Fonderia Ghisa – Gli anni 70-80 ….Capitolo undicesimo – Ultimo

Fonderia Ghisa – Gli anni 70-80 ….Capitolo undicesimo – Ultimo

11 Luglio 2018 0

Gli anni ’70-’80 la completa automazione, i problemi nuovi, le nuove categorie e funzioni emergenti

La Fond-Ghisa di Mirandola, e lo abbiamo visto in diversi momenti e passaggi della sua storia organizzativa e produttiva, ha quasi sempre seguito gli andamenti e i cicli di crisi o di ripresa dell’indu­stria a livello nazionale, a conferma del fatto che anche le piccole e medie realtà vivono all’interno di un quadro di programmazione economica. La storiella del ”siur Brambilla” nato dal nulla e che solo contro tutti allarga e potenzia la propria azienda, o costituisce una eccezione che conferma la regola, o esiste solo nella fantasia di qualche azzeccagarbugli e scribacchino di questioni economi­che.

Infatti, di concerto con la situazione nazionale del decennio 70, che ha visto un potenziamento delle dimensioni medie delle fonde­rie, pur a fronte dì un ridimensionamento del numero delle aziende e degli addetti impiegati, anche la Fond-Ghisa potenzia il proprio apparato produttivo complessivo.

Da un lato perfeziona e innalza il livello tecnologico dei sistemi di formatura, consolidando l’apparato produttivo della “fonderia pu­ra”; dall’altro, come conseguenza inevitabile della propria specia­lizzazione nella esecuzione di getti di fumisteria, raddoppia mezzi, aree e uomini della smalteria.

La vocazione della Fond-Ghisa di mantenere al proprio interno il processo centrale e finale della lavorazione è realizzato con il de­centramento delle ultime lavorazioni di sabbiatura e produzione anime.

Pur in una situazione di difficoltà e crisi temporanea, peraltro este­sa a tutto il settore siderurgico, che l’ha costretta nell’anno corren­te a utilizzare la cassa integrazione e a non rimpiazzare, con nuovi assunti, le dimissioni volontarie o per anzianità, ancor oggi la Fon­deria Ghisa di Mirandola con i suoi 200 dipendenti e con il lavoro decentrato che ne occupa a tempo pieno, per le sole sue produzio­ni altri 150, è tra le prime 50 aziende “medio-grandi”, a livello nazio­nale, con un numero di addetti tra i 200 e i 500 dipendenti.

”La distribuzione delle aziende per dimensioni secondo i dati sti­mati dall’Assofond per il 1976 indica la presenza di sole 4 fonderie oltre i 1000 addetti, altre 5 tra i 500 e i 1000 addetti, ed altre 50 tra i 100 e i 500 addetti. Tutte le altre fonderie (oltre I’80%) sono di pic­cole dimensioni”.

Nonostante circa 300 aziende tra il 1970 e il 1978 abbiano chiuso i battenti e il settore abbia perduto 14.000 addetti sempre nello stes­so periodo, la Fond-Ghisa si può dire che abbia complessivamente tenuto, sia dal punto di vista dei prodotto colato che nel manteni­mento del numero degli addetti e nel potenziamento degli impianti. Nello stesso territorio regionale la Fond-Ghisa ha sempre rappre­sentato un’importante punto fermo sia per la sua tradizionale pro­duzione legata al settore agricolo (1500 tonn. di prodotto annuo co­lato) che per la produzione direttamente utilizzata dai settori idro- termo-sanitario e degli elettrodomestici che la vede in pratica uni­ca produttrice specializzata nella regione con le sue 6.000 tonn. di ghisa annua prodotta per i soli getti di fumisteria. Oggi, 1982, la produzione per settori di impiego è così suddivisa:

Agricoltura 5%

Industria 35%

Fumisteria 60%

Inoltre sia per la dimensione dell’impresa che per i processi tecno­logici venutisi a determinare con l’inserimento degli ultimi impianti automatici, la Fond-Ghisa, come peraltro risulta da alcune tabelle di ”Le fonderie”, op. cit. si è mantenuta nella fascia cosidetta alta: nelle prime 8 della regione con oltre 130 dipendenti su un totale di 69 imprese e nelle prime 11 aziende d’alto livello tecnologico su un totale di 42. Si riportano a tal riguardo le tavole esplicative.

Suddivisione delle aziende per fasce tecnologiche nelle varie classi di dimensioni provincia di Modena

Numero imprese per dimensione

Province 0-30 31-130 oltre 130 Totale

imprese

Totale

addetti

Bologna 4 7 2 13 796
Modena 11 8 5 24 2.559
Forlì 4 1 1 6 472
Piacenza 6 2 8 204
Parma 4 2 6 245
Ferrara 2 4 6 246
Reggio 3 3 6 238
Totale imprese 34 27 8 69 4.760

 

Dimensioni

aziende

Fasce tecnologiche Totale N. Imprese
Bassa Media Alta
0-30 7 2 3 12
31-130 10 8 4 22
oltre i 130 4 4 8
17 14 11 42

 

Caratteristiche processo produttivo Provincia di Modena

 

