Livio Bonfatti – Ma siamo stati anche un popolo di bestemmiatori?

Livio Bonfatti – Ma siamo stati anche un popolo di bestemmiatori?

6 Settembre 2023 0
Livio Bonfatti
Livio Bonfatti

Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana  che si distende dalla via Emilia sino al Po.

Principali pubblicazioni.

  1. Bonfatti, Mirandola sulla Secchia, in La Sgambada , 5ª edizione, Mirandola 1985.
  2. Calzolari- L. Bonfatti, Il Castello di Mirandola dagli inizi del Settecento alla fine dell’Ottocento: “descrizioni”, documentazione cartografica e trasformazioni planimetriche, in Il Castello dei Pico. Contributi allo studio delle trasformazioni del Castello di Mirandola dal XIV al XIX secolo, Mirandola 2005.
  3. Bonfatti, Manfredo del Fante. La Bassa Modenese sul finire del XII secolo, vista attraverso le vicende di un cavaliere medievale, «QBMo», 70 (2017).

Ma siamo stati anche un popolo di “bestemmiatori”?

 Il popolo italiano, per un ben preciso momento della sua storia, avrebbe dovuto essere ricordato come:”Un popolo di santi, poeti e navigatori”. O meglio, così come compare, sulla facciata del Palazzo della Civiltà, a Roma, nel Quartiere dell’EUR: «Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori»[1].

Cioè un elenco di qualità e doti attribuiti collettivamente a tutta la popolazione italiana. Però sarebbe più onesto riconoscere anche i gravi difetti che ci appartengono e che frequentemente dimentichiamo.

Fra questi ultimi vorrei qui ricordare che fino a non tanto tempo fa siamo stati anche impuniti “bestemmiatori”. In ogni luogo di lavoro, di svago, di riunione capitava di udire frequentemente persone che, per i più svariati motivi, ritenevano di dare sfogo alla loro contrarietà, esclamando ad alta voce “maledizioni” e bestemmie, rivolte ai simboli religiosi cristiani. A poco servivano le minacce divine per futuri castighi od anche multe, comminate dalla pubblica autorità, a chi bestemmiava in spazi aperti al pubblico.

Luoghi privilegiati per queste manifestazioni risultavano essere i bar, allora molto frequentati, per lunghi periodi del giorno, campi sportivi di qualsiasi disciplina agonistica, locali pubblici all’aperto. La bestemmia apparteneva prevalentemente al lessico maschile, anche se qualche volta “esplodeva” fra donne, stimolata da litigi o diatribe.

A me sembrava assurdo che vi fossero sacerdoti che nel confessionale chiedessero:«Quante volte hai bestemmiato?». Come se il penitente avesse tenuto il conto aritmetico delle bestemmie profferite. Qualcuno interrogato al riguardo riferiva di: «Avéragh dat un bòtt!» oppure qualcun’ altro sosteneva che i frati del Santuario della Comuna (a Ostiglia) non fossero così fiscali e si accontentassero di: «un buttà là». I

l bestemmiatore compariva non solo fra le classi meno abbienti, fra gli operai, fra i contadini, ma qualche volta emergeva anche fra commercianti, bottegai, non facendo così distinzione di ceto o di ricchezza. Bestemmiare costituiva un vizio prevalente fra le persone irascibili, fra quelli che ritenevano di avere sempre ragione e quelli non dotati di buone argomentazioni nelle discussioni. Pur tuttavia la maggior parte dei bestemmiatori utilizzava la bestemmia come una imprecazione per le piccole e grandi contrarietà che la vita ci riserva quotidianamente. In questi casi con c’entrava niente la religione, la bestemmia entrava così in un lessico assimilato fin da ragazzi, dagli adulti anzi, qualche volta, veniva intesa impropriamente come un segno di acquisita maturità. In questo senso la bestemmia non arrivava nel linguaggio del ragazzo dall’ambiente familiare, ben attento all’educazione della prole, ma da cattive compagnie di amici o conoscenti.

