutti, nei mesi successivi.

Il giorno seguente le maestranze entrano in agitazione sindacale e indicono uno sciopero di un’ora con assemblea nei reparti. L’importanza della questione in discussione è tale da interessare tutti i dipendenti e da generare un acceso dibattito tra i lavoratori. La Commissione Interna insieme alle maestranze decide di protrar­re di mezz’ora lo sciopero fino alle 9,30 al posto delle 9, dopo di che il lavoro riprende fino a mezzogiorno.

All’uscita dai reparti ia Direzione aveva affisso ii seguente comuni­cato:

“Si rende noto che per esigenze di ordine tecnico, non si possono concedere e accettare interruzioni durante l’orario di lavoro e pri­ma dell’inizio del lavoro stesso. Pertanto nel caso che ciò si verifi­casse, il lavoro verrà sospeso per tutta la giornata e per tutte le maestranze”.

Non si trattava solo di un grave attacco alla libertà di sciopero ma anche di una precisa intimidazione rispetto la forma e le modalità dello sciopero.

È probabile che la mezz’ora di sciopero in più del mattino abbia fat­to andare su tutte le furie il direttore, dai fatti risulterà tuttavia la ri­cerca continua dello scontro.

Una attenta lettura del comunicato induce a ritenere che tutti i la­voratori della Fond-Ghisa il pomeriggio potevano starsene a casa e che il lavoro effettuato dalle 9,30 alle 12 era stato praticato contro il parere della direzione.

La Direzione tuttavia non aveva tenuto, ne, voleva probabilmente tenere, in nessun conto le norme stabilite dal CNdL e dagli accordi interconfederali che delegavano alle Direzioni e alle C.I. il compito di decidere, entrambi consenzienti, qualsiasi modifica dell’orario di lavoro.

Chiunque avrebbe inteso, non avendo la Direzione impugnato il co­municato alla fine dell’assemblea e non avendo mandati a casa su­bito i lavoratori, che quella, come tante norme unilaterali di questo nuovo direttore, era da intendersi come generale e valida per i gior­ni successivi.

Nessun comunicato, infatti, che richiamasse la situazione determi­natasi il mattino, fu affisso alla bacheca, creando disagio e confusione tra i lavoratori anche per le poco chiare disposizioni date a capi reparto.

Alcuni lavoratori pertanto avevano capito che non si sarebbe dovu­to lavorare, altri invece sì. Nel timore tuttavia di incorrere in sanzio­ni disciplinari, che a quel tempo si erano fatte numerose, i lavorato­ri alle 13 ripresero il lavoro, per cessarlo subito dopo quando il di­rettore accusò i lavoratori di voler occupare la fabbrica. L’intervento del direttore, ambiguo nella forma, fece sorgere parec­chi interrogativi e perplessità anche per la sostanza, in quanto se lo stare a lavorare nonostante il comando della Direzione di cessa­re il lavoro poteva lasciar pensare ad una occupazione di fabbrica da parte dei lavoratori, l’esser cacciati cosi repentinamente senza accordi con la C.I., aveva il sapore della serrata da parte dell’Azien­da.

Una ventina di lavoratori si attardarono pertanto sul luogo di lavo­ro, probabilmente per riflettere e discutere sulla situazione che si era venuta a determinare, cosicché all’uscita, in quanto ultimi a la­sciare la fabbrica, si videro segnare il loro nome su un foglio di car­ta, e comunicare lì per lì il licenziamento.

Nello stesso pomeriggio nei locali della mensa si tenne una assem­blea dove i lavoratori decisero lo sciopero ad oltranza.

Cominciò così il 13 febbraio quello che può definirsi il più lungo e rabbioso scontro tra lavoratori e padroni che si ricordi a Mirandola. L’azienda non aveva alcuna intenzione di recedere: in fondo lo scontro pareva voluto, quasi ricercato con insistenza, dal nuovo di­rettore.