Azienda Formatura staffe % Num. getti 20 kg. % P. getti 20 kg. Prod. tot. Prod. tot. ghisa (t.) 1978 Prod. annua x operaio (t.)
Mano Semiaut. Automa!.
Corni 30 70 16.000
Valdevit 100 301.950 45 15.500 47,6
Coop. Fonditori 100 262.500 50 10.500 39,6
Fonderia di Modena 55 45 164.815 35 9.418 39,5
Fonderia di Mirandola 15 85 375.000 100 7.500 37,5
Castinghouse 10 90 101.500 70 2.900 37,5
Centauro 35 65 11.333 10 2.267 31,9
Sicar 30 70 52.500 35 3.000 42,8
Steton 100 24.000 20 2.400 53,3
Fonderie di Albareto 16 84 46.620 84 1.110 30,0
C.A.B. 40 60 10.000 40 550 17,2
Fonderia Metalli 20 80 16.000 80 400 22,2
Musto 100 28.800 80 720 40

Medio alta è infine la produzione di colato complessiva e per addet­to, soprattutto se si tiene conto che il peso medio di ogni getto è at­torno ai 2 kg. Decisivi a tal fine sono i tipi di processi automatici di formatura delle staffe e che porteranno la produzione individuale ossia dai 7,7 kg./ora del 1964 ai 25,5 kg./ora del 1981.

Può risultare utile a questo riguardo un confronto con la situazione provinciale da alcuni dati presi da una tabella de ”Le fonderie”40. Attualmente, nella formatura delle staffe, la Fond-Ghisa ha rag­giunto la completa automatizzazione.

Con il nuovo impianto Mec-Fond 2, installato nel 1981 ed entrato in funzione nel 1982, la Fond-Ghisa ha qualificato la struttura tecno­logica complessiva dell’azienda e, a seguito della espulsione delle ultime lavorazioni, ulteriormente definito l’assetto produttivo e or­ganizzativo.

L’introduzione dei sistemi automatici di formatura e il decentra­mento delle lavorazioni di finitura, hanno favorito il mutare sia del­le mansioni che dei livelli di nocività ambientale.

Ad esempio, così come con il trasferimento della sbavatura, montaggio, levigatura, verniciatura, si è registrata una contestuale estinzione di alcune mansioni a bassissimo livello professionale, con il decentramento della produzione anime si è invece verificata la perdita di un mestiere dal contenuto di specializzazione media. Se il travaso di queste lavorazioni, dalla casa madre all’indotto, non ha creato problemi alle aziende ospitanti, i lavoratori che pri­ma svolgevano quelle lavorazioni alla Fond-Ghisa hanno dovuto in modo repentino cambiare mansione.

Una parte si è inserita nei reparti di formatura, altri sono passati al­la smalteria altri ancora nelle attività di servizio della fonderia.

Nel complesso l’immissione dei nuovi impianti di formatura e il decentramento delle lavorazioni prima dette, hanno elevato il conte­nuto medio di professionalità delle varie mansioni e mestieri della Fond-Ghisa, anche se va aggiunto che le nuove tipologie impianti­stiche portano in essere una filosofia organizzativa del lavoro che determina un sempre maggior divario tecnico-scientifico tra il gruppo dei lavoratori che “serve” l’impianto e quello che lo “con­duce” “controlla” “manutenziona”.

nuovi sistemi di lavorazione automatici, per riassumere, in una serie concatenata e razionalizzata di passaggi, le centinaia di piccoli segmenti che formano il ciclo di lavorazione, sono stati strutturati, concepiti e costruiti attraverso l’assemblaggio di corpi meccanici, elettrici, idraulici, elettronici molto complessi, il controllo e la ge­stione dei quali richiede una elevata professionalità.

Se un tempo, quando il cottimo veniva attribuito in base alle mansioni, con le varie percentuali diversificate tra “diretti” e “indiretti”, i formatori avevano un coefficiente di moltiplicazione cari a 100 e i manutentori e i modellisti di 60, oggi, i valori in relazione alla specializzazione richiesta per il funzionamento degli impianti dovrebbero essere rovesciati.

Chi determina oggi la capacità produttiva degli impianti non è in­fatti il formatore, la cui professione è scomparsa con l’apparire dei sistemi semiautomatici e automatici di formatura, bensì il condut­tore degli impianti, la velocità con cui la squadra di manutenzione risolve il guasto, la perfezione con cui i modellatori hanno realizzato la placca, il perfetto stato e composizione della ghisa, preparata dagli addetti al cubilotto.

Semplificando ai minimi termini, alla Fond-Ghisa oggi coesistono due livelli fondamentali di professionalità: un primo livello di professionalità destinato a compiere brevi, parcellizate e dequalificate mansioni individuali o di squadra il cui tempo di apprendimento è di breve durata e può essere insegnato dal gruppo o dal vicino compagno di lavoro; un secondo livello, invece, in cui l’esperienza può anche servire per una più o meno brillante esecuzione dei compiti ma dove determinante è l’attività di studio, la conoscenza e aggiornamento di più ambiti del sapere tecnico.

Ecco perchè nei processi di formatura automatici, a differenza delle fonderie in cui si lavora ancora a mano, dove centrale rimane tuttora il ruolo del formatore e del ramolatore, assumono una posizione di rilievo il conduttore degli impianti e i sistemi organizzativi correlati di manutenzione e controllo.

Ad esempio:

” La valutazione se è meglio fermare o no un impianto è quasi sempre dipendente da una serie molteplice di variabili: la diagnosi tecnica del guasto temuto o previsto, le conseguenze tecniche ed economiche di un guasto più grave, le esigenze di sicurezza delle persone, la disponibilità di risorse per effettuare l’intervento, la situazione specifica di produzione (punto a cui è arrivata la colata, situazione del programma), il costo della fermata, ecc.”