Mi ricordo di un mio vicino di casa, certamente componente di una famiglia religiosa e devota, che a fronte dei danni provocati da temporali all’”amata” serra dei fiori, “tirava” una “sfilza” di bestemmie, non facendo alcun distinguo fra i santi e i beati “quel ch’ ach’capitàva, al ciappàva sotta”. Anche a me, lo ammetto, è capitato di bestemmiare, tutte le volte che, maldestro nei lavori manuali, mi sono “martellato” un dito, oppure quando il risultato del mio lavoro era ben lontano dalle mie aspettative.

Vorrei poi ricordare che la bestemmia, a volte “compariva” anche nei luoghi meno indicati. Anno 1961, una folla compatta, visto il limitato spazio, riempiva il cortile dell’Oratorio San Domenico Savio di via Fenice, per assistere la quotidiana partita di calcio giocata dai ragazzi più grandi con altri, di età più matura, che si riunivano all’Oratorio dopo una giornata di lavoro. Erano partite fortemente “vissute” sia dai giocatori che dagli spettatori. Nei momenti di maggiore ardore agonistico a qualcuno “scappava” la bestemmia. A questo punto, in un silenzio pressoché irreale, compariva don Benito[2] che, come un fulmine, dopo essersi abbassato per non “inzuccarsi” con il pianerottolo della scala dell’Oratorio, sollevata la lunga tonaca con la mano sinistra, si precipitava, con ampie falcate, sul malcapitato, per rifilargli un sonoro “scupazzóñ”. Subito dopo, tornato don Benito nel suo ufficio, si riprendeva il gioco come se nulla fosse successo.

Ho già detto che anche a me, ogni tanto scappava “qualcosa”, a volte in presenza di mia moglie. Donata, donna pia e devota, non mi rinfacciava mai niente, specialmente se vi erano altre persone presenti, al massimo una occhiataccia. I conti li avremmo fatti in “separata sede”, ovvero “in camera caritatis”. Alla sera a letto mi diceva: « A capìs, Livio, che t’ha tirà na “saracca”, parchè at ghiv d’la rabbia, però at sa ch’là nan piaś brìsa. Ad dagh un “consiglio”, fa cum a fagh me quand a son rabida, ch’a dig:” Vaca cl’là cuninna zóppa, con cl’l’altra gamba rótta” L’é tanta lónga che in dal cal méntar t’al diś at pàssa la rabbia» [Capisco, Livio, che hai pronunciato una bestemmia, perché eri arrabbiato, però sai che non mi piace per niente. Ti do un “consiglio”, fai come faccio io quando sono arrabbiata e dico:”vacca quella coniglia zoppa, con l’altra gamba rotta” È tanto lunga che nel frattempo che la dici, ti passa l’arrabbiatura].

Vi garantisco che abbiamo sempre “pareggiato i conti”.

Dai primi anni ’80 del secolo scorso questa “triste usanza” si è notevolmente affievolita e ciò è da imputare a tante cause che è difficile sintetizzare con una unica motivazione. Anzitutto una maggiore scolarità, specialmente negli istituti superiori, ha ritardato l’ingresso nel mondo del lavoro di tanti adolescenti, cioè li ha resi  più maturi nell’affrontare i colleghi ed anche abitudini consolidate. L’imprecazione ora viene rivolta alla persona o alle circostanze utilizzando modi di dire, diffusi attraverso le trasmissioni televisive o cinematografiche. Le vecchie bestemmie avevano tratto origine in un mondo contadino, “porco …”, “vacca …” , che si era via via spopolato e sicuramente mutato con la meccanizzazione agricola. Ma anche l’ambiente cittadino era cambiato, trasformandosi e in particolare, riducendo la socialità e i rapporti interpersonali.

[1] Espressione tratta da un discorso di Mussolini del 2 ottobre 1935.

[2] Don Benito Poltronieri (nato a Gavello di Mirandola nel 1928 e parroco a Cortile per 48 anni).

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