L’obiettivo era forse quello di ridurre la forza e l’unità fra i lavorato­ri della fonderia che si era consolidata nel vivo degli scontri politici e sindacali dell’inizio degli anni ’50, quando diventò palese il tenta­tivo di Scelba di stroncare il movimento dei lavoratori e in modo particolare di colpire la C.G.I.L.. Erano tempi duri, di miseria, erano anni, in cui i lavoratori erano costretti a difendere con lo sciopero quel poco che avevano precedentemente ottenuto con lotte lunghe e dolorose.

I lavoratori rimasero pertanto sulla loro posizione, consapevoli che lo scontro poteva diventare lungo nel tempo e difficile da sostene­re, ma consci anche del fatto che se fossero passati i 20 licenzia­menti si sarebbe sciolta la C.I., distrutto il sindacato interno alla fabbrica e inesorabilmente piegati i lavoratori alla volontà del pa­drone per lungo tempo.

Erano due disegni antitetici, difficili da comporre a soluzione. La mediazione risultava possibile quindi solamente se una delle due parti avesse rinunciato a tutto o almeno a parte del proprio dise­gno.

Ciò però non si verificò, anzi, man mano la vertenza procedeva si caricava sempre di più di significato politico, si allargava a mac­chia d’olio nel territorio tra i lavoratori dell’industria che più volte scesero in lotta per solidarietà con i lavoratori della Fond-Ghisa, e veniva fatta conoscere ai commercianti, ai contadini, agli artigiani, alla pubblica opinione in generale.

Con il 13 febbraio iniziarono da parte dei lavoratori il presidio dei cancelli della fabbrica, la ricerca continua e affannosa di trattative a qualsiasi livello fosse stata disponibile l’azienda, e l’informazio­ne dell’opinione pubblica di quanto stava accadendo alla Fond- Ghisa attraverso ciclostilati.

Intanto il Consiglio Comunale, il giorno 14, si riuniva per un primo esame della situazione.

L’oggetto fu comunque rinviato per l’assenza in aula dei gruppi consiliari della D.C. e del P.S.D.I..

Nel frattempo tutte le mattine i lavoratori si trovavano presso la lo­cale Camera dei Lavoro.

La C.I. informava i lavoratori degli eventuali sviluppi della vertenza o della vana ricerca di un tavolo di trattativa con la Direzione aziedale, insieme venivano decise le iniziative di lotta e, ai vari gruppi, cui erano state affidate mansioni diverse, venivano attribuiti i com­piti e gli incarichi giornalieri.

Ogni giorno e per tutti i 49 giorni della vertenza furono inventate, escogitate nuove e sempre più originali iniziative.

I primi giorni, oltre alla informazione a tappeto di quanto stava ac­cadendo alla Metallurgica Focherini, e alla ricerca continua di uno spiraglio di trattativa, i lavoratori spinsero il loro impegno nella ri­cerca di un dialogo e di una discussione franca con quanti avevano scelto di non scioperare.

Non tutti infatti, tra i 120 dipendenti della Fond-Ghisa, scelsero la strada della lotta. Una quarantina tra operai e impiegati decisero di entrare in fabbrica a lavorare.

In fabbrica erano entrati gli impiegati, la cui tradizionale immagine non poteva portarli a scioperare, i tecnici che avevano delle re­sponsabilità organizzative e produttive e diversi operai per la mag­gior parte provenienti dall’area dei cosidetti sindacati bianchi.

La sera, la parte di operai che non era stata impegnata nel presidio della fabbrica, (e che veniva mantenuto ininterrottamente giorno e notte), andava nelle case per cercare di convincere i lavoratori che avevano scelto, per necessità o per convinzione personale, di non scioperare.

Gli incontri, le discussioni, le riflessioni valsero a far cambiare po­sizione a una decina di operai che si accodarono alla schiera di la­voratori in lotta.

Questi positivi risultati contribuirono a mantenere alto il morale dei lavoratori e far loro sperare in una conclusione sufficientemen­te rapida della vertenza.

Ma la posizione intransigente della direzione aziendale contribuì invece a prolungare la vertenza e ad inasprire la lotta.