” L’attività di diagnosi del guasto elettrico o elettronico nelle attuali condizioni è effettuabile solo da specialisti; la diagnosi meccanica o idraulica viene effettuata anche dal personale di esercizio, che spesso sopperisce ad una minore conoscenza specialistica con una più approfondita familiarità con l’impianto. Tuttavia ta­le attività, per quanto ritenuta estremamente utile dai manutentori e gratificante per gli operatori, viene svolta informalmente, in fun­zione del grado di formazione ed esperienza accumulata e del gu­sto personale.

– Gli interventi elettrici ed elettronici richiedono una specializzazio­ne lunga e complessa e una formazione scolastica, che non è qua­si mai posseduta dagli operatori. Per quanto riguarda alcuni inter­venti meccanici e idraulici, e soprattutto certe manutenzioni sem­plici, i vincoli di specializzazione sono meno forti: nella conserva­zione di questa divisione del lavoro manutentivo i fattori che più contano sono il tipo di orientamento, il tipo di saturazione, l’attitu­dine e la disponibilità alla flessibilità di impiego e al lavoro rischio­so, i problemi di status e di mercato del lavoro (“un manutentore , fuori può fare un secondo lavoro, io che so tutto della conduzione dei forni, no”, diceva un fonditore). Modificando questi fattori (co­me essi sono talvolta di fatto modificati) la divisione del lavoro po­trebbe essere (come talvolta è) diversa, allorché si volesse indurre una maggiore socializzazione fra gli operai e una maggiore professionalizzazione individuale.

Ma questa strada di arricchimento individuale per somma delle mansioni non porta molto lontano, e può essere fonte di equivoci e perfino di mistificazioni, allorché il lavoro manutentivo con cui si vuole arricchire la mansione operativa sia già di per sé povero.

È certo un quadro di riferimento nuovo quello che si presenta oggi nelle fabbriche e anche alla Fond-Ghisa.

I nuovi impianti con le loro tecnologie avanzate e le nuove genera­zioni con il loro bagaglio culturale di esperienza e di aspettative, ri­chiedono e impongono alle direzioni aziendali ed ai consìgli di fab­brica una forte volontà e una grande capacità di intendere, cono­scere, amministrare i nuovi rapporti, i nuovi problemi nati dalla re­lazione uomo-macchina.

Ad esempio il Mec-Fond 2 rispetto ai due impianti automatici, me­no recenti a fronte di una produzione oraria per addetto che è quasi doppia, occupa meno della metà degli addetti.

Caratteristiche produttive impianti di di formatura

 

Mec-Fond 1 Hansberg Mec-Fond 2
Produzione giornaliera 300 q.li 120 q.li 40 q.li
Addetti impianto 23-28 13 9
Ore di lavoro giornaliere 13 9,30 3
Produzione per addetto 92 kg/ora 98 kg/ora 148 kg/ora
Capacità produttiva media 23 q.li 12,6 q.li 13,3 q.li

Dall’81, da quando cioè si è iniziata l’installazione del Mec-Fond 2 non viene più reintegrato il turnover.

Il nuovo impianto infatti richiede pochissimi addetti.

Ma sarebbe corretto, esaustivo, affermare allora che le nuove tec­nologie sono portatrici di sola disoccupazione e di maggiori carichi di lavoro?

Intanto occorre dire che la costruzione di nuovi impianti è sinoni­mo di maggior occupazione nel settore delia meccanica specializata e della elettronica che sicuramente contengono livelli di specia­lizzazione più elevati e ambienti di lavoro migliori di quanto forni­sca la siderurgia; secondariamente, più aumenta l’automazione degli impianti più diminuisce la fatica fisica, per ultimo, anche l’ambiente di lavoro si è in parte migliorato un po’ dappertutto dove sono stati introdotti i nuovi impianti e le nuove tecnologie. Viceversa, sarebbe prudente delegare allora ai soli imprenditori la gestione direzionale delle nuove ristrutturazioni, esimersi dal con­trollare, da parte dei Consigli di fabbrica, i processi di razionalizzazione e di ammodernamento, o i criteri per una più equa distribuzio­ne dei contenuti di professionalità all’interno della mappa delle mansioni?

Sarebbe prudente inoltre lasciare in mano alla sola parte padrona­le la facoltà o la capacità decisionale, di ridividere, dove e come es­sa lo riterrà opportuno il lavoro intellettuale dal lavoro manuale? ”Il rapporto fra organizzazione del lavoro e professionalità si confi­gura come momento centrale della «condizione» del lavoratore. Per organizzazione del lavoro va inteso certamente il processo dell’or­ganizzazione produttiva così come concretamente si configura nell’azienda e in ogni suo particolare segmento. Ma il discorso, proprio partendo dallo specifico, non può che allargarsi, per inve­stire la logica produttiva nel suo complesso. La piena assunzione dei termini che emergono dal vario configurarsi del «come» si lavo­ra e produce, per coerenza logica e politica, riporta al «che cosa», ai «dove», al «per chi» si produce, agli aspetti decisivi che le rispo­ste a questi problemi hanno introdotto a livello dei rapporti sociali, nell’organizzazione della società, e persino negli stessi rapporti con l’ambiente e la natura. La professionalità non è un «dato», ma un «processo» che investe le forze produttive nel loro complesso e in particolare, tra esse, le classi lavoratrici intese nelle loro deter­minazioni storiche, economiche, politiche, culturali, I fattori fondamentali di questo «processo» scaturiscono dagli equilibri di potere che incessantemente vengono modificati e ridefiniti dalla dinami­ca dei rapporti politici e sociali, così come concretamente vengono configurandosi all’interno dell’organizzazione della produzione e del lavoro.

