Livio Bonfatti – La camarina di póm gdógn – La cameretta delle mele cotogne
Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana che si distende dalla via Emilia sino al Po.
Principali pubblicazioni.
- Bonfatti, Mirandola sulla Secchia, in La Sgambada , 5ª edizione, Mirandola 1985.
- Calzolari- L. Bonfatti, Il Castello di Mirandola dagli inizi del Settecento alla fine dell’Ottocento: “descrizioni”, documentazione cartografica e trasformazioni planimetriche, in Il Castello dei Pico. Contributi allo studio delle trasformazioni del Castello di Mirandola dal XIV al XIX secolo, Mirandola 2005.
- Bonfatti, Manfredo del Fante. La Bassa Modenese sul finire del XII secolo, vista attraverso le vicende di un cavaliere medievale, «QBMo», 70 (2017).
La camarina di póm gdógn
[La cameretta delle mele cotogne]
Come già detto in altri racconti, ho abitato, sino al 1960, in Crocicchio Zeni, gruppo di case poste nella frazione di San Giacomo Roncole. Però ricordo, con molta nostalgia, i mesi estivi, coincidenti con le vacanze scolastiche, trascorsi alla Personala, nel fondo agricolo coltivato da mio nonno materno Piren (Pietro) e denominato la Possioncella.
Tutte le mattine andavo in bicicletta alla Personala, assieme a mia madre che, per il resto della giornata, avrebbe aiutato Piren, nei lavori agricoli stagionali.
Sulla strada percorsa non mancavo mai di dare una occhiata ad una chiesetta-oratorio posto a ridosso della via Personala e agli edifici retrostanti, abitati fino a pochi decenni prima, da personaggi per me “favolosi”, come l’attrice trasformista Fatima Miris e dai conti Personali. I compiti affidati, a me bimbo, erano pochi e limitati ad alcune incombenze di aiuto alla cuoca, zia Nina, quali reggere il cesto per la raccolta della verdura e della frutta di stagione o recarmi nel pollaio per “alvar i ov”, deposte dalle galline ovaiole. Oppure andare a cercare, nei prati, le uova delle galline faraone. Queste “selvatiche” avevano l’abitudine di deporre le uova non nel pollaio, ma nei campi dove, in gruppo, si recavano per “beccheggiare” semi, insetti o lombrichi. Per eseguire bene questo ultimo compito dovevo, durante la giornata, osservare le faraone nei loro movimenti.
Altro compito eseguito sia al mattino che al pomeriggio era di portare un fiasco di acqua fresca alle persone che stavano lavorando nei campi. Il fiasco era notevolmente pesante e il cammino, lungo il “caradon”, estenuante, in particolare sotto il sole cocente. Qualche volta per questa mia “fatica” venivo canzonato, in quanto mia madre mi diceva:«Stà a l’òra [Resta all’ombra!]» e se io avessi risposto:«In du éla l’òra??[Dove si trova l’ombra??]», in coro mi rispondevano:«In du a gh’è scur![Dove c’è scuro!]».
Il mio mondo d’allora aveva ben precisi limiti da raggiungere con la mia bicicletta: la via Pezzetta, a partire dall’oratorio Personali e la via Margotta, dal “Stradel dl’à buśa” (così chiamato in quanto era fiancheggiato da un macero per la canapa, ma ora denominata via Di Mezzo). Entrambi le vie si univano verso Disvetro, località “mitica”, che non ho mai raggiunto, perché troppo distante dalla Personala.
Spesso, però, questo mondo si limitava al complesso di edifici annessi al fondo agricolo, ovvero: l’abitazione della famiglia di mio nonno, la stalla, il sovrastante fienile, la porcilaia comprendente anche il forno per cuocere il pane e il pollaio.
Nell’abitazione ero incuriosito da due luoghi un poco “misteriosi”, il primo dei quali era rappresentato dal”cantóñ dal zùclar”[angolo del ciabattino]. Una volta, per le famiglie particolarmente numerose, il ciabattino si recava nell’abitazione dell’agricoltore e vi rimaneva un certo periodo di tempo, necessario per risuolare le scarpe, preparare “zòcui” od altri tipi di calzature. Diventava con ciò, vivendo con loro, un componente della famiglia. Per il ciabattino era sempre pronto il suo angolo, attrezzato di tutto punto, con tavolino, forme, martelli e chiodature.
L’altro locale “misterioso” era rappresentato dalla “camarina di póm gdógn”, cioè la cameretta delle mele cotogne. Era un piccolo locale, posto al piano primo del fabbricato colonico, fra due camere da letto. Abitualmente la porta d’ingresso al locale era sempre chiusa e ciò mi incuriosiva ancor di più. Cosa mai poteva ospitare quel locale, denominato da tutti, la “camarina di póm gdógn”? Quando raggiunsi i 9-10 anni d’età, mia zia Nina mi mandò nella “camarina” a ritirare un vasetto di “savór”. Solo allora ebbi l’occasione di rendermi conto cosa fosse collocato nel locale. A fianco della porta c’era un piccolo armadio che custodiva diversi vasetti di marmellata, “d’savór”, di cotognata[1], di amarene sotto “spirit” e bottigliette di “sab[b]a”. Sopra all’armadietto erano collocate, in bella mostra, alcuni “pom granâ”, cioè le melagrane, in attesa della loro maturazione. Continuando sullo stesso lato, ma appoggiate al pavimento, cassette contenente i “pòm gdògn”, di cachi, di mele campanine[2], di nespole nella paglia[3]. Sul lato a sinistra della porta, comparivano nell’ordine: una forma di formaggio parmigiano-reggiano, appoggiata su una tavola in legno, a sua volta appesa con fili di ferro alle travi del soffitto e tutto ciò per evitare che qualche topolino raggiungesse il formaggio. Sulla stessa tavola era posta una bella fetta di pancetta tesa, per l’uso di cucina. Infine in fondo alla stanzetta compariva una piccola damigiana come contenitore dei “letti madre “ dell’aceto, prodotto in casa con i fondi di bottiglia che inacidivano.
[1] Per le ricette del “savór” , della cotognata e della “sab[b]a” rinvio a quanto pubblicato da Al BARNARDON, fra le “Rubriche”, alla voce “Ricette della Bassa”.
[2] Quando parlo delle mele campanine mi viene sempre in mente una strofa di una poesia di un poeta possidiese, che così recitava.”…se una mela al giorno toglie il medico di torno, con un ‘pom campanen an na ven gnéch d’avseñ’”.
[3] Ovvero come da detto popolare:«Con al temp e con la paia as maduriss i néspui».