Sempre nel libretto fatto circolare a Mirandola durante i giorni di lotta si poteva leggere:

”ll Direttore si è rifiutato di incontrarsi con i Sindacati Comunali della C.I.S.L. e della C.G.I.L., servendosi del pretesto di non volere la Commissione Interna all’incontro. I Dirigenti della fabbrica si so­no rifiutati, di fronte ai Capi Gruppo Consigliari e al Sindaco di Mi­randola, di accettare il confronto delle tesi con i nostri rappresen­tanti.

A nome del padrone, l’Associazione degli Industriali, ha rifiutato di accogliere la procedura del collegio di conciliazione e di arbitrato (chiesto dalla F.I.O.M. Provinciale per mandato nostro) servendosi di un assurdo cavillo in quanto la procedura stessa è stata concor­data e sottoscritta dalle parti 8 anni fa.

APPARE EVIDENTE CHE IL PADRONE NON VUOLE IL COLLEGIO PER MANCANZA DI ARGOMENTI CHE GIUSTIFICHINO I LICEN­ZIAMENTI.

Venendo meno ai propri doveri di rispetto alla Autorità dello Stato, il padrone non si è presentato all’incontro convocato dall’Ufficio Provinciale del Lavoro su richiesta dei lavoratori.

Come condizione per venire a trattare la Direzione chiede di cessa­re lo sciopero (dimenticando in tal modo che lo sciopero è la conse­guenza dei licenziamenti). Noi lavoratori abbiamo delegato la F.I.O.M. Provinciale ad informare l’Autorità di Governo dichiarando che noi siamo disposti di sospendere lo sciopero se vengono so­spesi i licenziamenti e se rientriamo tutti in fabbrica a lavorare. Da questa reciproca rinuncia si può iniziare la trattativa sia nel me­rito del provvedimento di licenziamento, sia anche nel merito delle questioni relative ai cottimi”.

Ma dovevano passare ancora diversi giorni prima dello sblocco del­la vertenza e intanto era pieno inverno. Neve e freddo rendevano ancora più duro il presidio dello stabilimento. La città comunque sosteneva in ogni modo e con ogni mezzo i lavoratori in sciopero.Il gruppo che con il carrettino andava in giro per le campagne della Bassa, alla ricerca di solidarietà morale e materiale, ritornava pie­no di farina, latte, uova, verdura; i bottegai del centro avevano deci­so di far loro credito finché non fosse conclusa la vertenza.

Il Consiglio Comunale a più riprese e con unanime partecipazione di tutti i gruppi politici ebbe modo di esprimere ai lavoratori in scio­pero, moralmente e in solido, la propria solidarietà sia in sedute or­dinarie che straordinarie.

La Commissione Consiliare appositamente nominata dal Consi­glio, rilevato che la Direzione aziendale non aveva alcuna intenzio­ne di modificare il proprio atteggiamento di rifiuto alla trattativa, fa affiggere ai muri questo manifesto:

“CITTADINI

La Commissione nominata dal Consiglio Comunale, dopo aver sentito i Rappresentanti Sindacali, la Commissione Interna, nonché la Direzione, ha esaminato attentamente e obbiettiva­mente la questione relativa alla situazione creatasi nella Fon­deria Ghisa di Mirandola in seguito ai 20 licenziamenti

RILEVA

che la situazione interna dell’azienda è delicata per la carenza di quei rapporti di umano rispetto, essenziali per il normale funzionamento della azienda, nel comune interesse delle parti, sulla base del riconoscimento reciproco dei doveri e dei diritti e dell’osservanza del contratto di lavoro

INVITA

vivamente la Direzione ad esaminare in modo responsabile la situazione per risolvere positivamente l’angoscioso problema dei licenziamenti: importante passo verso quella distensione che questa Commissione si è prefissa di realizzare nell’inte­resse dell’economia locale

SI IMPEGNA

a continuare nell’azione di convincimento fra le parti per con­tribuire a normalizzare la situazione e garantire la vita e la pro­sperità della Azienda stessa, confidando nella sensibilità della Ditta e delle Maestranze interessate al ristabilimento della se­renità nel luogo di lavoro”

Sempre nella seduta del 2 marzo il Consiglio all’unanimità delibera di “autorizzare il Sindaco ad emettere subito, in attesa della supe­riore approvazione, un mandato di pagamento di £. 100.000 a favore dell’E.C.A. di Mirandola per l’assistenza alle famiglie degli operai della Fond-Ghisa”.