Indubbiamente, la logica del capitale tende a ridurre il lavoro a fun­zione subalterna, meccanicamente fruibile, scarsamente contrat­tabile. La parcellizzazione, la riduzione del lavoro a fatto-gesto ele­mentare, il taylorismo con tutti i suoi aggiornamenti, si coniugano con la tendenza ad assorbire il lavoro e la mansione nella macchi­na singola e più ancora nel «sistema delle macchine». Ma le carat­teristiche della forza-lavoro non sono immediatamente riducibili a merce e quindi meccanicamente subordinate all’organizzazione del lavoro. Non si tratta di un fatto di natura e non c’è solamente l’elemento «soggettivo» della lotta politica e della coscienza di classe. Per un verso, c’è il «fatto» che, a un certo livello dello svilup­po produttivo, un lavoratore non diventa mai obsoleto con la rapidi­tà con cui diventa obsoleta la mansione da lui svolta o la macchina a cui lavora. C’è una sorta di sfasatura oggettiva tra mezzo-forma di produzione e forza-lavoro, per cui, a un certo livello del suo svi­luppo, il capitale è costretto a richiedere una forza-lavoro poten­zialmente mobile, e quindi agile e flessibile, capace di svolgere la singola mansione, ma con una professionalità che non si esauri­sce nelle abilità direttamente richieste ed espresse dalla mansione in quanto tale, ma indispensabile, appunto, quando, esauritasi la mansione precedente, viene richiesto l’adattamento ad altra man­sione.

Pertanto, oltre alle qualità di adattabilità, alle caratteristiche e alle «regole» dell’organizzazione del lavoro, che comunque di per sè ri­chiedono strumenti e livelli culturali particolari, di spessore sem­pre più consistente rispetto alla mansione-funzione produttiva as­segnata, lo sviluppo industriale richiede sempre più una forza- lavoro che abbia inoltre incorporati tutti quegli elementi tecnico­scientifici che ne permettono la riqualificazione e il riadattamento. Le teorie della «formazione polivalente» non sono casuali ma stori­camente datate, proprio perchè ad esse sono sottese queste ri­chieste di flessibilità e mobilità.

Per un altro verso ancora, il livello tecnico-scientifico raggiunto dal lavoro, il grado di organizzazione e socializzazione della scienza e della tecnica, la complessità dei rapporti sociali che si concretizza­no nell’attuale organizzazione produttiva, spostano il discorso dal lavoratore come singolo, al lavoratore, per così dire, complessivo. La riduzione della qualità del lavoro del singolo non comporta nes­suna dequalificazione scientifica del lavoro complessivamente in­teso. La sua capacità di combinarsi rapidamente con la dinamica del ciclo, di assumere le caratteristiche dello sviluppo e di riqualifi­carsi in esso, mostra un enorme sviluppo delle potenzialità produt­tive collettive.

Nel lavoro socializzato ed in quel sistema sociale che si forma in azienda, si sviluppa una qualità del lavoro complesso che compor­ta alti livelli di intelligenza di massa e di classe. Infatti, i sempre crescenti livelli scientifici e tecnologici, che troviamo incorporati nel prodotto – la differenza tra calcolatrice meccanica e calcolatore elettronico, tra aeroplano e nave spaziale, ecc.. – e che trovano ne­cessariamente nella organizzazione produttiva le forme più concre­te di socializzazione, sono per certi versi in contraddizione ma non sono per altro verso separabili dalle forme di lavoro estremamente parcellizzate e dequalificate.

Il lavoratore singolo è certamente ridotto a funzione della macchi­na, fortemente soggetto alla espropriazione intellettuale, ed il suo prodotto, come parte di un tutto, può persino essere di valore limi­tato; ma il lavoratore sociale-collettivo è continuamente chiamato a livelli produttivi più alti e complessi, per un prodotto, quello fina­le, sempre più scientificamente e tecnologicamente avanzato. Si forma una elaborazione ed una comprensione collettiva del ciclo che non è senza effetti sulla possibilità del singolo a comprendere e dominare il segmento in cui opera, e viceversa. In questo conte­sto va inteso il significato del costante sottoutilizzo delle capacità singole, e la contemporanea necessaria evocazione di uno svilup­po del lavoro e del lavoratore complessivo. Ed è in questo contesto che vanno collocati i possibili processi di ricomposizione unitaria, culturale e politica, della classe, all’interno dell’organizzazione produttiva.

Oggi la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale all’inter­no della fabbrica non passa più fra le tute blù e i colletti bianchi; al­cune ricerche già hanno messo in chiaro come sia necessaria una riflessione e definizione più avanzata, certa, precisa, circa tutte le modificazioni intervenute sul contenuto del lavoro dopo la immis­sione e sedimentazione delle nuove tecnologie e sistemi organizza­tivi.

Nelle fabbriche oggi si registrano sistemi organizzativi formali e in­formali talmente evoluti e complessi che non bastano più i livelli di informazione e di conoscenza fin qui esperiti.

Occorrerebbe capire ad esempio come si è venuta trasformando in questi ultimi anni la relazione tra lo status tecnico, sociale e cultu­rale dei tecnici e quello degli operai, e poi in che modo la funzione di proposta, di parere, esercitata dalie varie componenti della fab­brica sono tenute in considerazioni dalla organizzazione formale, quanto riconosciute, e come valorizzate.

