Livio Bonfatti – Disquisizioni sulla preparazione della conserva di pomodoro

Livio Bonfatti – Disquisizioni sulla preparazione della conserva di pomodoro

9 Novembre 2024 0
Livio Bonfatti

Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana  che si distende dalla via Emilia sino al Po.

La preparazione della conserva di pomodoro.

Avevamo i bimbi piccoli, ai primi anni ’80 del secolo scorso, ed un giorno Donata mi disse dispiaciuta:«Vengo a casa alla sera tardi dal lavoro e qualche volta  mi capita di non avere niente pronto per la cena. Ecco, se avessi a disposizione, all’occorrenza, un vasetto di conserva, mi sarebbe facile prepararvi un piatto di pasta in poco tempo e non solo, perché potrei preparare anche qualche fettina di carne, cotta all’istante, nel sugo di pomodoro». E così iniziammo la storia della “conserva di pomodoro fatta in casa”.

È durato una quindicina d’anni il “rito”, che si celebrava a fine d’agosto, di preparare il tutto per fare la conserva. Poiché si trattava di un “lavoro brigoso”, abitualmente svolto dopo il riposo delle ferie estive, non vedevo l’ora di iniziarlo e finirlo nel più breve tempo possibile. Proprio per questo sento il bisogno di illustrarvi il “procedimento”, per evitare che a qualcuno, gli “venga l’idea di fare la conserva in casa”, senza sapere cosa va incontro o che qualcuno poi gli dica:«A t’ liva ditt!».

Anzitutto occorre reperire i pomodori adatti per la conserva. Per noi mirandolesi è facile! Basta andare nella “valle” e dappertutto si coltivano pomodori. Incominciammo con i pomodori di Quarantoli, coltivati dallo zio Tonino, erano gratis e quindi erano i migliori. Ma Donata, alla fine della preparazione, rilevò che risultavano “acquosi” e nel vasetto, sul fondo, compariva un “dito d’acqua”. L’anno successivo andammo a San Martino Spino, perché qualcuno, con esperienza, ci disse che in quella frazione c’era “il meglio” dei pomodori, costavano un po’ di più di quelli di Quarantoli, ma erano migliori. Ci attrezzammo con diverse cassette per il trasporto, perché la conserva dell’anno prima “era durata poco” e quindi aumentò la quantità da mettere in opera. Io notai e lo dissi a Donata, che se lei non avesse dato vasetti, in prova della nostra conserva, a colleghe di lavoro, amiche e parenti, ci sarebbe durata di più.

E così in pochi anni ci siamo specializzati. Reperimmo a casa dei miei suoceri un paiolo di rame, da mio cognato Riccardo una “furnaŝèlla” e un bruciatore funzionante a gas, conservato in bombole e comprammo, in società sempre con mio cognato, una macchinetta elettrica per “pelare i pomodori” e produrre quindi la vera e propria passata di pomodoro.

Però dopo poco qualcuno suggerì che la conserva più buona si poteva ricavare dal pomodoro San Marzano, coltivato nell’agro sarnese– nocerino. Quindi, per non doverci recare “sul luogo” per l’acquisto della “materia prima”, cercammo un grossista che potesse fornirci i pomodori adatti. Lo trovammo in un podere dopo Camposanto, in quanto il titolare andava tutte le settimane al mercato di Reggio Emilia, dove arrivavano i camion pieni di pomodori campani. Risolto anche questo problema si procedeva alla preparazione dei pomodori. Dopo averli lasciati nelle cassette alcuni giorni a maturare, venivano lavati e fatti scoppiare, nel corso della bollitura, nel paiolo, per poi passarli sulle cassette, una notte intera, a sgocciolare. A questo punto avevo il tempo per avviare con il mio vicino di casa una “piacevole discussione”, che si ripeteva ogni anno. Cioè:«Valeva la pena comprare i San Marzano, sapendo di pagarli il doppio del costo dei pomodori coltivati a Gavello?». La risposta non era facile in quanto dipendeva dalla “resa” che la singola qualità di pomodoro avrebbe prodotto in conserva. Ed infatti alla fine della lavorazione avremmo potuto confrontare i vasetti riempiti e ricalcolare il costo unitario al chilogrammo. La passata di pomodoro veniva rimessa nel paiolo, per la cottura, assieme agli aromi (cipolla, aglio, basilico cotti leggermente in olio e poi passati nel passaverdura). Avveniva poi il riempimento dei vasetti Bormioli, preventivamente sterilizzati.

A questo punto c’era la risposta al quesito postomi dal mio vicino. La resa del San Marzano era del 22 / 24%, mentre i pomodori nostrani rendevano il 14 / 16%. I vasetti ricolmi di sugo venivano infine rimessi nel paiolo, avvolti con stracci, per l’indispensabile “bagnomaria”. Rimaneva, per ultima, la pulizia di tutta l’attrezzatura e la sua collocazione per l’anno successivo.

Ma perché, ad un certo punto, abbiamo smesso di fare la conserva di pomodoro? In primo luogo i nostri figli erano cresciuti e quindi digerivano anche i “sassi” e si potevano arrangiare da soli. Io mi sono “industriato” per fare da mangiare, anche in assenza di Donata. Ma la vera ragione è che la quantità di pomodori lavorata per la conserva, negli ultimi anni, aveva raggiunto i due quintali e dovevo chiedere aiuto agli amici Vanni e Marilena e limitare così il tempo impiegato per tutta l’operazione, ovvero:«An s’finìva più!».

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