Atteggiamento di analoga solidarietà morale fu tenuto, ed espres­so anche pubblicamente, dalle autorità ecclesiastiche locali che fecero intervenire il proprio Vescovo.

“Solo il gruppo di medici locali espresse riserve sul nostro conto; il rimprovero o l’accusa era di essere troppo scioperaioli, ma il tempo e la necessità pare abbia fatto maturare anche questa categoria di lavoratori”.

Gli altri operai delle fabbriche più volte scesi in sciopero per solida­rietà, finito l’orario di lavoro contribuivano al presidio della fabbri­ca. Ma non tutti i sindacati aderirono allo sciopero, e non tutti i la­voratori della Fond-Ghisa erano rimasti fuori dai cancelli. Queste divisioni indebolivano il fronte della lotta e rafforzavano la speran­za della Direzione di concludere a suo modo la vertenza.

“Ogni mattina presso la Camera del Lavoro si faceva il punto della situazione, ma la vertenza rimaneva sempre allo stesso punto di partenza. Non si intravvedeva una via d’uscita.

Intanto s’erano venute a determinare delle situazioni familiari pie­tose.

”La miseria era tale che oggi è difficile immaginarla. A queste fami­glie si cercava di dare loro un aiuto con sussidi maggiori ma non sempre si ovviava alla fame e alla miseria”.

Verso la metà di quei 49 giorni di lotta, nonostante la solidarietà espressa dalla città e dalla sua gente, tra i lavoratori era calata la stanchezza e l’amarezza.

La sfiducia nella possibilità di veder risolta la vertenza era filtrata, si era insinuata tra i lavoratori in sciopero segnandone gli animi. Occorreva una nuova strategia che ridasse fiducia a tutta quella gente.

Unanimamente, i lavoratori decisero una manifestazione in Via Castelfidardo, sede privata della Direzione, e determinarono di inviare una delegazione a Rapallo città in cui risiedeva il vecchio Italo Focherini che reputavano essere all’oscuro del dramma che stavano vivendo la fabbrica e i lavoratori.

La manifestazione davanti la sede privata della Direzione si conclu­se con la dispersione dei dimostranti a suon di manganellate e l’ar­resto di Sergio Ansaloni, Franco Mantovani e Otello Molinari. Condotti in caserma il primo fu rilasciato, gli altri furono invece condotti a Modena ospiti delle carceri di S. Eufemia.

La delegazione dei lavoratori che era stata inviata a Rapallo per in­contrare Italo Focherini trovò, davanti la casa del vecchio titolare, alcuni dirigenti aziendali della Fond-Ghisa di Mirandola apposita­mente giunti a Rapallo per evitare l’incontro tra la C.I. e l’anziano proprietario.

L’insistenza della delegazione e un intervento personale del vec­chio, consentì di far sedere attorno ad un tavolo i rappresentanti dei lavoratori e la Direzione aziendale alle quali il vecchio Focherini propose un compromesso onorevole e accettabile per tutte e due la parti

La mediazione consisteva nelle dimissioni dalla C.I di Sergio An­saloni in cambio dei 20 licenziamenti.

All’accettazione di tale proposta il vecchio Focherini avrebbe con­tribuito personalmente a dare una congrua somma di denaro per alleviare le sofferenze e il disagio di quanti erano stati per 4 setti­mane senza salario.

Una mediazione che incontrò subito il favore della delegazione sin­dacale e una parziale riserva da parte della Direzione. Una volta a Mirandola però la Direzione cambiò parere.

La manifestazione di Via Castelfidardo si era infatti conclusa ma­lamente e aveva allontanato ulteriormente le parti.