Ma allora, per un futuro che richiede sempre più alti livelli di cono­scenza, precise e specifiche professionalità, capacità individuali di intrattenere rapporti con le macchine o di governo collettivo di si­stemi complessi di apparecchiature e strutture, è socialmente, tec­nicamente, politicamente corretto e proponibile il ristabilimento di nuove tecnocrazie all’interno dei luoghi di lavoro?

Non sarebbe in parte un fallimento della scienza, della ricerca, del­le stesse teorie tayloristiche, che avevano come obiettivo quello di incivilire il rozzo contadino per farlo partecipe e protagonista di quella nuova era di civiltà industriale tanto propugnata, se si rige­nerasse una sorta d’analfabetismo industriale di ritorno?

Non sarebbe anche pericoloso l’accentramento, in poche figure professionali, della conoscenza e delle abilità necessarie per la conduzione, il mantenimento degli impianti?

Non è solo per la subordinazione, l’alienazione, l’umiliazione che ingenti masse di operai sarebbero costretti a subire, dopo essere stati espropriati, defraudati dell’antico mestiere di agricoltori, ma anche per una questione di produttività stessa degli impianti oltre che per la esigenza connaturata delle macchine di poter contare su una larga base di professionalità e mobilità interna.

All’innalzamento dei livello delle qualifiche professionali, generalizzato come nel caso della Fond-Ghisa, deve corrispondere un am­pliamento, allargamento, riconsiderazione e redistribuzione dei fattori di professionalità, senza i quali la storica subalternità operaia all’organizzazione capitalistica dei lavoro rischia di farsi sempre più netta e marcata, e per certi aspetti impotente nel contrattare le scelte di politica industriale oltre che incapace a decodificare, decifrare ed eventualmente separare, discernere gli aspetti positivi da quelli negativi che necessariamente le nuove organizzazioni de lavoro, indotte dalle recenti tecnologie, comportano.

S a guardando la Tav. sottoriportata, che gli ultimi dati relativi alle qualifiche alla F.G.M. viene spontaneo chiedersi il perchè delle vistose differenze tra fonderie, e se la realtà della classificazione ca­tegoriale corrisponda, in qualche modo, o aderisca alla situazione organizzativa e produttiva delle singole fabbriche.

I dubbi si pongono sia per le fonderie che meticolosamente inter­pretano il mansionario del C.N.d.L., che per la F.G.M. che pare inve­ce voler risolvere con un accentuato egualitarismo categoriale, i di­slivelli di specializzazione presenti nella moderna organizzazione produttiva. Sia la strada del rispecchiamento delle qualifiche nella organizzazione del lavoro esistente, che, quella della monetizzazione della monotonia, ripetitività, estraniazione dai processi di for­mazione delle decisioni e d’intervento intelligente degli operai sul­le macchine, alla lunga, potrebbero divenire due modi simili, anche se antitetici, per lasciare intatta l’attuale organizzazione del lavo­ro.

Dalla tav. sottostante, emerge vistosamente l’atipicità della F.G.M. rispetto al resto delle fabbriche prese in esame. Perchè, da cosa è prodotta questa atipicità.

È diversa l’organizzazione del lavoro alla F.G.M. rispetto alle altre aziende? Chi rappresenta meglio la realtà organizzativa della fab­brica, la F.G.M. (che accorpa in una sola categoria, o quasi, tutte le funzioni), o le altre fonderie, che hanno distribuito nei vari livelli ca­tegoriali i diversi ruoli stabiliti dall’organizzazione del lavoro? Anzi­tutto è improbabile che vi sia una così vistosa differenza organizzativa e di ruoli funzionali tra la F.G.M. e il resto delle fabbriche non solo perchè oggi l’informazione tecnologica e i moderni criteri di organizzazione sono conosciuti e diffusi in tutte, o quasi, le fabbri­che, ma anche perchè, valutando i dati, sia all’interno di valori omo­genei (come il numero degli addetti e il livello tecnologico di tipo di produzione) che a livello complessivo ciò francamente non risulta. Per spiegarli occorre andare a vedere l’accordo aziendale del 1974 scaturito da una iniziativa politica del Consiglio di fabbrica che aveva raccolto la volontà, emersa tra i lavoratori di egualitarismo categoriale:

“Si conviene che successivamente tali passaggi avranno luogo automaticamente ogni sei mesi per i dipendenti che nel periodo pre­cedente avranno svolto le mansioni previste per tale riconoscimen­to; il primo di questi periodi maturerà il 1 gennaio 1975. A tale data maturerà altresì il diritto di passaggio per i dipendenti che almeno da un anno erano classificati di 2° categoria stabilendo successi­vamente la permanenza in tale categoria per un periodo massimo di un anno. Viene abolito il 1° livello”.

Occorre dire che una richiesta di livellamento categoriale non è mai di per sè giusta o ingiusta: la valenza in positivo o in negativo è data dal tipo di organizzazione produttiva che si è realizzata dentro la fabbrica.

Se, ad esempio, all’interno di una fabbrica i livelli di professionalità sono generalizzati, diffusi e distribuiti equamente tra i lavoratori, e vi è una costante mobilità operaia nello svolgimento delle mansio­ni che esistono nei vari reparti, teoricamente, i lavoratori dovrebbe­ro essere posti tutti allo stesso livello in quanto l’intera organizza­zione produttiva è percorsa, attraversata, e periodicamente prova­ta da tutti gli operai della fabbrica. Se così fosse, alla F.G.M. i livelli categoriali potrebbero definirsi corretti rispetto all’organizzazione del lavoro ivi esistente. Ma è così, la struttura organizzativa dell’azienda lo consente, è possibile tecnicamente praticarla con gli attuali impianti e livelli tecnici diffusi tra i lavoratori, è indivi­dualmente accettata quella mobilità di cui si parla al titolo 5 dell’accordo aziendale del 1974?

