Antichi Palazzi – Palazzo Borsari – Finale Emilia
Titolo
Palazzo Borsari, ora Rossi
Sec. XVIII
Finale Emilia, via Frassoni
Il palazzo è certamente una delle costruzioni architettonicamente più interessanti della Bassa modenese, dove le principali residenze urbane e suburbane mostrano sovente un gusto piuttosto sobrio nell’uso delle partiture decorative sui prospetti, preferendo proiettare all’interno le aspirazioni ad una dimora di rappresentanza.
Piuttosto controversa è la datazione, che il Baldoni fa risalire al 1660, mentre il Frassoni, molto più verosimilmente, pur senza citare un ambito preciso, colloca «a dì nostri», vale a dire intorno alla metà del XVIII secolo, quando Giuseppe Borsari decise di costruire la propria residenza nella Strada della Punta, accanto al maestoso palazzo Grillenzoni.
A limitare il campo delle ipotesi si segnala da un lato una mappa del 28 Giugno 1725 (Modena, Archivio di Stato, Acque e Strade, f. 58, fase. Mappe e Tipi diversi) sulla quale il lotto di terreno corrispondente appare libero da costruzioni, e dall’altro la prima menzione di un «Palazzo Borsari» in Strada della Punta negli «stati d’anime» del 1769, confermata successivamente da una denunzia del 19 Agosto 1786, nella quale l’edificio risulta appartenere ad Angelo e Ferdinando Borsari (Modena, Archivio di Stato, Estimo e Catasto, Ufficio Centrale del Censo, Registro n. 620, c. 355).
Il fronte, un tempo scenograficamente affacciato sul corso del vecchio Cavamento dal quale era possibile ammirare la lunga teorìa di residenze nobiliari che tra il XVIII e il XIX secolo qui vennero ad attestarsi, è ripartito da una grìglia di paraste e cornici marcapiano su cui si innesta, alleggerendola, la duplice sequenza delle aperture finestrate al piano terreno e piano nobile, enfatizzate da eleganti coronamenti in cotto a timpano e a lunetta, poggianti su peducci finemente lavorati a rìccio e foglia d’acanto. Un repertorio decorativo molto vicino ai temi sviluppati nel bolognese.
Al plastico movimento della facciata, irrobustito da un bugnato poco rilevato nell’ordine inferiore ed accentuato dal lieve aggetto del corpo centrale, si contrappone il severo e scarno prospetto verso i giardini: un ampio spazio con serre ed edifici rustici chiuso tra due muri paralleli con accessi pilastrati. L’attuale aspetto, curato ma privo di una sistematica organizzazione, sembra sia il risultato di una trasformazione — dovuta probabilmente ad una perdita di interesse o ad un periodo di abbandono — di quello che nel racconto di chi ne ha vaga memoria doveva essere un sontuoso giardino, ormai perduto.
Curiosamente nell’Archivio Borsari, in parte trasferito dopo la vendita della proprietà da Finale nel castello di Montegibbio, è presente lo schizzo prospettico di un giardino all’inglese, movimentato da piccole esedre e padiglioni all’aperto e delimitato da muri, che potrebbe essere lo schema di impianto dell’originario giardino finalese.
All’interno del palazzo l’organizzazione degli spazi, oggi solo parzialmente alterata da necessità d’uso, si articolava in ampie sale di rappresentanza, affacciate sul fronte, dove trovava posto anche una ricca e preziosa raccolta di volumi. Altre sale di ricevimento si trovano al piano nobile cui s’accede da uno scalone a tre rampe originariamente scandito da un incedere di statue, sistemate nelle nicchie e sui pilastri della balaustra, ora incongruamente sostituite da volatili impagliati e da fiorì in cemento.
Alessandra Ontani
Palazzo Borsari, ora Rossi. Decorazione sec. XVIII
Finale Emilia, via Frassoni.
La decorazione, estesa oltre che agli ambienti al piano nobile a quelli del piano terreno è soprattutto affidata agli stucchi di gusto rocaille, verosimilmente eseguiti da maestranze locali ancora entro la prima metà del secolo, che in forma di volute ricci e ramages si assestano sulle superfici delle pareti marmorizzate e dei soffitti dipinti a tempera in bicromie azzurro-rosa, sottolineandone scansioni e partizioni, facendosi mostre e fastigio nei sopraporta, pennacchi agli angoli, specchiature e cornici lungo le pareti.
Nel racchiudere tele di diverso formato, dimensione e soggetto – episodi mitologici, mezze figure femminili allegoriche… (dipinti che, per la fattura corsiva e le pesanti ridipinture, non si discostano da un generico riferimento a formulari a lungo esperiti nella tradizione modenese a cavallo tra Sei e Settecento) svolgono rispetto ad esse funzione di preminenza più che di coronamento.
Così nei pennacchi con tele raffiguranti Le quattro Arti agli angoli della volta a padiglione dell’atrio al piano terreno, o nel sinuoso sopracamino con specchiera ornata da tralci di fiori e foglie in una saletta attigua. E più ancora nel salone d’onore: vaste cornici rettangolari con soggetti mitologici alle pareti, due sovraporta con le immagini di Diana (con freccia e con levriero), quattro pennacchi con Le Stagioni, e al sommo della volta a padiglione un rosone con due cerchi intersecantisi.
Maria Pace Marzocchi
Tratto da: Architetture a Mirandola e nella Bassa Modenese
Cassa di Risparmio di Mirandola
Anno: 1989