Questi due avvenimenti contribuirono ad attenuare la stanchezza, e la sfiducia che si era prodotta tra gli scioperanti dando slancio e creando nuova solidarietà attorno ai lavoratori.

”Il rifiuto ostinato della Direzione a non accettare nessun compro­messo aveva prodotto una larga solidarietà anche in ambienti fino a quel momento refrattari alla nostra lotta.

Il gruppo dirigente aziendale era isolato, così pure i crumiri. La gen­te, la piazza, tolse loro il saluto”.

Il largo fronte di solidarietà, di consenso e di intensa partecipazio­ne alla lotta degli operai della Fond-Ghisa fu determinante nel proseguio per far capitolare la Direzione aziendale dalla posizione in­transigente assunta e per firmare un accordo che non prevedeva nessun licenziamento.

Il giorno 4 aprile la Commissione dei rappresentanti dei Gruppi Consiliari, appositamente istituita per la vertenza della Fond- Ghisa, giudicò indispensabile ai fini di una soluzione positiva della trattativa, ricoinvolgere il vecchio Focherini.

L’allora sindaco Gherardi Celso, Neri Orlanzo, Bordini Giuseppe, Cabibi Vito, nella stessa sera del 4 partirono per Rapallo. L’incontro dovette dare esiti favorevoli se nella deliberazione della Giunta Municipale del 13 aprile, con la quale venivano liquidate le spese della missione, si può ancora leggere: “l’incontro con il sig. Focherini si è felicemente concluso con la bonaria composizione della vertenza e la immediata ripresa delle attività della fabbrica, per cui dopo circa due mesi di ansie per le sorti dell’Azienda e della economia locale, sono cessate le preoccupazioni e le attività e l’or­dine hanno ripreso il loro ritmo normale”.

Il contributo personale di Italo Focherini fu perciò determinante nella conclusione delle trattative; il giorno 7 fu redatto il verbale d’accordo sottoscritto rispettivamente dalla C.I., dalla Direzione aziendale e dalla Commissione Comunale di cui si riporta la com­pleta stesura.

“VERBALE D’ACCORDO

Oggi 7 Aprile 1959 si è definita la vertenza fra la “FONDERIA GHI­SA MIRANDOLA” e le maestranze in sciopero, con il seguente ac­cordo:

1 ° La ripresa del lavoro avverrà quanto prima con un numero di 80 operai circa e 14 tra impiegati ed intermedi.

2° Le rimanenti maestranze sospese verranno messe in cassa in­tegrazione e gradualmente riammesse alla produzione entro un termine massimo decorrente dai 60 ai 90 giorni a partire dalla data di stipulazione del presente accordo.

Qualora la possibilità di lavoro non consentissero la riammis­sione di tutte le maestranze nel termine di cui sopra, le parti si incontreranno per esaminare la situazione.

3° Previa accettazione dei 20 licenziamenti, la Ditta modificherà a favore dei licenziati la causale del licenziamento, passando dal­la lettera B alla lettera A dell’articolo 38 del C.N.d.L. e si impe­gna a corrispondere la totale indennità di licenziamento, anzi­ché parziale, come previsto dallo stesso art. 38 lett. A.

La Ditta si impegna inoltre a riassumere – con il trattamento economico acquisito – [dai] 16 ai 20 licenziati, entro un termine minimo di mesi 3 e massimo di mesi 6 a far tempo dalla data del presente accordo.

La ditta infine – accogliendo la richiesta dell’interessato – si im­pegna a comprendere il lavoratore Benatti Nino fra i 16 che ver­ranno riassunti.

4° Gli operai sospesi e licenziati o dimissionari saranno economi­camente assistiti usufruendo del fondo messo a disposizione da persona al di fuori dell’azienda ed amministrato da un appo­sito Comitato.

5° La Ditta si impegna, ultimato il periodo sperimentale in corso, a trattare con la C.I. e i rappresentanti sindacali, il cottimo; le trattative in merito avranno inizio non oltre il 30 maggio p.v.