Oppure per mobilità e rotazione, leggendo correttamente l’esplica­zione del succitato articolo, si intende in pratica il solo ed automa­tico riconoscimento di livelli categoriali superiori?

Occorre ricordare che l’azienda, tra il 73 e il 76,concluse l’ammodernamento della fonderia, il più impegnativo della sua storia. Con l’immissione dell’impianto di formatura Mec Fond 1 (1974) e le nuo­ve attrezzature per il caricamento e la fusione della ghisa (1976), la scelta iniziata nel 1967 per una completa automazione degli im­pianti di formatura e fusione, viene quasi completata.

Dalle rilevazioni di Capecchi, Crivellai e Rubini del 1978, dopo gli investimenti nei forni fusori e negli impianti di formatura, l’85% della formatura dell’azienda è eseguita automaticamente e il 15% in semiautomatico. Il livello tecnologico dell’azienda è ritenuto me­dio solo perchè era stata fatta la scelta del cubilotto anziché quella dei forni elettrici. Si è comunque realizzato in quegli anni il pac­chetto di investimenti e di scelte tecnologiche che ha modificato quasi completamente il modo di lavorare all’interno dell’azienda. A questi cambiamenti, apparentemente generatori di estraniazione, esproprio e subalternità operaia nei confronti della macchina, i la­voratori hanno chiesto un innalzamento generalizzato delle cate­gorie in funzione dell’accresciuto livello tecnologico degli impianti. Ho detto che solo apparentemente i macchinari hanno prodotto estraniazione, esproprio e subalternità poiché di solito ad un innal­zamento del livello tecnologico degli impianti vi è sempre un eleva­mento anche dei contenuti tecnologici delle mansioni e spesso la subalternità operaia nei confronti delle macchine è più il frutto del­la gestione interna dell’organizzazione del lavoro che della tipolo­gia degli impianti.

“Touraine in una ricerca del ’55 alle officine Renault identifica una fase C (dove sono riconoscibili caratteristiche simili a quelle delle industrie di processo), caratterizzata dal fatto che l’operaio non in­terviene più direttamente sullo strumento di produzione (quindi sul­la trasformazione diretta del prodotto), ma ha per lo più compiti di sorveglianza, regolazione e controllo. In tali situazioni, afferma Touraine, non è possibile una valutazione individuale, in termini professionali, del singolo operaio, in quanto «l’apporto individuale alla produzione» deve essere inteso come un intreccio profondo di «competenze tecniche… e qualità sociali, cioè della loro attitudine a occupare un determinato posto in una organizzazione allo stesso tempo tecnica e sociale». Non è possibile, esemplifica Touraine valutare il valore professionale di un sorvegliante di un forno se non si tiene conto delle reti formali e informali delle relazioni socia­li all’interno del gruppo: «Alla qualificazione professionale si sosti­tuisce una qualificazione sociale, dal momento che alla coppia uomo-utensile si sostituisce la coppia gruppo sociale insieme di produzione».

Risulta chiaro come le tradizionali categorie di operaio professio­nale (le cui caratteristiche sono di avere abilità manuali, una for­mazione professionale basata sull’esperienza e una autonomia or­ganizzativa che permette di scegliere sia i metodi che gli strumenti da usare) e di operaio non professionale (ossia operaio comune, parcellizzato, estraniato dal processo produttivo, non responsabi­lizzato se non limitatamente ai singoli compiti prescritti formal­mente) non aiutano a comprendere la reale, e diversa figura profes­sionale di questi operai.

Nelle produzioni a flusso continuo non vengono più richieste pre­stazioni di tipo manipolativo o «senso-motorie» ma capacità inter­pretative e di osservazione del processo; processo in cui il momen­to opportuno per «interpretare gli stimoli», per operare correzioni o per scambiarsi informazioni non è determinato nè dal gruppo nè dall’organizzazione, ma dalle esigenze del processo che sorgono all’improvviso.

Rigide divisioni dei compiti, dice Susman, come rigide descrizioni di mansioni non sono possibili e, anzi, «diventano un ostacolo a una esecuzione effettiva ed efficace del lavoro», poiché ogni mem­bro del gruppo «ha la responsabilità di dare continuamente il suo contributo come parte integrante di un processo di feedback relati­vo a un ciclo di informazione-regolazione».

Ciò detto, se il lavoro sempre più ha questo carattere sociale e col­lettivo, si potrebbe pensare che la socializzazione e il livellamento categoriale tra gli operai F.G.M. sia conseguente ad un dibattito culturale interno al Consiglio di fabbrica e tra i lavoratori, che ha teso, riuscendovi, a recuperare il ruolo sociale del lavoro e gli aspetti socializzanti di esso all’interno della struttura organizzati­va e produttiva della fabbrica.

Purtroppo questa ipotesi viene meno quando si guardi attentamen­te alla distribuzione categoriale della F.G.M. ed ai criteri di mobilità interna alla fabbrica.

Livelli tecnologici e professionalità.

 

Formatura% Valore assoluto
Azienda Prov. N.

addetti

a

mano

semi-

aut.

auto-

mat.

tecno­

logico

Categorie operai e impiegati
5S 6* Tot.
Corni* MO 842 30 70 A 41 152 255 267 715
Coop. Fond. MO 283 100 A 21 79 122 31 253
Fonderie c Modena MO 274 55 45 M 12 82 70 71 235
S.C.M. 223 100 A 13 65 67 42 187
Fonderia : Mirandola MO 221 15 85 M 195 8 203
Fondmatic BO 91 100 A 7 27 14 5 2 55
Castinghouse MO 91 10 90 A 7 34 21 14 76
Accorsi BO 62 100 B 1 33 18 8 60
Sinigaglia BO 45 100 B 10 16 15 41
Val Taro PR 29 15 85 A 19 8 2 29
interfond PR 21 100 A 5 7 4 2 1 19
Melimi RE 20 100 M 9 9 1 1 20
Musto MO 15 100 A 1 6 5 1 12
Totale n. addetti 2.217 117 524 804 456 4 1.905

Categorie operai e intermedi

 

Qualifiche 2° Cat. 3° Cat. 4° Cat. 5°Cat. 5° sup. 6° Cat. 7° Cat. Tot.
Operai —                1         145       22        –            –            – 168
Intermedi —                –           –           6         6            4          4 20

 

Occorre intanto dire che nonostante il livellamento, una parte di operai (il 13,3%) vi sfugge e consegue la 5° categoria.

L’analisi statistica ci conferma peraltro che il dato omogeneo che fa scattare il passaggio categoriale per i 22 operai è l’anzianità. Per contro vi è una buona distribuzione delle categorie tra gli inter­medi che occupano comunque la fascia alta dei livelLi categoriali. Anzi, si ha la sensazione, anche visiva, guardanto la tav. suesposta che in fonderia vi siano due profili professionali.

Un profilo di operaio comune (che serve la macchina) e il profilo dell’intermedio specializzato (che conduce e dirige gli impianti). Da un lato quindi La perdita di “mestiere” per una crescente subor­dinazione tecnica verso la macchina che ha ingoiato il vecchio sa­per fare manuale, dall’altro un aumento di potere da parte di nuovi quadri tecnici, regolatori di operazioni e lavorazioni in cui l’automa­zione e l’intervento della macchina è limitato.

Ma se questo è un dato generalizzabile non solo per la F.G.M., ma anche per altri luoghi di lavoro, allora perchè la suddivisione delle categorie è così atipica rispetto le altre aziende?

Credo sia difficile spiegarlo se non riferendoci proprio all’ipotesi prima formulata e cioè che in qualche misura l’appiattimento cate­goriale tra gli operai sia connesso direttamente alle difficoltà di fronteggiare le innovazioni tecnologiche con proposte capaci di ri­mettere al centro dell’organizzazione produttiva gli uomini al posto delle macchine.

La qualifica superiore a volte può essere anche, accanto ad un be­neficio di natura economica, un mezzo per lasciare stare le cose come sono e sopportare il più a lungo possibile un lavoro, che, per i più, è di poca soddisfazione.

E questa una strada pericolosa quanto quella che suddivide minu­ziosamente i livelli categoriali e rispecchia i ruoli e le mansioni dei C.N.d.L. all’interno di organizzazioni, apparecchiature e sistemi in­dustriali che cambiano quotidianamente.

L’una e l’altra lasciano comunque immutata l’organizzazione pa­dronale. Infatti, la mobilità alla F.G.M. viene praticata all’interno di quelle operazioni che “servono le macchine” e non tra quelle che anche le “dirigono”. Al massimo, la rotazione la si attua tra i vari conduttori di impianti, mai invece tra tutti i componenti di un’intera linea di formatura o di un reparto.

La rotazione delle mansioni in una linea o in un reparto richiede in­fatti una preparazione, un’esperienza, conoscenze tecniche, dalle quali, la quasi totalità degli operai è tagliata fuori.

“Ho fatto una iniziativa di reparto per cercare di coinvolgere la gen­te nella gestione tecnica della baracca (i forni fusori). Effettivamen­te qualcuno ha risposto, qualche altro no. Ci sono quelli del carica­mento che in linea di massima vengono a dire: non va. Per quanto ormai sono anni che è su il reparto fusorio e quando si rompe sono quelle tre o quattro cose. Si sa che se non va su la carica è il fine corsa, oppure quello che gli è vicino, ma non vanno neanche a ve­dere. No non ci vanno! Avvenuto il guasto sentono la comodità che quando si ferma la macchina si fermano anche loro.

Se prendi uno nuovo e ha buona volontà impara a fare il mestiere se invece è uno che lavora da molto e sa che c’è da tribolare fa l’ocarolo e fa finta di niente .

lo ho tentato di fare dei corsi interni per quanto riguarda la condu­zione di cubilotto. Avevo un bello schemino fornito dalla SIAT su come funziona un cubilotto in funzione del’equilibrio termodinami­co e chimico della macchina e di che cosa succede dentro.

Noi abbiamo due conduttori, uno anziano e uno giovane. L’anziano va di istinto ed esperienza, sa che quando la ghisa è fredda lui ci mette del carbone, tavana così!

L’altro sta prendendo un sistema suo e va avanti così, ma non c’è verso di dirgli: Guarda che se ci metti il carbone è meglio che tu mandi anche l’ossigeno perchè tutta la zona di fusione va più in al­to. Insomma, non si riesce mica a spiegare queste cose”.