6° Resta fermo l’impegno reciproco dell’osservanza del C.N. e dell’accordo sulla Commissione Interna.

7° La Ditta si riserva di esaminare eventuali dimissioni volontarie.

8° La presente transazione estingue qualsiasi altra procedura in ordine a tutti i licenziamenti in atto.

Letto, approvato e sottoscritto.

Le Maestranze                                                               La Direzione

La Commissione Comunale”

Gli operai, come peraltro stabilito dall’accordo, consentirono di rientrare in fabbrica a scaglioni per esigenze tecnico-produttive e il vecchio Focherini onorò il suo impegno assicurando per i cassain­tegrati temporanei un contributo straordinario.

“Come la miseria non ha limiti anche la cattiveria non ha confini.

Per non rispettare l’accordo sottoscritto, la Direzione cambiò la proprietà dell’Azienda creando una società di comodo per non es­sere più soggetta a rispettare i patti”.

Di questa società per azioni entrarono a far parte una quarantina tra operai, tecnici e impiegati.

Iniziava in quel momento una crudele e lacerante divisione tra le maestranze. La più amara delle fratture, quella che finisce e segna perennemente gli animi della povera gente, e cioè: la disputa tra i poveri, tra coloro che lavorano.

Con la nuova società furono tutti riassunti tranne Ansaloni Sergio, Mantovani Franco, Guagliumi Oreste, Pasquina Casarini e Bosi Ri­na.

Il disegno che politicamente non era passato, anche per il concor­so della città a favore della lotta condotta dalle maestranze della Fond-Ghisa, divenne possibile con uno stratagemma giuridico e determinò per diversi anni il clima interno alla fabbrica.

Furono probabilmente quei giorni di lotta, quelle sconfitte quoti­diane che un imprenditore deve registrare quando i suoi operai so­no in lotta, a far maturare prima e a determinare poi nel gruppo diri­gente della F.G.M. la scelta e la volontà di coinvolgere i lavoratori nella gestione dell’impresa.

Il vecchio assetto proprietario decise infatti di rinunciare alla fab­brica proponendo a tutti i lavoratori la costituzione di una società a responsabilità limitata a carattere cooperativo. Ogni dipendente, con £. 10.000 poteva diventare socio, nessuno poteva avere più di un’azione e quindi tutti contavano, operai e dirigenti, alla stessa maniera.

Era prevista una Assemblea dei soci alla quale venivano demanda­te le scelte di politica imprenditoriale e le decisioni sugli atti di straordinaria amministrazione.

L’Assemblea avrebbe dovuto eleggere un Consiglio di Amministra­zione (esecutivo) al quale erano affidati i compiti di direzione tecni­ca e amministrativa dell’impresa. Ne sarebbe nata insomma una cooperativa di produzione!

La fabbrica era stata valutata sui 300 milioni e la vecchia proprietà avrebbe lasciato il tempo necessario per pagare il debito.

Perchè solo 37 dei 114 dipendenti accettarono di farne parte? Erano forse le 10.000 lire o era piuttosto la paura della prospettiva, del futuro?

Nella scelta di distacco dalla partecipazione alla società quanto avevano influito l’odio e il rancore esplosi durante la lotta?

Quale fu il ruolo esercitato dai sindacati e dai partiti politici?

Era solo diffidenza verso il gruppo dirigente che l’aveva proposta o erano state decisive anche vecchie sedimentazioni ideologiche che in qualche misura avevano ostacolato e impedito la massiccia partecipazione operaia nell’impresa?

L’invito a partecipare alla società fu rivolto a tutti e nella stessa maniera, oppure no?

Nessuno pensò al danno che si sarebbe causato dividendo i lavora­tori tra soci proprietari da una parte e dipendenti dall’altra?

La proposta, che si dice essere stata pensata e voluta anzitutto da quel Soncini che aveva avuto un ruolo importante nella cacciata del vecchio direttore Ghirri, fu attentamente valutata in tutte le sue implicazioni dal sindacato oppure no?

Nella proposta della Direzione vi era anche il calcolo che non tutti avrebbero accettato e che quindi i nuovi soci avrebbero potuto con­tare su una base più ampia di consenso nelle scelte di politica in­dustriale, situazione essenziale per attenuare nel futuro gli elemen­ti di conflittualità interna?

L’Amministrazione Comunale, terminata la lotta, seguì ulterior­mente gli sviluppi della situazione, diede un proprio contributo, pa­reri e consigli oppure lasciò che la questione venisse affrontata e risolta aN’interno della fonderia?

Sono queste alcune delle domande che non hanno avuto una rispo­sta e che potrebbero essere oggetto di riflessione storica e di at­tenta analisi politica dei partiti, dei sindacati e delle associazioni industriali.

La lotta aveva lacerato gli animi, diviso i lavoratori, aumentato le incomprensioni e le distanze tra direzione aziendale e sindacato. Non si poteva ritornare al lavoro come se nulla fosse accaduto! La vertenza era stata talmente dura che in diverse occasioni si sfiorò lo scontro fisico.

L’azienda era uscita sconfitta su diversi fronti: aveva dovuto ritira­re i licenziamenti che furono causa degli scioperi, aveva perduto tra l’opinione pubblica mirandolese la stima e il consenso che si era guadagnata in tanti anni di lavoro, aveva dovuto rinunciare a commesse di lavoro, perdere clienti e forse in parte anche la consi­derazione e il prestigio all’interno del sistema industriale.

I lavoratori dal canto loro erano usciti vittoriosi sul piano sindacale ma la lotta era stata talmente lunga e dura che difficilmente avreb­bero potuto sostenere un benché minimo scontro o conflitto inter­no.

In qualche modo l’azienda doveva avere una rivincita e l’ottenne non riassumendo, dopo aver costituito la società, cinque tra i lavo­ratori più in vista durante le agitazioni e gli scioperi del ’59. D’altro canto nessuno più poteva pensare di cominciare una nuova lotta e così passarono i 5 licenziamenti.

Terminata quella lotta, costituita la società, la fabbrica riprende a lavorare. Erano cambiate tuttavia molte cose nell’azienda, nel suo rapporto con la società, tra gli stessi lavoratori.

I 37 dipendenti entrati in società con le 10.000 lire di quota aziona­ria erano diventati padroni-operai e quindi, pur svolgendo le stesse mansioni di un tempo, si sentivano ed erano sentiti dagli altri ope­rai, “diversi”, controllati e controllori, sorvegliati e sorveglianti, produttori e partecipi dei profitti, servitori e padroni.

Da questa situazione non poteva che nascere un clima di sospetto, paura, di continua tensione psicologica.

“Il modo con cui questi 37 soci partecipano tutt’ora agli utili dell’impresa non si conosce esattamente” afferma ancora oggi un operaio del Consiglio di Fabbrica.

Per una piccola parte dei 37 si era aperta la strada ad incarichi diri­genti all’interno dell’azienda, altri invece continuarono a svolgere le mansioni precedenti.

La nuova società poteva contare su una divisione interna tra i lavo­ratori che, se alimentata opportunamente, poteva consentirle una grande capacità di manovra sia su questioni politiche generali che salariali, normative, o riguardanti l’organizzazione del lavoro. L’arma dei licenziamento come strumento di pressione e ricatto psicologico nei confronti del lavoratore rimase attiva per alcuni an­ni ancora dopo la lotta del 1959. Così come accadeva un po’ dap­pertutto in Italia, in quegli anni le assunzioni erano per lo più sug­gerite dalle locali parrocchie o caserme dei carabinieri e non era ra­ro che i neo assunti svolgessero per propria idea o perchè solleci­tati da altri, una azione non propriamente tesa alla unità dei lavora­tori.

Era questo il clima che si era creato in fonderia dopo quella lotta.

Tratto da: Il lavoro e la memoria – Fonderia Ghisa Mirandola – 1935-1982

A cura di Vittorio Erlindo

L’immagine è tratta dalla collezione privata della “Fonderia Olivetti”

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