C’è da chiedersi però se l’organizzazione del lavoro così com’è con­cepita dia agli operai delle opportunità che non siano solo casuali o estemporanee (come la fermata degli impianti per guasti, il so­vrannumero operaio rispetto le esigenze produttive della giornata, ecc.), se nei programmi di avanzamento tecnologico degli impianti, le imprese mettono in conto anche l’aggiornamento professionale delle maestranze, o se, si preferisce reperire sul mercato del lavoro nuovi quadri tecnico-dirigenti. Non è forse improbabile l’ipotesi che la memoria individuale dell’operaio agisca anche negativamente nella formazione di una coscienza attiva sui problemi dell’organizzazione dei lavoro.

La storia dell’industrialesimo moderno non ha solo messo in evi­denza come l’uomo sia diventato sempre più schiavo delle macchi­ne che ha costruito ma ha anche fatto emergere sempre più atteg­giamenti oltre che di polemica e vertenza sindacale anche di rifiu­to.

“In molti casi infatti ci è stato detto: le mie proposte non le accetta nessuno; io ho proposto questo e nessuno ne ha fatto niente; non siamo tenuti in considerazione, ecc. ecc.”.

Visto e considerato che chi è destinato a compiere lavori esecutivi non può far molto per cambiare il modo in cui è costretto a lavora­re, l’operaio può difendere se stesso anche servendo ed assecon­dando il meno possibile i sistemi organizzativi di fabbrica. Quando poi manchi la memoria storica dei passi che si sono com­piuti negli ultimi 30 anni con le lotte operaie sull’ambiente e l’orga­nizzazione del lavoro, può passare anche il rifiuto e la consapevole estraniazione.

E intanto accanto ad aree di operai tecnicamente, culturalmente e forse psicologicamente sconfitti dalle nuove tecnologie, o meglio dal modo con cui le nuove tecnologie del lavoro vengono inserite nelle fabbriche, sta emergendo con chiarezza, sia per i maggiori mezzi culturali che per una più elevata capacità contrattuale, il ruo­lo, la funzione e il posto che la categoria degli intermedi può e vuo­le occupare all’interno delle fabbriche.

“Molto spesso noi facciamo delle cose che nessuno ci chiede, ven­gono fatte perchè noi le vediamo!

Entro un certo limite è una nostra officina.

Uno degli aspetti positivi è quello che godiamo di una certa libertà. Il negativo è che questa libertà è limitata e vigilata!

Di ben organizzato in fonderia non c’è niente, tutto viene lasciato nelle nostre mani, però noi vediamo che ci sono delle insufficienze palesi e spesso non possiamo intervenire.

Ad esempio si produce, produce, e poi quando manca mezz’ora alla fine della lavorazione ti cambiano la placca e te ne mettono un’al­tra.

Un discorso antieconomico a tutti i livelli e contro ogni logica. Chi si alza per primo il mattino dice: oggi facciamo questo lavoro!

Ci sono dei problemi conflittuali a livello di potere perchè essendo una società in cui i soci lavorano ll’interno dell’azienda vogliono far pesare il loro ruolo.

Ormai la gestione di tutto l’apparato tecnico dell’azienda è in mano a del personale specializzato, non padrone però, il quale in pratica ha il potere di intervenire più di un padrone.

Tempo fa abbiamo fatto la domanda di essere partecipi anche noi della società, ma non ha mai avuto risposta questa domanda, per cui abbiamo abbandonato l’idea.

Rimane sempre per controparte quel minimo di potere decisione e che abbiamo acquisito, quel pò di stipendio in più e quella libertà di azione che abbiamo, che viene a ripagare parzialmente questo eccesso di amore che noi abbiamo per il lavoro.

Per quanto mi riguarda lavoro anche 10 ore al giorno e non mi vengono pagati gli straordinari. Un pò tutti noi tecnici siamo messi in                           queste condizioni, nessuno ci obbliga a farlo: è l’ambiente e il lavoro che lo richiede e noi facciamo così.

Molti di noi quando trovano di meglio se ne vanno!”.

Emergono da queste ultime brevi note, la coscienza del ruolo che i tecnici oggi hanno all’interno della fabbrica, la positiva carica criti­ca verso atteggiamenti di leggerezza nel lavoro, la richiesta di una maggior responsabilizzazione nella direzione dell’azienda e infine un monito rivolto alla Direzione per la stabilità di questi quadri allo interno dell’azienda.

Tra la mole notevole di materiali, interviste e documenti, per con­cludere, ho scelto i brani di cui sopra. È una scelta voluta per evita­re conclusioni e al contrario per aprire il dibattito su alcuni temi emergenti: organizzazione del lavoro-qualifiche-professionalità; scienza operaia e organizzazione del lavoro; vecchi mestieri e nuo­ve specializzazioni; potere dei lavoratori e nuovi poteri indotti dalle recenti tecnologie; mobilità e moderni iter formativi delle profes­sionalità operaie; ecc.ecc,.

La scelta di non concludere è anche un modo per ribadire l’impe­gno delle istituzioni pubbliche a continuare, assieme ai sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, un lavoro di ricerca e di studio che sarà tanto meno impreciso e parziale, quanto più estesa, pun­tuale e precisa sarà la collaborazione offerta dai diversi organismi nella messa a disposizione dei materiali che concorrono a formare le fonti per la storia dell’industria.

Tratto da : Il Lavoro e la Memoria  – Fonderia Ghisa Mirandola 1935-1982

A cura di Vittorio Erlindo – Anno 1983

L’immagine è tratta dal libro “Amarcord Mirandola” di Quirino Mantovani

fonderia 11

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